La scuola tra integrazione e emancipazione
Scuola e società stanno tra loro in un rapporto ambiguo e contraddittorio ben rappresentato dall’antitesi integrazione-emancipazione. L’integrazione si riferisce al ruolo svolto dalla scuola nell’assimilazione del soggetto all’interno del sistema sociale più ampio di cui la scuola fa parte, con particolare attenzione all’inserimento lavorativo ma anche a quello politico. L’emancipazione si riferisce alla volontà della scuola di emancipare (liberare?) il soggetto dai condizionamenti sociali ai quali è sottoposto fin dalla più tenera età, formando uomini e donne in grado di esercitare il pensiero critico.
Tra questi due poli si collocano la pedagogia e la didattica che decidono l’orientamento dell’azione formativa della scuola verso l’integrazione o verso l’emancipazione. Il meccanismo non è così immediato, ci sono tante pedagogie e tante didattiche che interagiscono tra di loro decidendo l’orientamento del percorso scolastico. In estrema sintesi ne abbiamo almeno tre: le pedagogie e le didattiche praticate quotidianamente dai docenti ma anche indirettamente da tutto il personale scolastico compresi/e i/le dirigenti; poi abbiamo quelle accademiche frutto della ricerca teoretica, storica, sperimentale e applicativa e poi quelle definite dallo Stato, attraverso programmi, orientamenti, circolari e, oggi, indicazioni.
Da queste considerazioni nasce la necessità di promuovere un forte coordinamento tra Stato, scuola, università per garantire un interscambio di informazioni ed esperienze in grado di governare l’azione formativa della scuola, sottraendone almeno una parte all’azione del caso (eliminare completamente la casualità è irrealistico e probabilmente ingiusto se non si vuole ricadere nel solo polo dell’assimilazione). Bisogna dunque specificare il ruolo di questi tre attori nella situazione scolastica contemporanea per poi ricercarne i canali di comunicazione.
Lo Stato italiano ha modificato rapidamente, con delle vere e proprie cesure, il proprio rapporto con la scuola. Lo spartiacque è rappresentato dalla Costituzione del 1948 che chiude definitivamente con la tradizione autoritaria, classista, sessista e abilista della scuola italiana dei periodi liberali e fascista; poi abbiamo i decreti delegati del 1974 che, tra le tante cose, promuovono il ruolo delle famiglie e del territorio nel governo delle scuole e infine il DPR 275 dell’8 marzo 1999 che introduce l’autonomia scolastica e ridefinisce completamente il rapporto tra amministrazione centrale scolastica e singole scuole. Per necessità di sintesi tralasciamo di citare la pletora di innovazioni normative che si susseguono dalla nascita della Repubblica a oggi, si pensi al caso dell’inserimento, integrazione, inclusione degli alunni con disabilità; ciò che preme sottolineare è l’orientamento di fondo di questa linea storica: uno stato laico e democratico assegna alla scuola la funzione di promuovere l’individuo nei suoi talenti e capacità e nello stesso tempo di formare il cittadino democratico, ovvero che partecipa al governo della città, della nazione, del mondo. Una prima sintesi, del tutto politica, tra volontà di integrare (nel governo democratico) e volontà di emancipare (tramite lo sviluppo dei talenti personali).
Uno sguardo storico-pedagogico: il concetto di paideia
Dalla ricerca pedagogica, classica e più recente, gli stimoli per affrontare la questione dalla quale siamo partiti non mancano anzi ce se sono innumerevoli. Non possiamo non citare il concetto di base della stessa pedagogia, quello di paideia che si origina nella Grecia classica dei Sofisti, di Socrate, di Platone, di Aristotele, nel momento della fioritura della polis come entità autonoma di governo timidamente orientata verso l’organizzazione democratica. Il concetto di paideia è del tutto ignoto alla cultura pedagogica precedente sebbene le scuole esistessero già da molto tempo nelle civiltà mesopotamiche e in quella egizia. Ciò che rende unico il concetto di paideia e che proietta i greci antichi nella modernità è l’idea di pensare alla formazione dell’uomo come un processo finalizzato e necessario anzi indispensabile a sviluppare tutto il potenziale dell’uomo. È la formazione dell’uomo per l’uomo, non più per il sacerdote, lo scriba, il suddito. Certo le contraddizioni all’interno della stessa cultura pedagogica greca non mancano: donne, disabili e stranieri restano fuori dal percorso formativo e sarà così per moltissimo tempo, ma il seme è stato gettato e germoglierà più e più volte e altrettante volte verrà sradicato nel nome di ideali oppressivi finché in età moderna sboccerà in tutta la sua potenza e sarà in grado di resistere a nuove pestilenze fino ad arrivare ai giorni nostri, nelle democrazie sociali contemporanee, come un albero dalle grandi chiome, forse con qualche ramo secco, forse infestato da parassiti ed erbacce ma ormai solido nelle radici.
