La rivista

Dibattito pedagogico

Raccontarsi a scuola. Una ricerca sull'odio online

Introduzione

Il sentimento dell’odio è motivato da ragioni ancestrali che affondano nella complessità degli esseri umani e delle società che essi hanno organizzato nel tempo. Il fenomeno è analizzabile sotto molteplici aspetti come quello linguistico, biologico, educativo, ambientale, culturale, della personalità, giuridico e il terzo millennio si delinea come un periodo denso di transizioni, complessità e trasformazioni (Zoletto, 2020). Negli ultimi anni i conflitti sono aumentati vertiginosamente in numerose aree del mondo; inoltre, la pandemia da Covid-19 ha obbligato buona parte della popolazione mondiale a un confinamento allo scopo di limitare i contagi, ma ha allo stesso tempo distanziato le persone minando le relazioni sociali e i tessuti micro e macroeconomici del pianeta. Nello specifico, i conflitti che da sempre caratterizzano la specie umana sono stati sicuramente acuiti da un fenomeno dai così gravi e trasversali effetti. Ci si trova globalmente di fronte a sfide epocali, come quelle del cambiamento climatico, della fine della disponibilità di risorse del pianeta, della guerra per l’acqua e per i terreni fertili, per la riaffermazione dei valori democratici, per una diversa e più umana gestione dei migranti e in genere delle disuguaglianze di tutti i tipi, ampiamente aumentate durante la pandemia (Fiorucci et al., 2021). La cifra della contemporaneità è la rivoluzione digitale che ha permesso a strumenti specifici come il PC, i telefoni cellulari, i tablet e la rete che li interconnette di annientare le distanze, facilitando la comunicazione e ha proiettato il mondo nel post-umanesimo.

«Viene meno, in questa prospettiva, la visione essenzialistica dell’uomo, che inizia a essere concepito come un essere che “eccelle” proprio per la sua capacità di connettersi e di integrare le alterità umane alle alterità non umane. Alla luce di una epistemologia dell’ibridazione, le esperienze che il soggetto umano compie a contatto con gli animali, i simboli, le macchine, le tecnologie, le teorie scientifiche e tutto quanto il mondo mette a disposizione retroagiscono sui processi selettivi che sovrintendono alla determinazione delle diverse componenti biologiche: apparati sensopercettivi, motori, emotivi, cognitivi» (Pinto Minerva, 2021, 57).

L’ibridazione dell’uomo con le macchine, se da un lato ha favorito l’accesso ai dati e alla conoscenza a portata di click, ha, d’altro canto, promosso la catalizzazione di fenomeni come i discorsi d’odio online che rappresentano una emergenza educativa su cui riflettere e alla quale è dedicato il presente articolo.

Parole pesanti

Probabilmente il primo strumento di trasmissione dell’odio è la lingua, che riflette la cultura di riferimento e che, nella sua evoluzione diacronica, ha sempre manifestato espressioni per comunicare e, di conseguenza, per offendere. La sociolinguista Vera Gheno (2018) afferma che la lingua italiana sta cambiando velocemente da oltre mezzo secolo, un processo talmente rapido da non permettere alla scuola di stare al passo e da polarizzare la competenza linguistica delle persone in due aree opposte: da un lato, la lingua “alta” che si studia a scuola e che permette di elaborare un tema o leggere un libro, dall’altro, la lingua quotidiana, più orale che scritta, che si connota per parecchie deviazioni rispetto alla standard: es. lui al posto di egli, il presente indicativo al posto del futuro in espressioni come domani vado, l’utilizzo intenso di parole generiche come cosa, roba. Tuttavia, tale evoluzione dell’italiano contemporaneo (Berruto, 2010) non può essere considerata una nuova varietà di lingua in quanto non si caratterizza per nuovi fenomeni o moduli strutturali, ma viene a pieno titolo inserita in un processo linguistico fisiologico di indebolimento dei costrutti che attualmente vengono accolti dalla norma standard. Questa nuova versione quotidiana della lingua di Dante, che già da qualche decennio affiancava o sostituiva il dialetto, viene definita da Antonelli l’e-taliano dell’uso immediato: «quello che si è diffuso con le e-mail, si è affermato con gli sms e adesso quasi tutti usiamo nei social network e nelle messaggerie istantanee. L’e-taliano è il punto d’arrivo (inevitabilmente provvisorio) di una storia che dura giusto da tre decenni ed è un po’ la storia di ognuno di noi. Perché la storia siamo noi, noi che scrivevamo le lettere e oggi scriviamo su Whatsapp» (Antonelli, 2016).

