Politiche educative

28 giugno 2021

Scuola. Il sorprendente cambio di paradigma dell’Economist

Lo speciale dell’Economist di questa settimana è dedicato a come il covid-19 abbia distrutto l’istruzione su una scala mai vista prima. Dalla metà del mese di aprile 2020, più del 90% degli studenti del pianeta è stato costretto a non tornare a scuola. E le chiusure sono durate mesi, danneggiando l’apprendimento, la sicurezza e il benessere di alunni e studenti. E dal momento in cui i ragazzi dei Paesi ricchi tornano a scuola, ecco che i riformatori sperano che lo choc possa condurre a cambiamenti che rendano le scuole più efficienti, flessibili e giuste. L’Economist sostiene dunque che a livello planetario la chiusura abbia provocato numerosi ed enormi danni a bambini e adolescenti, e che questi ultimi avranno bisogno di un fortissimo sostegno per recuperare l’apprendimento perduto. E tuttavia, richiama l’attenzione dei lettori sulla qualità delle riforme che i governi nazionali renderanno concrete: quale paradigma si seguirà? L’invito dell’Economist è sorprendente, è una sostanziale bocciatura del modello neoliberista e aziendalista.

“Le grandi crisi hanno talvolta trasformato la scolarizzazione per il meglio” scrive l’Economist. “La Seconda guerra mondiale impose in Gran Bretagna la legge Butler, che prevedeva l’obbligo scolastico e aboliva le tasse scolastiche ancora presenti in molte scuole statali. Dopo l’uragano Katrina che inondò New Orleans, vennero promulgate leggi che riformavano la scuola. Nove anni dopo i tassi di iscrizione alle scuole superiori crebbero tra il 9 e il 13%”. Ora è il momento di fare i conti con un virus che ha letteralmente distrutto l’istruzione come mai prima. I modelli tradizionali di scuola si sono dimostrati sufficientemente durevoli in questo periodo, afferma lo storico dell’educazione a Stanford, Larry Cuban, secondo il quale i genitori valutano efficienza e disciplina proprie dei vecchi modelli scolastici. Il commento del professor Cuban all’Economist è forte: “la gente lo vuole e piace, anche se se ne lamenta”. Tuttavia, anche prima della pandemia c’erano motivazioni per chiedersi se le scuole del mondo ricco stessero perdendo fiato. I test dell’Ocse dimostrano ampiamente che alunni e studenti di oggi ottengono punteggi più scarsi rispetto ai loro coetanei di due generazioni fa. E un’inchiesta Gallup del 2017 concluse che solo un terzo dei liceali in America si sentivano “impegnati” a scuola. Il covid-19 e la chiusura degli edifici scolastici hanno costretto insegnanti e docenti alle lezioni da remoto, collaborando insieme sulle piattaforme. Gran Bretagna, Francia e Irlanda hanno cancellato gli esami di maturità. Per la vasta maggioranza delle famiglie americane l’insegnamento online è stato spesso “disappointing and disastrous”, afferma Justin Reich del Teaching Systems Lab del Massachusetts Institute of Techonology (il MIT). E i dati provenienti da tutto il mondo dimostrano ampiamente che nella media i ragazzi hanno imparato molto meno di quanto facevano prima. In Inghilterra, l’apprendimento degli alunni delle primarie, ad esempio, è crollato letteralmente, e il governo ha negato i fondi per il sostegno pubblico. In Belgio, i test effettuati in queste settimane hanno rilevato analoghi crolli nell’apprendimento e in Olanda uno studio ha scoperto che durante un periodo di otto settimane di didattica a distanza gli alunni non avevano imparato letteralmente nulla di nuovo.

Non solo. L’Economist punta poi l’analisi sulle spiacevoli conseguenze psicologiche delle chiusure. E cita uno studio secondo il quale in Italia sono aumentati, e di parecchio, i casi di anoressia tra gli adolescenti durante le chiusure. In Giappone, si sono verificati aumenti nei casi di autosofferenza, mentre in Australia una ricerca ha evidenziato un livello inferiore di maturità e di responsabilità negli studenti sottoposti a regimi intensi di didattica a distanza. “Il loro sviluppo sociale non corrisponde al loro sviluppo accademico”, afferma Euan Morton, docente in un liceo di Melbourne. Inoltre, scrive ancora l’Economist, la chiusura delle scuole ha alimentato la consapevolezza delle disuguaglianze. Anche prima della pandemia i sedicenni delle famiglie britanniche più povere erano distanti nell’apprendimento di sedici mesi dai loro coetanei più ricchi. La conoscenza della matematica tra gli studenti americani era sostanzialmente uno dei tratti che differenziava i ricchi dai più poveri. A questo punto, l’Economist si chiede e chiede ai suoi lettori se davvero valga la pena investire nella scuola per tutti, dati tutti gli elementi emersi dalla pandemia. Ebbene la risposta di uno dei settimanali economici dalla tradizione più liberale del mondo è la seguente: “Bisogna tornare alla scuola pubblica, occorre tornare a far in modo che le scuole rispondano ai bisogni educativi specifici di ciascuno, proprio per ridurre le distanze”. Non solo. L’Economist afferma, insieme a Paul Reville della Harvard University, che le scuole devono “finalmente farla finita col modello aziendalista, che fornisce a ogni studente la stessa quantità di tempo e spazio, mentre è necessario investire in una scuola flessibile, nel tempo, nello spazio, nelle modalità di apprendimento, in modo che nessuno resti indietro”.

Certo, le conclusioni dell’Economist sembrano piuttosto amare, ma quell’insistere sui necessari cambiamenti, quasi rivoluzionari, nella struttura stessa dell’istruzione affinché esca dai diktat neoliberisti, sembra un vero e proprio cambio di paradigma, di cui occorre tener conto. “Ci sono tante ragioni per essere pessimisti”, scrive infatti l’Economist su “quanto velocemente e completamente le scuole possano riformarsi dopo la pandemia. Gli insegnanti sono esausti. Le relazioni tra i sindacati e le autorità politiche sono fallite. I governi stanno stringendo la cinghia nei bilanci statali. I genitori hanno dovuto lasciare il lavoro a tempo pieno e a tempo pieno si sono dedicati ai figli, alla loro supervisione e alla loro istruzione, ed oggi sono disperati quando i figli chiedono maggiore investimento di tempo per loro. Ma il passaggio alla didattica a distanza ha dimostrato che le scuole pubbliche sono in grado di trasformazioni straordinarie. Le riforme che tempo fa sembravano spaventare, oggi appaiono semplici da realizzare”. E se credessimo anche noi in questa speranza, che è un vero e proprio cambio di paradigma nel pensiero neoliberale? E se anche in Italia affrontassimo il problema della scuola partendo da questo cambio di paradigma? L’Economist dice basta al modello educativo aziendalista, rigido nel tempo e nello spazio, e sostanzialmente autoritario. Non dovremmo fare lo stesso, in Italia?

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L'autore

Pino Salerno