Comenio e la fondazione della didattica moderna
È stato Comenio, senza dubbio, il fondatore dell’idea di scuola moderna: una scuola per tutti (disabili, femmine, maschi, poveri e ricchi), per sempre (dalla nascita alla morte), per imparare tutto (tutti i saperi). Vale la pena annotare che Comenio teorizza e pratica questa rivoluzionaria idea di scuola quando in Europa infiamma la prima vera guerra mondiale (verrà infatti combattuta anche nelle colonie) ovvero la Guerra dei Trent’anni (1618/1648), un bagno di sangue destinato a ripetersi più e più volte nella storia europea e mondiale. Un periodo caratterizzato dal declino della forma di governo imperiale e dalla definitiva affermazione degli stati/nazione, dall’avvio della rivoluzione scientifica e del capitalismo mercantile.
In questo quadro socio-economico e culturale, pellegrinando da uno stato all’altro inseguito dal fanatismo religioso, Comenio elabora quell’idea di scuola, ciclica, progressiva, inclusiva, che è alla base del sistema formativo contemporaneo. Comenio dunque rappresenta bene il lato dell’emancipazione della pedagogia e della didattica scolastiche rivitalizzando il seme gettato dalla rivoluzione luterana, ma non dobbiamo dimenticarci che la cornice all’interno della quale si sviluppa il pensiero di Comenio è strettamente religiosa: il fine ultimo dell’educazione è sempre e comunque quello di realizzare gli ideali della religione cristiana, in questo senso il lato dell’assimilazione del soggetto a un progetto educativo che lo trascende, lo precede, lo regola ritorna in tutta la sua potenza.
Rousseau e l’avvio della pedagogia contemporanea
Se Comenio è stato il fondatore della didattica moderna Rousseau può essere considerato il padre della pedagogia contemporanea o almeno di alcuni tratti salienti della pedagogia odierna compreso quello dal quale siamo partiti nel nostro discorso. La sua attualità sta tutta nell’intima contraddittorietà della sua proposta: da una parte, nell’Emilio, la formazione in natura dell’uomo libero dai condizionamenti della società urbana, dall’altra, nel Contratto, la formazione da parte dello stato del cittadino ligio ai suoi doveri civici. Tra i due poli non sembra esserci mediazione, o l’uno o l’altro. Le intuizioni pedagogiche e didattiche dell’Emilio, l’educazione negativa e indiretta, l’educazione naturale adeguata alle fasi di sviluppo del bambino e dell’adolescente svaniscono nell’istruzione statale prefigurata da Rousseau per quelle nazioni non ancora corrotte dallo sviluppo urbanistico. Senza dimenticare il ruolo del tutto marginale che Rousseau affida all’educazione delle donne che riportano la pedagogia a posizioni misogine antecedenti a Comenio. Eppure al netto di queste contraddizioni Rousseau sembra interpretare al meglio l’inquietudine formativa contemporanea derivante dal disfacimento dell’Antico Regime e dall’arrivo di nuove libertà che pongono nuove sfide formative per lungo tempo disattese dagli allora nascenti sistemi formativi nazionali, più simili a sistemi militari che a luoghi per la libera formazione di bambine e bambini. Semplicemente Rousseau non risolve il rapporto tra emancipazione e assimilazione del soggetto in formazione nei sistemi scolastici, si limita, per così dire, a metterli nel piatto entrambi ma senza trovarne punti di contatto o possibili mediazioni. Anche per Rousseau come per Comenio il contesto socio-economico e politico di riferimento è di enorme importanza: siamo in piena rivoluzione culturale (l’Illuminismo), politica (le rivoluzioni francese, americana, inglese), economica (la rivoluzione industriale e il passaggio dal capitalismo mercantile a quello manifatturiero).