Tale terreno linguistico risulta fertile per la diffusione degli insulti che si propagano velocemente sui binari della rete e rientrano nel fenomeno dei discorsi d’odio, comunemente chiamati hate speech. Nel dizionario Treccani (2018) il fenomeno viene definito come:

«Espressione di odio rivolta, in presenza o tramite mezzi di comunicazione, contro individui o intere fasce di popolazione (stranieri e immigrati, donne, persone di colore, omosessuali, credenti di altre religioni, disabili, ecc.)».

La cifra comune dell’hate speech è rappresentata soprattutto dalla scelta dei destinatari del messaggio e, cioè, le minoranze che, fin dall’antichità, vengono considerate foriere di diversità rispetto alla maggioranza. Ciò che è differente e non si conosce è motivo di paura e pericolo per i rigidi schemi che la società crea allo scopo di autotutelarsi. Un’analisi approfondita del linguista De Mauro (2016) riporta le numerose espressioni italiane utilizzate per diffondere odio da cui si evince che lo spettro degli strumenti linguistici è assai ampio. Vi sono parole depositarie di stereotipi come omo e baluba, barbaro; beduino e watusso per indicare persone rozze; cinese o turco per indicare una scrittura difficile o incomprensibile; ebreo come sinonimo di avido; zingaro che sta per persona sporca e nomade; polentone, burino e terrone per discriminare la provenienza geografica. Vi sono anche espressioni di significato neutro che, tuttavia, possono assumere significato denigratorio (maiale, professore) inclusi i loro derivati (maialata, professorale) e quelle che fanno riferimento all’apparato sessuale femminile (figa, ficata, gnocca) e maschile (non capire un cazzo, sega, mazza).         

Odiare è naturale?

