La rivista

Politiche educative

Cento anni dalla Riforma Gentile e c’è ancora tanta strada da fare

Giovanni Gentile diventa Ministro dell’Istruzione del governo di Benito Mussolini il 31 ottobre 1922, all’indomani della Marcia su Roma e dell’insediamento del regime fascista, e vi resterà fino al 1924, per dimissioni volontarie dopo l’omicidio di Giacomo Matteotti.

A Gentile viene dato il compito di riordinare la Scuola e l’intero sistema d’Istruzione dell’Italia post bellica (dopo il primo conflitto), in una situazione di profonda crisi sociale e culturale, a cui si lega indissolubilmente la crisi economica e lavorativa del fallimento della Prima Guerra Mondiale. C’è inoltre da costruire lo Stato fascista.

Spinto dal rigore di un’impostazione idealista e considerato il fallimento della scuola positivistica, Gentile accoglie la sfida improntando l’architettura del suo disegno su due pilastri: la selezione della classe dirigente del Paese e l’identità nazionale del popolo italiano.

La Riforma Gentile è per questo un complicato processo a tappe che si confrontò con l’unico esempio precedente di riforma complessiva dell’istruzione dell’Italia unita, quello della Legge Casati (1861), che però rispondeva ad esigenze differenti, ovvero quelle di un progetto complessivo di alfabetizzazione della nascente nazione italiana, divisa e scomposta.

Acquisita la delega per legge (Legge n. 1601 del 3 dicembre 1922, delega per la riforma della pubblica amministrazione), la riforma Gentile, costruita con la complicità didattica di Ernesto Codignola e Giuseppe Lombardo Radice, si articola in più atti legislativi specifici per tutti i settori, dispiegati con organicità fra il 1923 ed il 1924: R.D. n. 1753 del 16 luglio 1923, (Ministero dell'istruzione); R.D. n. 3126 del 31 dicembre 1923, (obbligo scolastico); R.D. n. 2185 del 1 ottobre 1923, (scuola elementare); R.D. n. 1054 del 6 maggio 1923, R.D. n. 756 del 30 aprile 1924, R.D. n. 1533 del 4 settembre 1924, e R.D. n. 2009 del 1 settembre 1925, (scuola media di 1º e 2º grado e convitti nazionali); R.D. n. 2102 del 30 settembre 1923, e R.D. n. 674 del 6 aprile 1924, (scuola superiore e università).

La scuola secondo Gentile
Sicuramente meritorio è stato l’aver prolungato l’obbligo scolastico ai tre anni successivi alla scuola elementare, ma non si può negare che l’articolazione in studi successivi e all’alternativo avviamento al lavoro rappresentano il peggiore esempio di scuola esclusiva e classista.

L’architrave sta nella distinzione fra istruzione complementare e quella liceale, a cui poi far seguire il percorso universitario.

Gentile intende perpetuare l’affermazione della classe borghese, come fulcro della classe dirigente di cui deve servirsi lo Stato: pertanto la riforma prevede una forte selezione degli studenti, attraverso un’applicazione rigida del concetto di voto numerico con numerosi esami di sbarramento per gli studi successivi, cosiddetti ‘alti’. Alla scuola secondaria di secondo grado è applicato il numero chiuso ed essa assume, nell’idea del filosofo, un impianto classicistico: le discipline scientifiche cadono in secondo piano, prevale lo studio delle materie umanistiche.

Si vuole una scuola severa, una scuola dove il maestro/insegnante si impone come modello da seguire, da cui apprendere in modo meccanico e soprattutto proficuo: l’aspetto relazionale è messo in secondo piano rispetto al compito finale.

Si tratta inoltre di una scuola aristocratica, dove qui gli aristoi sono i ‘migliori per censo’; è una scuola fortemente orientativa, che si poneva l’obiettivo di selezionare la classe dirigente fra chi aveva la possibilità di studiare, elemento non secondario in un Paese che non aveva una rete scolastica radicata ed estesa e dove la selezione veniva fatta già dalla geografia.

Per queste sue caratteristiche Benito Mussolini considerò la riforma Gentile come «la più fascista fra tutte quelle approvate dal mio Governo.» (Circolare ai prefetti delle città sedi universitarie, 6 dicembre 1923, "Il Popolo d’Italia", 292, 7 dicembre 1923)[1].

Dalla Riforma Gentile alla scuola democratica
La stima del Duce nasce dal fatto che questa riforma disegna un sistema autoritario, maschilista e classista che si basa su un’organizzazione centralistica e gerarchica del sistema scolastico e universitario. Non a caso
il tratto distintivo dell’organizzazione del sistema scolastico all’interno della riforma è la sua centralizzazione: sono aboliti i consigli scolastici provinciali e istituiti 19 provveditorati regionali, i cui provveditori, nominati direttamente dal Ministero, non sottostavano a nessun organo di controllo e si configuravano come alti funzionari dello Stato, in analogia con il modello dei prefetti.

Se è innegabile che la riforma nasce da un’esigenza pratica di fornire al nostro Paese intellettuali e professionalità che in quel momento in Italia mancavano (il tasso di alfabetizzazione è ancora bassissimo e bassissima è anche la percentuale di professionisti, medici e avvocati soprattutto, impiegati nel mondo del lavoro), altrettanto innegabile è l’assenza di una vera e propria base pedagogica: ad ammetterlo è lo stesso sottosegretario Giovanni Cuomo (ministro Leonardo Severi), nel 25/11/1943, intervistato dal Comitato di Liberazione guidato dal pedagogista americano Carleton Washburne[2].