L’attualità di Dewey e l’educazione democratica
Tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento ulteriori mutamenti economico-culturali rimodellano la struttura della società e pongono nuove sfide ai sistemi scolastici nazionali. In questo caso l’interprete più fecondo e assolutamente ancora attuale al quale possiamo fare riferimento è J. Dewey che risolve l’antitesi dalla quale siamo partiti attraverso una serie di riflessioni di filosofia dell’educazione e di didattica destinate a informare le proposte educative più innovative di tutto il Novecento e dei giorni nostri. Non possiamo soffermarci in questa sede in un’analisi esaustiva del pensiero pedagogico di Dewey, possiamo solo fissarne alcuni punti espressi in tre opere estremamente significative: Democrazia e educazione (1916), Scuola e società (1899), Esperienza e educazione (1937). È all’interno di queste opere (ma non solo) che troviamo la chiave di volta per comprendere il rapporto tra assimilazione e emancipazione dell’azione scolastica. In primo luogo Dewey sostiene il rapporto simbiotico esistente tra democrazia e educazione: non c’è l’una senza l’altra. La democrazia è infatti una speciale forma di governo che non necessita solo di istruzione ma anche di educazione poiché il cittadino deve essere messo nelle condizioni non solo di saper decodificare gli atti di governo (istruzione) ma anche di partecipare attivamente alla loro elaborazione e al governo della cosa pubblica. È un vero e proprio ribaltamento della pedagogia e della didattica tradizionali perché al centro dell’educazione non c’è più l’adulto e/o un sapere precostituito che richiedono obbedienza cieca da parte di alunne e alunni ma sono queste/i ad assumere il ruolo di protagonisti della scienza educativa. E allora ecco la necessità di considerare la scuola come una società in miniatura all’interno della quale non ‘prepararsi alla vita’ ma vivere realmente giorno per giorno la vita stessa con tutte le sue difficoltà e ambiguità ma anche con tutte le sue meraviglie. Il pensiero scientifico e critico, che nasce dai problemi posti da esperienze concrete, formula ipotesi e infine ritorna all’esperienza per affrontarla con metodo, rappresenta il riferimento costante di tutta la didattica deweyana. Ma non basta sottolineare la centralità dell’esperienza nella didattica attiva, bisogna anche comprendere quando un’esperienza può dirsi educativa ovvero orientata verso finalità individualmente e socialmente desiderabili. In questo caso Dewey individua due criteri che consentono di definire un’esperienza educativa: il criterio della continuità e quello dell’interazione. Il primo si riferisce alla consapevolezza che ogni esperienza formativa è condizionata da quelle precedenti e influenza quelle successive; se la linea temporale delle esperienze formative è orientata verso la crescita progressiva delle facoltà del soggetto, verso l’ampliamento dei suoi orizzonti, verso la volontà di continuare ad apprendere allora le esperienze formative sono educative. Viceversa se la sequenza di esperienze cui il soggetto è esposto portano a un impoverimento delle sue facoltà, al disinteresse per ciò che gli accade intorno o alla cieca obbedienza non possiamo parlare di esperienze educative. Con il criterio dell’interazione invece Dewey intende riferirsi alla necessità di trovare dei punti di collegamento tra le proposte didattiche, gli stimoli ambientali esterni, e i processi mentali interni dei soggetti che apprendono nella consapevolezza, più volte ribadita, che gli insegnanti possono agire solo indirettamente sui processi mentali attraverso un’attenta regia del contesto didattico che dovrà riprendere elementi della vita quotidiana e naturale.
Anche Dewey durante la sua lunga vita attraversa periodi di enormi mutamenti sociali, economici e culturali. Assiste all’ascesa del capitalismo industriale basato sul sistema dell’organizzazione scientifica del lavoro in grado di produrre enormi quantità di beni di consumo, alla trasformazione della società, soprattutto di quella statunitense, in società urbana caratterizzata da nuove forme di aggregazione sociale e soprattutto dal mutamento della famiglia tradizionale e infine, assiste alla tragedia del Novecento, l’ascesa dei regimi totalitari e una grande guerra (1914/1945) con al centro un breve periodo di pace.
In questo scenario Dewey trova una sintesi convincente e ancora attuale tra assimilazione ed emancipazione dell’azione formativa scolastica: l’educazione del cittadino democratico in grado di orientarsi nel complesso panorama culturale delle società contemporanee sempre più dominate da quelli che al tempo di Dewey venivano chiamati sistemi di comunicazione di massa (perlopiù radio, giornali e cinema, più tardi la televisione) e, nello stesso tempo, di impegnarsi attivamente nel governo democratico pubblico e laico.
La situazione attuale
E oggi? Assodata l’attualità delle proposte di Dewey ma anche di quelle di Comenio (l’universalità dell’educazione) e di Rousseau (la contraddittorietà dell’educazione) come possiamo leggere, interpretare e infine rispondere alle tante emergenze educative che per certi versi rappresentano un tratto caratteristico nel nuovo secolo?