Le ricerche individuano in variabili differenti e complementari le ragioni che giustificano gli atteggiamenti di violenza, odio ed esclusione. Un’interpretazione proposta è quella socio-storica (Pinker, 2012). Fin dai tempi antichi, infatti, gli esseri umani hanno mostrato un comportamento bellicoso, sviluppando interazioni in cui la presenza del conflitto era essenziale. Affinché si risolvesse il conflitto, gli umani si sono evoluti sviluppando istinti primitivi, ma anche risposte pacifiche secondo una linea discontinua come le vicende delle guerre e dei quotidiani dissidi familiari e sociali dimostrano. Secondo un’analisi neurobiologica e genetica, l’aggressività ha lo scopo di causare danni ad altri organismi per contrastare minacce alla propria incolumità. La violenza ha, pertanto, la funzione di difesa; tuttavia, gli organismi che prosperano sono quelli che usano la violenza solo quando i benefici attesi superano i costi (Dawkins, 2013). Inoltre, nelle specie evolute si aggiunge la riflessione razionale su come analizzare e, in caso, indirizzare la spinta alla violenza: una volta appresa l’esistenza di incentivi alla violenza, questa associazione diventa una possibilità difficile da disconnettere. Secondo Damasio (1994), sul piano neurobiologico le esperienze emotive devono essere connesse a credenze su fatti, persone o eventi, e creano sistemi di reazione emotiva – come la rabbia-odio – che influenzano il futuro comportamento aggressivo. Da un punto di vista psicosociale, Pinker (2012) propone tre motivazioni alla base dell’incitamento al comportamento violento: gloria, competizione e insicurezza. Tutte e tre sarebbero vincolate al raggiungimento di incentivi per l’individuo, come il rafforzamento della sicurezza, la dimostrazione di potere, il bisogno di ammirazione. Si tratta di motivazioni che non si traducono nella sopravvivenza come unico scopo ma che, saltuariamente, vengono utilizzate anche contro la specie stessa e che ci porterebbero a uno stato di barbarie o di anarchia, in assenza di norme che ne regolino la validità. La stessa barbarie si sublima nel cosiddetto culto del “macho”, della esaltazione della competitività o del principio di differenziazione degli “altri” (Burgio, 2020), a vantaggio del “noi”; la cultura maschilista e patriarcale, nonostante i diritti acquisiti dalle donne, è più che mai viva e genera i propri frutti velenosi nei frequenti femminicidi che affollano le agende dei quotidiani nazionali e locali. La stratificazione dei comportamenti d’odio si alimenta di due corollari indispensabili: pregiudizi e stereotipi che esprimono l’ostilità nei confronti degli “altri” (Santerini, 2021). Il pregiudizio si riconduce a preconcetti su individui o gruppi in base alla provenienza razziale, etnica o sociale. Gli stereotipi sono attributi generalizzati ascritti ai membri di un gruppo sociale. Le due categorie spesso si combinano (Tajfel, Fraser, 1984).  Il pregiudizio è assai diffuso nelle relazioni sociali al punto da considerarlo “naturale”: letteralmente il termine pre-giudizio consiste nell’anticipazione di una valutazione mediante le rappresentazioni cognitive riguardo il presunto comportamento di una persona appartenente a un gruppo; ne consegue la considerazione degli altri secondo etichette preimpostate che non aderiscono alle reali caratteristiche e, pertanto, la nascita di conflitti e aggressività a scapito dell’unità sociale e della pace (Santerini, 2021). La tendenza a tale abitudine comporta una vera e propria distorsione della realtà (Voci, Pagotto, 2010) e si fonda sul principio della categorizzazione, cioè l’attitudine a classificare gli altri sulla base di categorie predefinite. L’uomo facilita le relazioni sociali amplificando le differenze tra i gruppi (outgroup) e corroborando le somiglianze all’interno di un gruppo (ingroup) (Brown, 1997). Santerini (2003) utilizza il termine economizzazione del pensiero in senso positivo e negativo: essere a conoscenza che una certa persona appartiene a un gruppo prestabilito e caratterizzato, ad es. dal sesso, dalla provenienza etnica o dalla condizione sociale, può facilitare dal punto di vista cognitivo a captare rapidamente le implicazioni che derivano dalla relazione che si stabilisce, ma contemporaneamente rende difficoltoso coglierne la complessità. Semplificare le differenze, come nel detto “fare di tutta l’erba un fascio” rafforza il pregiudizio e rende aspre le relazioni sociali.

