Il tempo pieno nella scuola primaria ha una storia lunga che risale ormai a 51 anni fa, quando, con la Legge n. 820 del 24 settembre 1971, il modello del tempo pieno entrò nell’ordinamento dell’allora scuola elementare “….con lo scopo di contribuire all’arricchimento della formazione dell’alunno e all’avvio della realizzazione della scuola a tempo pieno..”, dapprima come sperimentazione di attività integrative pomeridiane “…in ore aggiuntive a quelle costituenti il normale orario scolastico, con specifico compito, da insegnanti elementari di ruolo….“ e poi, con la Legge 148 del 1990, sancendo l’introduzione delle classi a tempo pieno come modello unitario e senza alcuna differenziazione di ruolo tra i docenti con il conseguente raddoppio dell’organico docenti.
Da allora il modello del tempo pieno, nonostante molteplici vicissitudini legate per lo più al bisogno di garantire restrizioni agli organici, ha conosciuto un’affermazione crescente al punto tale che oggi rappresenta il modello di tempo scuola prevalente della primaria nel nostro Paese.
Prova ne è la tabella, pubblicata sul sito del Ministero dell’Istruzione in data 4 febbraio 2022, contenente i primi dati relativi all’andamento delle iscrizioni per l’anno Scolastico 2022/23, da cui si evince che, per il nuovo anno scolastico, alla scuola primaria, al tempo pieno potranno accedere il 47,2% delle bambine e dei bambini, mentre segue a distanza, solo con il 31,6%, la quota relativa al modulo delle 27 ore settimanali.
A fronte di queste percentuali, la Fondazione Openpolis ETS, analizzando i dati ufficiali forniti dal M.I., ha registrato una continua crescita di interesse per il modello a tempo pieno: nelle scuole primarie, nel triennio 2017/2020, la percentuale di iscritti al tempo pieno è salita dal 39,9% del 2017 al 41,9% del 2020.
La media statistica relativa al tempo pieno, però, è un dato poco significativo se, come ci ricorda Trilussa, non si considerano tutti i casi che si discostano da essa. Com’è facile verificare, infatti, la distribuzione delle percentuali di tempo pieno autorizzato dal Ministero è molto differenziata sul territorio nazionale con scostamenti dalla media nazionale particolarmente consistenti: si va dal 64,9% del Lazio al 16,2% della Sicilia e dal 62,4% della Toscana si precipita al 25,6 della Puglia. A questa forbice fortemente divaricata fa da contrappeso tra le regioni una tendenza all’omogeneità per zone territoriali: tutte le regioni del sud Italia, ad esclusione della Basilicata, hanno medie di accesso al tempo pieno abbondantemente al di sotto della media nazionale (dal 16,2% della Sicilia al 32,8% dell’Abruzzo), mentre tutte le regioni del nord Italia hanno medie sensibilmente al di sopra (dal 47,5% del Veneto al 62,3% della Liguria).
Questo dato certifica impietosamente il danno formativo che subisce un bambino meridionale per il solo fatto di essere nato al Sud dove domina il modello a 27 ore: infatti in un anno scolastico quest’ultimo complessivamente frequenta 891 ore di lezione (27 ore settimanali per 33 settimane) a fronte delle 1320 ore di un bambino inserito nel tempo pieno, con un saldo negativo in termini di opportunità formativa pari a 429 ore. Nell’arco dell’intero ciclo quinquennale della primaria, quindi, la differenza è di 2.145 ore. Per semplificare possiamo dire che un bambino che settimanalmente frequenta la scuola per sole 27 ore (in buona percentuale collocato in una delle regioni meridionali) alla fine del ciclo della primaria avrà passato a scuola più di due anni in meno rispetto a un bambino (in alta percentuale collocato in una regione settentrionale) che settimanalmente frequenta la scuola per 40 ore!
Ma non finisce qui, perché il danno formativo in realtà inizia già prima del ciclo primario: come ci ricorda il rapporto Istat del 2017/18 “Nidi e servizi educativi per l’infanzia” nell’anno scolastico 2017-2018 la spesa statale per i servizi socioeducativi destinati ai bambini pugliesi ammonta a circa un sesto rispetto a quella sostenuta per i coetanei nati in Emilia-Romagna; complessivamente, i posti disponibili nei nidi e nei servizi integrativi pubblici corrispondono al 12.3% del bacino potenziale di utenza al Sud, a fronte di una media nazionale del 24.7%.
Ma, tornando alle differenze geografiche sul tempo scuola nella primaria, gli spunti di riflessione non finiscono qui perché il diverso ricorso al tempo scuola produce anche una consistente differenziazione tra gli organici dei docenti a parità di studenti iscritti. Un esempio lampante è rappresentato dalla comparazione dei dati di Puglia e Piemonte: le due regioni in questione hanno un numero simile di iscritti (rispettivamente 161.736 e 162.955) ma, al netto delle diverse complessità territoriali, a causa dell’enorme differenza sul tempo pieno (rispettivamente 25,6% e 61,8%) i docenti della scuola primaria in Puglia sono 13.521, mentre in Piemonte sono 15.332. Quindi, quasi a parità di studenti iscritti, in Piemonte ci sono 1.811 docenti in più rispetto alla Puglia. Inutile osservare che, con la diffusione del tempo pieno, nelle scuole del meridione si creerebbero maggiori possibilità lavorative per le migliaia di insegnanti che ogni anno si trasferiscono nelle regioni del Nord per avere la cattedra.
