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Università del futuro

L’UNIVERSITÀ ITALIANA TRA PNRR E NUOVE EMERGENZE

L’arrivo della pandemia nel 2020 ha trovato l’università italiana in una fase di ripresa, dopo un tragico decennio. La doppia recessione 2009/2012 e la crisi dell’euro erano state infatti affrontate dai governi dell’epoca (Berlusconi, Monti e poi Renzi) con il taglio radicale degli investimenti su Istruzione e Ricerca. La spesa complessiva per l’educazione calò, tra 2009 e 2012, dal 4,5% al 4,1% del PIL, per poi scendere ancora al 3,9% sino alla fine del decennio (un taglio di quasi 10 miliardi di euro all’anno). L’università vide franare le sue risorse: il Fondo di Finanziamento Ordinario (il trasferimento dello Stato agli atenei, che copriva oltre l’80% dei bilanci) scese da 7,39 a 6,70 miliardi (oltre il 20% in termini reali, da 6,16 a 5,05 a prezzi costanti del 2000). Un buco che è stato parzialmente coperto ricorrendo, come negli anni ’90, all’unico portafoglio disponibile: le tasse universitarie sono aumentate del 61%, da 775 euro medi a 1.249, come ha ricordato il rapporto UDU del 2016 Dieci anni sulle nostre spalle. Così, si è contratto un sistema di formazione terziaria che già soffriva di dimensioni ridotte (un tasso di laureati tra i più bassi dell’OCSE, poco superiore al 20%): il personale docente è calato dagli oltre 63mila del 2009 a meno di 51mila nel 2015, il personale tecnico amministrativo e bibliotecario da quasi 65mila a meno di 54mila (il 20% in entrambi i casi); i dottorandi da quasi 15mila a meno di 10mila; gli immatricolati (i neo iscritti) da oltre 310mila a 250mila, gli iscritti ai corsi di laurea da 1.830.000 a 1.650.000. Una contrazione tragica che ha prodotto un decennio perduto per una generazione di studenti e studiosi, indebolendo la struttura sociale ed economica del paese.

La pandemia e la ripresa
Gli ultimi anni prima della pandemia, come detto, hanno però visto una ripresa. Dal 2016 FFO, studenti e personale docente sono tornati a crescere (il personale tecnico amministrativo e bibliotecario invece no: le nuove regole sui bilanci hanno infatti moltiplicato le esternalizzazioni, con appalti e personale precario pagato spesso pochissimo con contratti multiservizi o della vigilanza). Si sono ripresi gli investimenti sull’università (i piani straordinari per il personale docente, la Notax area per gli studenti, i Dipartimenti di eccellenza, ecc), sebbene in forme ancora insufficienti: solo nel 2021, dopo la pandemia, si è raggiunti un FFO reale, un numero di immatricolati e studenti paragonabile al 2008/09. Questa fase espansiva, però, si è dispiegata secondo le direttrici della cosiddetta Legge Gelmini: questa revisione del 2010, oltre a verticalizzare la governance (concentrando poteri negli Ordinari, nel Rettorato e nella Direzione generale), ha strutturato un ampio precariato (assegni, borse, RTDa, ecc) e radicalizzato l’autonomia degli atenei (anche con la regolazione del personale docente e precario attraverso i regolamenti, la diversificazione del personale contrattualizzato attraverso fondi di ateneo e salario accessorio). Questa autonomia ha quindi completato la costruzione di un sistema di quasi-mercato (New Public Management), attraverso una centralizzazione della valutazione (ANVUR, VQR; AVA, ecc) e una messa in competizione degli atenei, sia nelle iscrizioni (a cui si legava il finanziamento), sia nell’acquisizione delle risorse (Dl 49/2012 sulla distribuzione dei punti organico, cioè le facoltà assunzionali; diminuzione della quota base del FFO, oggi meno del 50% del fondo; inserimento e aumento di quote premiali, dipartimenti di eccellenza, piani straordinari distribuiti con criteri premiali). Così, con i tagli è emersa una divergenza che si è consolidata con l’espansione: secondo il principio a chiunque ha sarà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha si sono distribuite le scarse risorse agli atenei forti, che potevano contare anche su un territorio di supporto (enti locali, fondazioni e studenti in grado di contribuire), a scapito di quelli più periferici (spesso questo ha voluto dire trasferire finanziamenti e studenti dal sud al nord, anche se esistono realtà periferiche nel settentrione e atenei in espansione nel meridione). Si è aperta una divaricazione tra le sedi, in nome della costruzione di poche eccellenze. LA FLC CGIL ha più volte denunciato come il calo degli organici sia stato molto diverso tra le sedi (non si è recuperato il 68% delle cessazioni al sud, ma solo il 34% al nord), come ci siano stati atenei che hanno aumentato la propria quota di FFO (talvolta anche senza una parallela crescita di studenti) ed altri hanno visto precipitare i finanziamenti statali. Mentre ovunque è cresciuto il precariato (15mila assegnisti, 4/5mila RTDa, quasi 30mila contratti di docenza).