Rapaci da tastiera

Tra i fenomeni che la pandemia e l’uso smodato dei social media hanno acutizzato vi è la violenza dilagante nella rete. La diffusione massiva di Internet nelle maglie della quotidianità ha modificato l’idea stessa di discussione pubblica (Bortone, Cerquozzi, 2017) in cui operano non più solo i soggetti preposti a produrre le informazioni (es. giornali, editori), ma anche quelli non professionisti che generano fonti informative informali e condividono, in maniera responsabile o meno, contenuti discriminatori carichi di violenza nei confronti di determinate categorie di persone (Habermas, 2005). Tale massa di notizie e informazioni è soggetta alla divergenza che esiste nell’opinione pubblica tra la percezione di alcuni fenomeni e la loro oggettiva consistenza (Cotesta, 2009). Un sondaggio intitolato Perils of perception (Bortone, Cerquozzi, 2017), e condotto periodicamente in diversi Paesi, mostra che la percezione su alcuni temi delicati è lontana dai dati reali, come ad esempio il numero di migranti, il tasso di disoccupazione, l’ammontare della spesa sanitaria. Tale fallace percezione della realtà catalizza la circolazione di informazioni che sono in parte o del tutto false (fake news) attraverso i social media (Instagram, Facebook, TikTok, etc.) e la Rete, permettendo a milioni di persone di canalizzare, in pochi click, qualunquismo, sofferenza, volgarità e spesso anche illegalità. Il discorso ostile si riproduce pubblicamente come in una piazza e presenta caratteristiche specifiche come l’invisibilità, l’anonimato, la capacità di creare comunità e l’istantaneità, cioè reazioni rapide che facilitano l’aggressività in maniera spontanea (Brown, 2018). Studi svolti da numerose associazioni della società civile, in collaborazione con università e centri di ricerca, hanno monitorato siti web rappresentativi per i discorsi d’odio online: il tratto saliente è l’attitudine a convogliare milioni di espressioni razziste o xenofobe in pochi secondi in conseguenza di eventi di cronaca che alimentano periodicamente l’odio (Ziccardi, 2016). Gli spazi digitali descritti fino ad ora, in un contesto in cui le forme di discriminazione e di intolleranza verso la diversità si sono inesorabilmente insinuate all’interno del tessuto sociale, rappresentano una sorta di catalizzatore per la produzione e la circolazione dell’hate speech online. Allo stesso tempo, però, diventa anche più evidente che la mutevolezza e fluidità delle forme che può assumere l’odio nella rete è tale da rendere evidenti i limiti e le difficoltà connesse all’obiettivo di voler ricondurre l’hate speech a specifiche normative, basate su una rigida tassonomia dei vari comportamenti sanzionabili. Si rifletta, ad esempio, sulle policies adottate dalle piattaforme digitali allo scopo di arginare l’espansione di questo fenomeno, da cui emerge un interesse focalizzato prevalentemente alla formazione di casistiche, più o meno articolate, ma inevitabilmente soggette a revisioni e aggiunte derivanti dai mutamenti sociali, culturali e politici. La cifra della difficoltà caratterizzante un fenomeno così in fieri è rappresentata dalla scelta che le piattaforme, e non solo, devono attuare per conciliare, da un lato, la difesa della libertà di espressione come diritto fondamentale, dall’altro, la tutela degli utenti della rete dalla prevaricazione e dalla violenza, finanche dagli illeciti penali, prodotte per la mera appartenenza a categorie target oggetto di stereotipi e pregiudizi (Bentivegna, Rega, 2020). La materia è un terreno irto, un groviglio di asperità che intersecano diritto, informatica e cultura, generando un nodo gordiano che suscita più interrogativi che certezze.

Google Moduli: la ricerca esplorativa nell’aula virtuale

Il processo di deterritorializzazione, favorito dalla pandemia e che ci ha obbligato a trasferire la comunicazione dalla presenza a distanza, ha prodotto uno sganciamento dall’aula con una conseguente ricollocazione della scuola dentro ambienti virtuali (Gueli, Guerini, Travaglini, 2021). Tra i protagonisti direttamente coinvolti nel riadattamento scolastico, ci sono sicuramente i docenti, i quali hanno dovuto sostenere una situazione emergenziale dalle proporzioni e dalle conseguenze senza precedenti, aggrappandosi nei casi più fortunati, ai dirigenti e ai colleghi, data l’assenza di linee guida ministeriali generali e univoche (Ciurnelli, Izzo, 2020). Tra le piattaforme maggiormente in voga vi è Google Moduli, un’applicazione che permette di formulare questionari corredati da varie tipologie di quesiti: domande a risposta chiusa a scelta multipla, domande a risposta aperta nella forma di risposta breve o di paragrafo, inserimento di immagini, video e importazione di domande da altre piattaforme.

