Politiche educative

23 giugno 2021

Università: lo strabismo del Piano Nazionale

La strategia per l’Università del PNRR si concentra sulle riforme e gli investimenti descritti nelle schede di lettura della FLC CGIL.

Gli obiettivi sono articolati in due componenti.

Nella prima spicca l’investimento per gli “Alloggi per gli studenti”, per favorire la realizzazione, da parte di privati, di nuove strutture di edilizia universitaria. L’incentivo è dato dalla copertura degli oneri di gestione dei primi tre anni da parte del Ministero. L’intento è di triplicare i posti per l’ospitalità dei fuorisede. L’impegno e le risorse, in altri tempi lodevoli, sembrano esporsi oggi ad un giudizio più cauto che motiva lo strabismo del titolo. In questo periodo si è verificato il buon esito, a livello universitario, della didattica a distanza, e preconizzato il suo perpetuarsi dopo l’emergenza soprattutto per il vantaggio di diminuire i fuorisede. Consente di ridurre la necessità della presenza in atenei distanti dalla residenza risparmiando gli oneri necessari. Un’opportunità per favorire iscrizioni e partecipazione. Risparmi su questo investimento potrebbero rifluire sull’altro, destinato ad aumentare le borse di studio e ridurre i costi per l'accesso.

La riforma delle classi di laurea potrebbe promuovere il ripensamento dei contenuti della formazione universitaria. Essere foriera della ‘visione’ che desidereremmo intravvedere. Potrebbe essere l’occasione per ripensare la funzione dell’Università in un contesto del tutto nuovo. Dopo l’esperienza vissuta, appaiono obsoleti modelli che hanno caratterizzato politiche e comportamenti sociali. È sovvertito il rapporto ‘Stato-Mercato’, risolvendosi, a vantaggio del primo, la prevalenza per l’equilibrato sviluppo della società. Concetti quali: ‘competizione’, ‘selezione’, ‘meritocrazia’, cedono il passo ad espressioni di tutt’altro tenore: ‘solidarietà’, ‘uguaglianza’, ‘concorso’, ‘fare squadra’, “nessuno si salva da solo”. Danno la misura della trasformazione ideologica e culturale che stiamo vivendo.

Anche il Piano europeo è frutto di questa sensibilità. Può l’alta formazione mostrarsi disattenta a questo salto culturale? Con la revisione degli ordinamenti didattici si avvia una scommessa. Può dar vita a ritocchi marginali dell’impianto attuale o proporre un’istituzione dal volto nuovo. L’attuale abbozzo non consente di fare previsioni. Il Piano è consapevole che la complessità richiede conoscenze ampie nei primi anni, salvo ritornare alla specializzazione nelle lauree magistrali o nei dottorati. Una dicotomia nell’ambito di un unitario percorso di studio che potrebbe alterarne la linearità.

Se si ritiene di adeguare l’alta formazione alle esigenze del mercato, anche attraverso il connubio con gli istituti tecnici superiori e le imprese, sarebbe più semplice riconoscere che il concetto di ‘Universitas’ va consegnato alla storia e che la complessità richiede oggi due distinti apparati per la formazione superiore. Uno orientato al mercato, l’altro per coltivare il patrimonio culturale costitutivo dei nostri valori. La separazione consentirebbe chiarezza di obiettivi per ciascuna entità. Consentirebbe anche di selezionare la docenza con vocazione appropriata all’una o all’altra finalità. Il docente universitario segue un ‘cursus honorum’ lontano da esperienze professionali. Non gli si può chiedere che dalla teoria passi alla pratica senza colpo ferire. Non è un caso se i tentativi fatti in questa direzione, fin da anni lontani, hanno avuto esiti fallimentari. Emblematica l’introduzione dei diplomi professionalizzanti, voluti da Ruberti negli anni ’80 e presto abbandonati per il deludente risultato. Il progetto si propone di consentire flessibilità nella progettazione dei corsi. Se l’obiettivo è rafforzare le competenze multidisciplinari, la loro organizzazione dovrebbe scaturire da ben più ampia riflessione. È un capitolo determinante per rimuovere le incrostazioni che riducono l’attrattiva dell’Università.

