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Voci dalla scuola

LA SOLUZIONE SBAGLIATA A PROBLEMI GIUSTI: IL “CASO” DEL LATINO

Le Indicazioni Nazionali attualmente in vigore risalgono al decreto ministeriale 254 del 16 Novembre 2012 (G.U. n° 30 del 5 Febbraio 2013) e sanciscono la fine dell’era dei cosiddetti “programmi ministeriali” e l’avvio del nuovo corso della scuola italiana basata sull’idea che l’istruzione debba offrire competenze e non mere conoscenze. Ciò significa che lo studio delle singole discipline, con i propri obiettivi specifici di apprendimento, le proprie procedure, il proprio linguaggio specifico sia utile non soltanto per sé quanto piuttosto integrato in un percorso che, oltre agli obiettivi specifici in itinere, consenta di sviluppare le competenze attese al termine del percorso. In altri termini, la scuola delle competenze non solo esplicita i contenuti fondanti delle discipline, ma soprattutto enfatizza la necessità di trovare punti di contatto tra le discipline, rivendicando l’unitarietà della conoscenza non frammentata in saperi nozionistici.

Fa da cornice a ciò l’idea che la competenza in lingua italiana sia uno sfondo comune e costituisca obiettivo trasversale comune a tutte le discipline, dal momento che la padronanza dei lessici specifici, la comprensione di testi a livello crescente di complessità, la capacità di esprimersi ed argomentare in forma corretta e in modo efficace sono competenze effettivamente che non possono appartenere a singole discipline o a singoli ambiti di studio.

Il coinvolgimento della scuola che è mancato

Un approccio di questo tipo, ampiamente condivisibile, risulta ancor più vincente se si aggiunge che progettare percorsi di effettiva intersezione tra le materie è (o era?) compito della programmazione collegiale dei dipartimenti disciplinari e dei consigli di classe; ciò significa che ogni scuola è davvero autonoma nel progettare le attività didattiche nel modo più congruo e utile possibile alla propria utenza senza alcun tipo di condizionamento metodologico.

Vista la velocità con cui il mondo della scuola si trasforma, una revisione del documento dopo oltre 10 anni dalla sua entrata in vigore era sicuramente necessario, meno chiari sono invece i motivi di una sua totale riscrittura.

In effetti, sarebbe stato quanto mai opportuno, ad esempio, integrare meglio nelle Indicazioni Nazionali e spiegare l’effettivo ruolo dell’insegnamento dell’Educazione Civica o dell’Orientamento nello sviluppo delle competenze.

Sarebbe stato altresì auspicabile coinvolgere direttamente dirigenti scolastici, docenti, studenti per cercare di capire di cosa la scuola ha effettivamente bisogno, cosa migliorare, come condividere buone pratiche ed esperienze virtuose.

Ancora, sarebbe stato fondamentale indagare come convogliare le ingenti risorse del PNRR in maniera produttiva e davvero efficace, creando progetti legati alla didattica digitale integrata e per la formazione alla transizione digitale del personale scolastico (DM 66/2023) nonché di riduzione dei divari e contrasto alla dispersione (DM 19/2024) che rispondessero a reali bisogni educativi nell’ambito di un percorso di studi dagli obiettivi ben definiti.

Chi lavora nella scuola ha, infatti, l’impressione di una continua “caccia” al finanziamento o, in riferimento alla Educazione Civica e all’Orientamento, all’applicazione delle linee guida corretta sotto il profilo burocratico; tutto ciò non fa che portare a un inasprimento del carico di lavoro con tutte le conseguenze negative in termini di benessere psicofisico di docenti e studenti, piuttosto che a una reale esperienza formativa.

Prescrizioni cadute dall’alto

Invece, nonostante il lavoro da fare fosse comunque cospicuo, tra le priorità del Governo c’è stata la riscrittura completa delle Indicazioni Nazionali, a partire da quelle del primo ciclo di istruzione. L’impressione generale, ampiamente condivisa nel mondo della scuola e non solo, è quella di un documento che, anziché proseguire sulla strada intrapresa nel 2012, tende piuttosto a essere assertivo e prescrittivo nei confronti dei/delle docenti a cui viene detto sostanzialmente cosa devono insegnare e in che modo.

Ritenendo utile fare riferimento ad aspetti specifici e puntuali, piuttosto che procedere a riflessioni generali di cui si è già ampiamente detto e scritto altrove, in questa sede sarà scandagliata la sezione relativa al ripristino dell’insegnamento del latino nella scuola secondaria di primo grado, scelta che sarebbe fortemente condivisibile e innovativa, se non avesse il sapore conservativo che invece purtroppo ha.

La comprensione del mondo antico e il latino in pillole

Il primo aspetto che colpisce chi legge il documento è quello relativo alla necessità di trovare a ogni costo una ragione che possa giustificare lo studio del mondo antico in ottica attualizzante.