Come non vedere nel diverso accesso al tempo scuola nel ciclo della primaria l’origine della dispersione scolastica e delle povertà educative che affliggono il nostro Sud? E come non cogliere in questo divario formativo una delle cause determinanti delle disparità territoriali che minano da sempre l’unità territoriale del nostro Paese? Oggi, di fatto, l’Italia è una Repubblica che presenta rilevanti sperequazioni territoriali nella fornitura di servizi essenziali, imputabili, a nostro avviso, proprio alla spinta federalista dei primi anni Duemila. Tale spinta ha comportato uno spostamento dell’ottica complessiva del ruolo dello Stato nei confronti delle funzioni pubbliche attribuite alle Regioni e agli enti locali spostandone l’obiettivo che non è più rivolto al puro sostegno delle spese da effettuare ma lo limita alle risorse disponibili attraverso l’adozione del criterio della cosiddetta “spesa storica”, secondo cui le risorse sono assegnate in misura percentuale a quanto già speso in precedenza.
Non a caso, infatti, una delle cause che giustifica la mancata erogazione del tempo pieno nel Mezzogiorno notoriamente consiste nelle pessime condizioni materiali e infrastrutturali in cui versano le scuole del Sud, le cui responsabilità ricadono in buona parte sugli enti locali: mancano locali adeguati alla mensa – che deve essere gratuita per i meno abbienti – e mancano adeguati trasporti scolastici, servono biblioteche, laboratori, palestre, spazi per il teatro, aule da dedicare alla pittura, alla musica e ad attività creative.
Eppure, finora, a nessuno è chiaro se il progetto autonomista che si vuole introdurre si baserà sulla spesa storica o sui livelli essenziali delle prestazioni (LEP). A parole sono tutti a favore dei LEP, quell’insieme di servizi e prestazioni di carattere sociale, erogati dagli Enti locali, che lo Stato deve garantire in modo uniforme su tutto il territorio nazionale per evitare ogni discriminazione derivante dal luogo di residenza, ma, nei fatti, finora il criterio adottato è stato proprio quello della “spesa storica”, con il risultato - scontato - che riceve di più chi già assicurava il servizio, al contrario di chi non lo aveva mai erogato o lo erogava in misura ridotta.
Come osserva Marco Esposito, in questo modo viene meno ogni logica solidaristica e, al contrario, accade che se hai tanti servizi, “hai più bisogni e dove ci sono maggiori bisogni interviene il Fondo di solidarietà comunale, che quindi copre più Milano che Napoli, più Bologna che Bari, più Venezia che Taranto, più Monza che Salerno e sostiene più Sesto San Giovanni che Giugliano”. (“il Mattino”, 7 luglio 2022). Come dire: con la spesa storica la solidarietà funziona, certo, ma al contrario di quello che sarebbe intuitivo e favorendo maggiormente chi i servizi essenziali già li eroga.
Così continuando non spezzeremo mai il circolo vizioso che fa dipendere il fallimento scolastico dalla povertà economica, prova ne sia il recente rapporto (7 settembre 2022) di “Save the children”, una Ong (Organizzazione non governativa) riconosciuta dal Ministero degli Affari Esteri, che ha condotto in Italia un’analisi delle disuguaglianze nell’offerta di tempi e spazi educativi nella scuola italiana rivelando quanto un’offerta adeguata di spazi e tempi educativi sia importante per ridurre le disuguaglianze educative e combattere il fenomeno della dispersione scolastica. Il dato statistico politicamente più interessante dell’inchiesta fa emergere con chiarezza che quand’anche si sia in presenza di province con una maggiore incidenza di studenti in svantaggio socioeconomico, laddove a livello locale sia garantita un’offerta adeguata di spazi e tempi educativi, il livello degli apprendimenti è sostanzialmente in linea con la media dei punteggi in matematica e italiano a livello nazionale. Come dire: un’offerta scolastica adeguata è determinante per ridurre le disuguaglianze educative generate dalle situazioni di povertà economica.
Conclusioni.
Con la Legge di Bilancio 2022, per la prima volta nel nostro Paese, sono stati finanziati sia i LEP per gli asili nido - con l’obiettivo del graduale raggiungimento entro il 2027 di una copertura del 33% di posti disponibili rispetto alla popolazione fino a tre anni d’età - che i LEP per il trasporto scolastico di alunni con disabilità con un impegno di spesa che nel 2027, a regime, sarà pari a 1,220 miliardi di euro, di cui 1,1 miliardi per garantire i LEP degli asili nido e 120 milioni per il trasporto alunni con disabilità.
Riteniamo che si possa e si debba procedere, prima dell’avvio di qualsivoglia percorso di autonomia differenziata, all’individuazione e al consolidamento del diritto ad un tempo scuola adeguato e garantito dallo Stato in maniera omogenea su tutto il territorio nazionale per assicurare uno standard di qualità e quantità del servizio erogato adeguato alle esigenze di bambine e bambini a prescindere dal loro luogo di residenza. Si potrebbe, ad esempio, adottare una copertura del tempo pieno inizialmente pari alla media nazionale del 47,2% delle classi per poi arrivare a garantire una copertura pari almeno al 95% delle regioni con la copertura delle classi più alta. Si pensi che già solo con la copertura del 47,2 % in Puglia si avrebbe un incremento di organico di oltre 1.000 docenti.
Analogo discorso si può fare per quanto attiene il tempo prolungato nella secondaria di primo grado e, soprattutto, per quanto attiene la lotta alla dispersione scolastica. Ma questa è un’altra questione su cui si dovrà aprire un confronto serio anche in termini di estensione dell’obbligo scolastico.