La pandemia è stata gestita confermando questi indirizzi. L’allora ministro Manfredi e poi la sua successora Messa hanno infatti deciso di enfatizzare ulteriormente l’autonomia. Gli atenei sono stati praticamente l’unico settore senza protocolli nazionali durante l’emergenza sanitaria: mentre scuole, imprese, supermercati, spiagge e bar erano soggetti a normative uniformi, ogni ateneo ha assunto decisioni discrezionali sui metri di distanza (da 1 a 3), la quarantena dei libri (da 48 ore a 10 giorni), il riempimento delle aule o le modalità con cui erogare la propria didattica. Ognuno si è costruito proprie regole e prassi per le lezioni (in streaming o tramite registrazioni), le modalità degli esami, le attività di laboratorio e di ricerca. Regole e prassi che si sono mantenute nel tempo: ancora oggi esistono atenei che tengono esami online, anche da casa, quando la normativa lo vieterebbe dal 31 marzo 2022, giorno in cui è finito lo stato di emergenza. In questa stagione, non a caso, sono state introdotte nelle pieghe di questo o quel decreto, di questa o quella legge, piccole norme che hanno ulteriormente allargato le maglie dell’autonomia: la possibilità per tutti gli atenei di accedere a quanto previsto dall’art. 1 comma 2 della legge 240/2010 (autonomia differenziata su organi di governo, organizzazione della didattica e della ricerca), la flessibilizzazione degli ordinamenti didattici e la revisione dei Settori Scientifico Disciplinari, l’articolazione dei carichi didattici per i propri docenti.

Il PNRR e le nuove crepe del sistema universitario italiano
Il PNRR si è innestato in questa dinamica con risorse rilevanti e finalizzate. Rilevanti: oltre 15 miliardi sono stati dedicati a università e ricerca, più di 11 nel perimetro del MUR (in pratica, le risorse annuali del Ministero, un aumento di quasi il 20% nel quinquennio di applicazione del Piano). Finalizzate: come ricordato nella premessa del Piano, l’obiettivo prioritario è stato quello di aumentare la produttività totale dei fattori. Larga parte delle risorse sono state dedicate al trasferimento dalla ricerca all’impresa (titolo della seconda componente della Missione 4), con la costruzione di nuovi centri nazionali e territoriali di ricerca, dottorati industriali, ecosistemi di innovazione, ecc.  Il Piano però non è intervenuto sugli squilibri strutturali del sistema: non si è previsto un sostegno agli organici (come avvenuto per i Tribunali, usando fondi nazionali di accompagnamento), che la relazione di accompagnamento alla Legge di Bilancio 2022 riconosce essere ancora inferiori di oltre 45mila unità alla media europea (praticamente, ponendo la necessità di un raddoppio); si è cancellato l’intervento previsto nella prima versione sulla Notax area (1 miliardo di euro), per sostituirla con il finanziamento alla residenzialità universitaria… privata; non si è prodotta nessuna correzione sulla distribuzione sperequata dello scorso decennio. Anzi, il PNRR non ha fatto altro che amplificare queste fragilità, concentrando le risorse sui soliti noti (basta guardare Hub e terminali dei progetti) e gonfiando una nuova bolla di precariato (9.500 oggi gli RTDa, il doppio di prima; gli assegni di ricerca con il PRIN PNRR 2022 saranno quasi 25mila; mentre il MUR ha bloccato la partenza dei nuovi contratti di ricerca, che trasformavano le forme atipiche in veri rapporti di lavoro).