Le preoccupazioni messe in evidenza in apertura sono quanto mai corrette: la «profonda trasformazione culturale della scuola, che non è più ‘valore assoluto’ sia per gli studenti e le studentesse sia per le famiglie»; la difficoltà di far comprendere all’utenza che «per acquisire conoscenze e competenze è necessario impiegare tempo»; l’impiego ormai inevitabile e, spesso, scorretto del multimediale e dell’intelligenza artificiale. Tuttavia, leggendo che «l'insegnamento del mondo antico ha bisogno di essere giustificato e non è più considerato come un valore di per sé» non si può non avere l’impressione che venga prospettata la soluzione sbagliata a problemi giusti. Superare l’impasse in cui versano la società odierna e le nuove generazioni di studenti e studentesse non dovrebbe implicare un discutibile riattamento attualizzante del mondo antico che darebbe luogo inevitabilmente a problemi di errata interpretazione o di grossolana identificazione e sovrapposizione dei mores antichi con quelli moderni, quanto piuttosto un impegno concreto a cercare strategie nuove che aiutino docenti e studenti ad affrontare il mondo antico lasciandolo nella sua corretta prospettiva culturale. Si tratta di un compito senz’altro difficile e gravoso, ma la sfida è tutta qui, e su questo il legislatore e la scuola dovrebbero necessariamente lavorare insieme.

Il secondo aspetto che richiede attenzione è il ritorno alla esplicitazione analitica delle conoscenze attese al termine del triennio della scuola secondaria di primo grado che sembrano inevitabilmente rinviare agli ormai superati programmi ministeriali. Piuttosto, però, che a un programma compiuto pensato ad hoc per la scuola secondaria di primo grado, sembra di essere davanti alla proposta di studiare “pillole” di latino: per la fonetica, si accenna all’alfabeto e alla pronuncia, ma non alle regole dell’accentazione, ad esempio; per la morfologia, sono consigliate la I e la II declinazione, senza alcun accenno alle altre tre declinazioni o alla declinazione di aggettivi o pronomi, senza contare che non è abbastanza chiaro cosa si intenda per forme verbali “semplici”.

Si tratta, insomma, di un programma di lavoro molto minimale, anche ridotto rispetto agli obiettivi minimi di apprendimento normalmente conseguiti, che sembrano partire dal presupposto implicito che sia sufficiente studiare poco latino e farlo in una prospettiva rigidamente normativa che tenga conto della tradizionale progressione degli argomenti, escludendo a priori la possibilità di sperimentare approcci innovativi almeno nella scuola secondaria di primo grado, e tranquillizzando i/le docenti sul famoso adagio per cui “non si riesce a fare tutto” perché il tempo è notoriamente sempre poco.

Per quanto concerne la sintassi, si ragiona in termini di “analogia e/o contrasto” con l’italiano e altre lingue straniere, cosa che sembra alludere a un auspicabile metodo comparativo che però non viene approfondito in nome della presunta salvaguardia della libertà metodologica.

Infine, anche per quanto riguarda il lessico latino, esso viene considerato in termini di sopravvivenza in italiano e in altre lingue e non viene invece sviluppato un approccio critico allo studio del lessico latino che rimane uno degli aspetti più difficili e spinosi dello studio della lingua latina anche nei licei. L’ultima notazione riguarda il fatto che non si fa alcun riferimento allo studio della civiltà e della cultura latina. La dimensione culturale dello studio del latino viene limitato all’uso della lingua per la “redazione di documenti di natura storica, letteraria e giuridica e come lingua franca utilizzata per lo scambio intellettuale in Europa”. Insomma, stando così le cose sembra che lo studio del latino debba essere per forza ricondotto a uno scopo pratico e utilitaristico nel breve periodo, e debba quindi andare incontro alle esigenze di uso e consumo tipiche della nostra società contemporanea, insomma, lo studio del latino deve “servire a qualcosa”. Al contrario, lo studio della lingua latina dovrebbe continuare a insegnare l’arte dello studio fine a sé stesso, della calma, della pazienza del rispetto del testo d’autore che – si badi bene – non viene nemmeno menzionato, nonostante fosse ormai assodata la necessità di porre al centro della prassi didattica il testo d’autore come foriero di un patrimonio di civiltà oltre che linguistico-letterario da preservare.

Quelle appena citate sono doti che ogni essere umano deve necessariamente mostrare di avere quando cerca di entrare in comunicazione con una cultura sconosciuta, tanto più se si tratta di una cultura che ha terminato il proprio ciclo evolutivo per cui, in assenza di possibilità di confronto, è necessario ridurre al massimo il rischio e il margine di fraintendimento. A questo soltanto dovrebbe “servire” lo studio del latino, a sviluppare l’humanitas a dimostrazione che, ancora una volta, Cicerone aveva ragione.

L'autore

Rossella Iovino

Docente presso Liceo Statale A. Meucci di Aprilia