Nella fattispecie, è stato formulato e sottoposto un questionario sui discorsi d’odio ad alcune classi del biennio del Liceo scientifico “Marconi” di Foggia. Il campione è costituito da 51 studenti di genere femminile (22) e maschile (29). La modalità anonima ha permesso agli studenti di raccontare le proprie impressioni su argomenti di scottante attualità che li riguardano direttamente e non, lasciandoli liberi di esprimersi sinceramente e senza il timore di esporsi nei confronti dei compagni e dei docenti. Con il questionario ci si è posto l’obiettivo principale di raccogliere dati sul fenomeno dei discorsi d’odio, della violenza e dell’esclusione al fine di sensibilizzare gli studenti sulla tematica e sugli effetti devastanti del fenomeno che dilaga in rete. A partire da alcune informazioni personali, il questionario ha avuto a oggetto tematiche quali: raccogliere brevi dati personali relativi ai destinatari, identificare quali siano le categorie vessate dai discorsi d’odio e le parole utilizzate a scopo discriminatorio, relazionare l’uso non regolamentato dei social media alla diffusione di pregiudizi, bullismo e odio online, esplorare la connessione tra fenomeni d’odio e reati, identificare i pregiudizi inerenti alla comunità LGBTQ+, relazionare il verificarsi di fenomeni d’odio al contesto scolastico ed esprimendo le emozioni provate, esplorare la capacità dei politici italiani di affrontare il tema dell’odio, indagare la rilevanza delle politiche scolastiche tra cui l’introduzione dell’insegnamento dell’educazione sessuale e socioaffettiva, come strumento di contrasto all’odio e di promozione del rispetto e dell’equa convivenza. Dopo una breve introduzione sulle caratteristiche della piattaforma, sono state date indicazioni sull’accesso al questionario, tramite un link condiviso e facilmente accessibile dai cellulari, sulla struttura del test, corredato da domande a risposta chiusa con una sola possibile opzione (Fig. 1) e da domande a risposta aperta che prevedono una risposta sottoforma di breve paragrafo e sul tempo di compilazione che è stato all’incirca individuato in quindici minuti.

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Fig. 1 (Rapporto tra discorsi d’odio e cyberbullismo)

Analisi dei dati e discussione dei risultati

La piattaforma Google Moduli, accanto alla sezione “Domande” in cui si espleta il test, fornisce la sezione “Risposte” in cui è possibile visionare le opzioni espresse sia individualmente che nell’insieme, mediante un riepilogo. È per quest’ultima scelta che si è deciso di optare in quanto permette di rappresentare alcuni dati sottoforma di:

- grafico a torta per le domande a risposta chiusa (Fig. 2);

- elenco per le domande a risposta aperta (Fig. 3).

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Fig. 2 (Considerazioni sulle persone che appartengono alle minoranze)

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Fig. 3 (Risposte sul corretto uso del linguaggio)

 

In questa sede, anche per ragioni di spazio, abbiamo deciso di focalizzarci sulle risposte che sono sembrate salienti.

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Fig. 4 (Considerazioni sulle persone della categoria LGBTQ+)

Nella figura 2, il 17,6% (9 studenti) non sa se sia giusto considerare diverse o non normali le persone che si distinguono dalla maggioranza mentre il 9,8% (5) ritiene che ciò sia assolutamente giusto, e il 3,9% (2) conferma. In totale il 31,3% del campione non si esprime positivamente su un dato che, assiologicamente, dovrebbe essere lapalissiano. Così non è, infatti, in quanto il campione considerato non è composto da persone adulte e teoricamente formate sui relativi temi bensì da adolescenti che frequentano la scuola secondaria di secondo grado e che, ipoteticamente, non hanno affrontato in maniera approfondita le questioni suddette nell’alveo delle principali agenzie educative, ovvero famiglia e scuola.

A conferma di una visione parziale si consideri la figura 4, in cui il 27,5% (14) considera addirittura contro natura e confuse le persone appartenenti alla categoria LGBTQ+, mentre il 3,9% (2) ritiene che esse siano più sensibili delle altre.

Nella seguente tabella (Fig. 5) si evidenziano alcune risposte relative alle reazioni a seguito di coinvolgimento diretto o indiretto in situazioni di odio/esclusione tra le mura scolastiche.

Non sono stato coinvolto.

Anche se non ero coinvolta direttamente, ho reagito e difeso la persona discriminata.

Ho difeso la vittima e ho sentito il bisogno di starle vicino.

Mi sono sentita male e sola.

Male e depresso, tanto da non voler andare più a scuola.

Non avendo mai partecipato o non essendo mai stato coinvolto a scuola in questo tipo di casi, non so come avrei reagito alla visione di questi atti, ma molto probabilmente mi sarei fatto guidare dall' istinto.

Indifferente perché avevo altri amici.