In queste ultimi anni si sono allora riaperte le crepe strutturali del sistema universitario italiano. In primo luogo, le risorse. Il Fondo di Finanziamento Ordinario ha smesso di crescere in termini reali nel 2021 e in questi tre anni (2022, 2023 e 2024) sta conoscendo un nuovo calo. Non solo perché pesa l’inflazione di questi anni, con una ridotta crescita nominale delle risorse, ma anche perché crescono le spese per il personale (il combinato disposto del CCNL 2019-21, dell’indennità di vacanza contrattuale e degli anticipi del triennio successivo, degli adeguamenti ISTAT del personale docente, valgono da soli oltre 700 mln di euro, quasi il 10% del FFO). Nel giro di un paio di anni, senza un nuovo e significativo investimento, emergerà un nuovo buco. Come ha recentemente segnalato il CUN, già alcuni atenei stanno sospendendo la sostituzione del personale cessato (potendo contare sui piani straordinari che dovrebbero incrementare gli organici), in attesa di capire la loro sostenibilità. Soprattutto, si rischia di essere alla vigilia di un nuovo e significativo aumento delle tasse universitarie, come dieci anni fa. Piove sul bagnato: come ha segnalato la Corte dei Conti, la Notax area e il suo ampliamento in realtà non hanno ridotto i contributi studenteschi (circa 1,5 mld di euro), perché gli atenei hanno aumentato le tasse a chi le paga (tra cui molti figli di lavoratori e lavoratrici, stante gli attuali parametri ISEE): un aumento medio dai 1.105 euro del 2018 ai 1.421 del 2021 (+28,6%).

Questi dati ci riportano alla seconda crepa: il numero degli iscritti ai corsi di laurea negli ultimi anni è tornato a calare. Mentre continuano a salire i numeri dei diplomati (quest’anno intorno ai 520mila, 60mila in più di 10 anni fa), il tasso di passaggio all’università è crollato e fatica a recuperare. Così negli ultimi due anni si è fermato il recupero di iscritti in corso dal 2016. E se si guarda bene, si scopre che gli immatricolati alle telematiche sono saliti di 5mila unità, agli atenei in presenza sono calati di 5mila unità. Dei 180mila iscritti che si è recuperato dal 2016, 120mila sono alle università telematiche (per oltre metà, sopra i 35 anni). Così, il tasso di laureati tra i 24 ed i 35 anni rimane intorno al 27%, a fronte di una media OCSE del 47%. Un dato che invece di migliorare rischia di peggiorare nei prossimi anni.

Il nuovo modello live streaming
E qui si rivela la terza crepa: l’autonomia competitiva e la gestione della pandemia con questa autonomia hanno spalancato una porta alle università profit, telematiche e in presenza, rilanciate anche da nuovi player internazionali (come Multiversity, che ha investito 1,5 miliardi di euro nell’acquisizione di tre atenei). Si sta, cioè, sviluppando un nuovo modello online e ibrido, live streaming, con personale docente ridotto (ben oltre il rapporto 1 a 20 degli atenei statali italiani, che arriva anche ad 1 a 200), formattazione obbligatoria di corsi e modalità di esame, decine di sedi distaccate per esami e commissioni a distanza. Un modello che traccia una nuova divisione tra teaching e research university, trasforma i corsi di laurea in esamifici di dubbia qualità, lede nel profondo i diritti e la libertà di insegnamento.

Per questi motivi la FLC CGIL, alla sua assemblea nazionale sull’università a Firenze lo scorso 19 ottobre, ha denunciato una nuova emergenza dell’università, e ha chiamato il mondo accademico, le associazioni studentesche, le forze politiche ad una nuova stagione di attenzione e mobilitazione. Il futuro dell’università e, in qualche modo del suo profilo sociale, si gioca oggi e si gioca anche nella difesa e nel rilancio di un sistema universitario nazionale, pubblico, gratuito e di qualità.

L'autore

Luca Scacchi

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