Un sistema formativo aggredito da iniziative private concorrenti sempre più diffuse ed efficaci. Più agevoli per il conseguimento di titoli, presentati quale viatico professionale privilegiato. Neppure è da sottovalutare chi porrà mano alla ridefinizione dei corsi e crediti. L’ entità di questi gratifica il docente perché dà la misura dell’importanza della sua disciplina e del suo prestigio. È comprensibile il braccio di ferro per affermarne il valore. Se sarà la sola corporazione a porre mano alla revisione, le speranze non sono ottimistiche. Abbiamo i risultati delle tante esperienze risolte in nulla di fatto! Il Piano ribadisce la necessità delle lauree professionalizzanti. Lo sdoppiamento qui è nei fatti. Sono previste lauree abilitanti per alcune professioni, colmando così la differenza tra percorsi per titoli accademici e per abilitazioni professionali. Ulteriore propensione per un’Università orientata al mondo del lavoro. Sul tema, del resto, sono già impegnate le Commissioni II e VII della Camera. Ulteriore riforma è quella dei dottorati. Prevede l’aggiornamento, della disciplina e la semplificazione per coinvolgere imprese e centri di ricerca e per istituire percorsi non finalizzati alla carriera accademica. Anche qui l’opzione economicista è evidente.

La seconda componente “Dalla Ricerca all’Impresa” già nel titolo chiarisce la finalità. Mira a sostenere gli investimenti in R&S e a favorire la transizione verso una economia basata sulla conoscenza. Per l’analisi e il giudizio è essenziale il contributo di Alberto Silvani. Mi auguro possa porre le premesse per un confronto a più voci su un tema cardine dello sviluppo della nostra società. Qui, sottolineo che ‘l’economia basata sulla conoscenza’ non può e non deve voler dire che la conoscenza debba incentrarsi sull’economia e progettare i propri percorsi in vista di risultati che privilegino il valore economico a discapito dell’utile collettivo. Durante la pandemia abbiamo preso coscienza di quanto siano fallaci concetti radicati sulla misura dei corrispettivi attribuiti ad alcune attività piuttosto che ad altre. Compensi che generano una sorta di graduatoria meritocratica. Chi ottiene maggiori vantaggi economici li merita, si sostiene, in virtù del talento e dell’impegno. Abbiamo ora constatato che il medico rianimatore che ti salva la vita non ha paragone con il calciatore che riceve milioni, perché così il mercato consente, o con l’amministratore delegato della società finanziaria che, facendo arricchire i soci, lucra cifre inarrivabili per chi opera in ospedale.

La scala dei valori e dei meriti nelle nostre comunità va urgentemente riconsiderata e il Piano potrebbe costituire l’innesto di una opportuna deflagrazione in questo senso. Non mi sembra che la miccia sia accesa! I progetti per la ricerca esprimono tutti un’opportunità di integrazione, collaborazione e incentivo all’osmosi tra istituzioni, settori, imprese. Se è innegabile l’utilità di questo processo, mi chiedo se non sia preferibile spingersi oltre e procedere ad una più funzionale riorganizzazione delle strutture.

La ricerca scientifica non può tollerare suddivisioni fittizie che ne differenzino modalità di impegno e finalità. È tutta preziosa e utile. Ha senso, allora, cercare l’integrazione tra attori e reti nei singoli progetti e non riconsiderare un loro allestimento appositamente studiato, dotandole dei mezzi per svolgere al meglio la loro attività? Ha senso parcellizzare o moltiplicare strutture che potrebbero costituire patrimonio comune e disponibile per tutti i ricercatori? Ha senso incoraggiare attività di docenza dei ricercatori degli enti di ricerca e favorire il passaggio reciproco tra le due istituzioni delle diverse figure di accademici e ricercatori? Non sarà l’occasione di chiedersi se sia ancora giustificata la distinzione tra Università e Enti di ricerca o se sia tempo di riflettere sull’utilità di assemblare in entità autonome dipartimenti e istituti che abbiamo medesime finalità? Se, infine, non sia il caso di procedere ad un'unica tipologia di rapporto per tutti i ricercatori pubblici e privati dovunque operino. Sono domande che richiederebbero risposte difficili, complesse e delicate per gli interessi che coinvolgono. Sono tuttavia interrogativi che varrebbe la pena porre all’attenzione della politica e di un pubblico più vasto di quello degli addetti ai lavori.

Discussioni e riflessioni che un Piano destinato a delineare le condizioni di vita delle future generazioni dovrebbe avviare!

Questo articolo verrà approfondito nel prossimo numero di Articolo 33 che è attualmente in stampa.

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L'autore

Fabio Matarazzo