Sicuramente non mi è piaciuto ma, dopo poco tempo, ho pensato che sia meglio essere soli che frequentare brutte compagnie.

Non mi è importato.

Non ho dato peso e ho continuato la mia vita.

Non mi è mai capitato.

Male, ho cambiato me stessa per riuscire a essere accettata. Ora sono pienamente integrata nel gruppo classe rispetto al passato, e sono contenta di questo perché essere accettata era ciò che volevo anche se il percorso che ho fatto per arrivarci non mi è piaciuto. Ciò perché mi ha portato a deludere altre persone che invece a me tenevano veramente; ora però è tutto risolto con tutti, anche con me stessa.

Fig. 5 (Considerazioni sulle reazioni ai fenomeni d’odio a scuola)

Emergono differenti opinioni. Alcuni studenti hanno ritenuto l’evento «indifferente perché avevo altri amici» oppure hanno preferito non intervenire «non ho dato peso e ho continuato la mia vita».  Altri, al contrario, hanno dimostrato coraggio e una solida fibra morale «anche se non ero coinvolta direttamente, ho reagito e difeso la persona discriminata», «ho difeso la vittima e ho sentito il bisogno di starle vicino». Vi è chi ha esplicitato il malessere provato per essere stata vittima di esclusione «mi sono sentita male e sola», e chi ha raccontato il percorso difficile per essere integrata nel gruppo classe «male, ho cambiato me stessa per riuscire ad essere accettata…».

Conclusione

Nel presente contributo abbiamo raccolto dei dati allo scopo di invitare gli studenti a riflettere sui fenomeni di odio e di esclusione, aprendo un dibattito da sviluppare nei contesti formali e non formali, con docenti e famiglia, su temi che costituiscono una reale emergenza educativa della contemporaneità. Appare urgente avviare una riflessione sulla formazione di studentesse e studenti attraverso una didattica che, all’interno della disciplina dell’educazione alla cittadinanza, includa l’educazione sessuale e socio-affettiva ma appare altrettanto conveniente formare i docenti. Gli educatori hanno il dovere di intraprendere azioni didattiche quotidiane e trasversali per favorire una formazione etico-sociale in chiave curricolare (Baldacci, 2020). L’agenda 2030, nell’obiettivo 4.7, chiede alla scuola la promozione di una cultura pacifica e non violenta finalizzata alla valorizzazione delle diversità culturali. Gli insegnanti hanno bisogno di opportunità di sviluppo professionale che consentano loro di favorire ambienti di apprendimento, nei quali si può imparare a non essere d'accordo rispettosamente (UNESCO, 2022). Ciò postula che i docenti riflettano sulle posizioni da acquisire nei confronti di ragazze e ragazzi quando affrontano temi complessi che dividono la società, generano riflessioni ed esigono risposte emotive. Educare alla pace comporta semplificare senza banalizzare, evitando la promozione di un pensiero dicotomico distinto tra “noi” e “loro” (Bateson, 1997). Gli studenti hanno, inoltre, bisogno di competenze (digital literacy) per utilizzare strumenti digitali che consentano loro di partecipare in modo creativo e attivo nelle comunità e nei movimenti digitali volti a contrastare l’incitamento all’odio e problemi globali correlati, come il razzismo e altre forme di intolleranza e discriminazione. Le proteste da parte delle minoranze al fine di acquisire diritti negati e garantire le istanze per un equo diritto alla cittadinanza sono molteplici in una società globalizzata: esemplificative sono le richieste di riconoscimento avanzate faticosamente dalla comunità LGBTQI+ per ottenere tutele giuridiche che fungano da argine alle sempre più numerose aggressioni omobitransfobiche (Loiodice, 2020). Per questo, l’educazione alla non violenza passa necessariamente dalla convivialità delle differenze, obiettivo di una pedagogia dell’inclusione che permetta di armonizzare le fisiologiche frizioni sociali, specialmente in un periodo caratterizzato da un contagio endemico dei conflitti.

Bibliografia

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Sitografia

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V. Gheno, “Lingua italiana, così evolve sui social network”, Agenda digitale, 20.06.2018

L'autore

Marco Leggieri

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