Come il suo redattore, la riforma è un esperimento ideologico degenerato poi successivamente al suo ideatore, fino a diventare il tratto caratteristico del regime, come segnalato dal passaggio da Ministero dell’Istruzione a Ministero dell’Educazione Nazionale, nel 1929: tuttavia anche con le successive riforme di Giuseppe Bottai l’impianto resta immutato, se non lievemente modificato soprattutto nella caratteristica delle selettività, invisa già dalla stessa alta borghesia fascista, e nell’attenta riscrittura dei programmi, sempre più impostati sulla retorica del fascismo.

Sembra strano, ma ad oggi manca uno studio approfondito, complessivo e definitivo che possa veramente fare luce sui rapporti fra la Riforma Gentile, il Fascismo e la Scuola, che ne chiarisca i contorni storico-politici, ma anche i riflessi futuri sul sistema pedagogico/didattico/ordinamentale della Scuola italiana[3].

Soccorre, e sotto certi aspetti sorprende, un recente e utilissimo studio di Giorgio Chiosso (Il fascismo e i maestri, Mondadori 2023) che svela come sia da rivedere la visione monolitica di adesione dei maestri al fascismo. Al contrario, Chiosso documenta un’avversione neanche tanto sotterranea dei maestri, insofferenti proprio per la Riforma Gentile: si tratta di importanti episodi di disobbedienza che permettono di capire anche la relazione fra Gentile e Lombardo Radice, ma soprattutto sono un filo conduttore da riscoprire per legare la scuola fascista a quella democratica.

Da qui si dovrebbe partire per completare la tela culturale e sociale, che metta in luce, storicamente e culturalmente, l’insorgere dei germi di una pedagogica e didattica democratica, che da Mario Lodi[4] e l’esperienza del Movimento di Cooperazione Educativa passando per don Milani[5] e l’esperienza della Scuola di Barbiana, nonché attraverso l’esperienza educativa di discussione collettiva sul modello di scuola proposta di Danilo Dolci[6], attraverso anche la riforma della Scuola Media (1962), approda alla riforma dei Decreti Delegati (1974): cioè manca, ed è arrivato il tempo di colmare questa lacuna, un’analisi approfondita che spieghi l’emergere carsico dei fenomeni di scuola democratica, inclusiva.

Soltanto attraverso una lettura diacronica e sincronica di questi modelli di scuola, è possibile dare una risposta alla scuola di oggi, che sta rispolverando concetti e ideologie (quella della trappola del merito, quella della punizione, quella della selezione orientativa, quella della sudditanza all’avviamento al lavoro) che richiamano apertamente la Scuola del Ventennio.

Al contrario, la riproposizione di un filo conduttore che mette al centro l’alunno e non il voto, la relazione e non il prodotto, può essere l’anticorpo necessario per una visione della scuola meno ideologica e più coerente coi principi costituzionali.


[1] La circolare era dettata da alcune manifestazioni degli studenti, alle quali il duce risponde da par suo, ordinando ai prefetti di «fare comprendere agli studenti che si agitano, perpetuando un deplorevole costume che non doveva sopravvivere alla guerra e alla rivoluzione fascista, che le loro agitazioni sono perfettamente inutili e possono anche avere conseguenze di grande rilievo, non esclusa la chiusura delle università per l’intero anno scolastico».

[2] Si veda il recente libro di Christian Raimo, L’ultima ora. Scuola, democrazia, utopia, Ponte alle Grazie, 2022, in particolare pp. 41-69.

[3] Ad avvalorare questa tesi ci sono i fatti: gli unici due studi monografici sulla scuola fascista sono di un francese (Michel Ostenc, La scuola italiana durante il fascismo, Laterza 1981) e di un tedesco (Jurgen Charnitzky, Fascismo e scuola. La politica scolastica del regime (1922-1943), La Nuova Italia, 1996), nulla di organico è stato prodotto se non un convegno da cui uno studio collettivo (Gianluca Gabrielli e Davide Montino [a cura di], La scuola fascista. Istituzioni, parole d’ordine e luoghi dell’immaginario, Ombre corte, 2009).

[4] La bibliografia sull’esperienza educativa di Mario Lodi è vastissima, ma fondamentale è in questo senso almeno la lettura di C’è speranza se succede a Vho, diario della quotidianità nella piccola realtà scolastica di Vho fra il 1951 e il 1962 [recentemente riedito da Laterza, 2022], completato da Il paese sbagliato, del 1970, ma riedito anch’esso nel 2022, da Einaudi.

[5] Il recente libro di Vanessa Roghi, La lettera sovversiva. Da don Milani a De Mauro, il potere delle parole (Laterza 2017), ripercorre, fra l’altro, anche i contorni dell’incontro fra Mario Lodi e don Milani (pp. 53-72).

[6] Nel 2024 cade il centenario della nascita di Danilo Dolci, un’ottima occasione per rileggere Chissà se i pesci piangono. Documentazione di un’esperienza educativa, del 1973 (a ridosso dei decreti delegati!), ripubblicato nel 2018 da Mesogea.

Argomenti
Ti potrebbe interessare