Abbiamo visto come per i tre autori prima citati il ruolo del contesto storico di riferimento giochi un ruolo importante per la comprensione del loro pensiero, quindi anche per noi conviene partire dai dati di contesto o almeno da alcuni di loro, quelli più strettamente collegati.
La rivoluzione digitale
In primo luogo abbiamo la rivoluzione digitale, che rappresenta l’ennesima espressione del complesso rapporto esistente tra innovazione tecnologica, capitale, organizzazione sociale. La rivoluzione digitale, iniziata negli anni Ottanta del Novecento, ha completamente modificato i rapporti sociali, economici, politici maturati durante la Modernità. Essa ha disintermediato le relazioni tra soggetto, saperi, professioni, cultura, economia, ecc., anche se non si tratta certo di una disintermediazione totale se non altro perché le redini degli immensi sistemi informativi presenti in rete sono fermamente tenuti da pochi individui/gruppi industriali. Tuttavia al netto di questa precisazione è fuori di dubbio che l’accesso alla conoscenza è stato stravolto dalla rivoluzione digitale, che ha messo potenzialmente a disposizione di tutti l’infinito della conoscenza umana.
Il capitalismo finanziario
In secondo luogo abbiamo l’avvento del capitalismo finanziario, cognitivo, digitale, della conoscenza, in grado cioè di trarre profitto non più e non solo dalla produzione di merci ma anche e soprattutto dal trattamento dell’informazione. Tutte le grandi crisi economiche più recenti, compresa quella tremenda del 2007/2008 dalla quale forse non siamo ancora usciti, nascono da questo nuovo sistema di accumulazione dei profitti, sempre più slegato da precise condizioni oggettive di produzione e di lavoro (che però sussistono al margine di tale sistema creando nuove forme di marginalità e di sfruttamento, si pensi al fenomeno della delocalizzazione industriale) e quindi esposto alla volatilità dei mercati e delle imprese finanziarie.
L’industria culturale e dei consumi di massa
In terzo luogo abbiamo la concentrazione dei sistemi di comunicazione di massa in vere e proprie industrie culturali racchiuse nei dispositivi tecnologici individuali di informazione/comunicazione (pc, cellulari, tablet, ecc.). L’impatto di questi dispositivi sulla formazione individuale e collettiva è enorme, ben oltre le profezie dei francofortesi; l’esposizione precoce (sempre più precoce a partire dai primi anni se non mesi di vita), intensa e prolungata a tali dispositivi influenza fortemente il funzionamento cognitivo di bambine e bambini, non necessariamente in senso negativo ma bisogna prenderne atto e riconoscere che siamo di fronte a una mutazione culturale della quale non conosciamo ancora gli esiti.
Il contesto politico
In quarto luogo abbiamo i mutamenti politici. La forma di governo stato/nazione entra in crisi già alla fine della Seconda guerra mondiale con la logica dei blocchi politici contrapposti. La fine dell’impero sovietico, l’emergere della globalizzazione economica e l’allentamento delle barriere doganali soprattutto in Europa non fanno altro che accelerare tale processo ma si tratta solo di un movimento apparente. Proprio in questi ultimi anni assistiamo in Occidente a una forte ripresa di movimenti politici nazionalistici alcuni dei quali non nascondono le proprie simpatie per i regimi totalitari del Novecento. Anche gli Stati Uniti, anzi soprattutto gli Stati Uniti, hanno recentemente ripreso una politica isolazionista e nazionalista accompagnata da un’escalation protezionista senza precedenti nella storia recente occidentale. All’indebolimento della forma nazionale di governo non è succeduta un organizzazione internazionale politica dell’economia e della società basata sul rispetto delle tante convenzioni internazionali sui diritti di donne, uomini, disabili, bambini, ecc., ma una strutturazione multipolare dei rapporti economici basata sulla legge del più forte dalla quale emerge sempre più minaccioso lo spettro dello scontro frontale tra USA, Cina, Russia, Unione Europea e altri stati in ascesa.
I conflitti
Poi abbiamo i conflitti, le guerre. Come sempre accade nei momenti storici caratterizzati da grandi mutamenti tecnologici, economici e culturali i conflitti si inaspriscono e la guerra torna a tuonare, in Europa, in Palestina in molti altri luoghi del Pianeta che però non fanno notizia e chissà dove domani (Taiwan?).
Le grandi migrazioni
Mettiamo tra le ultime la questione delle grandi migrazioni non perché sia la meno urgente e importante, anzi casomai è vero il contrario, bensì perché in larga misura rappresenta l’esito di tutte le altre questioni emergenti finora accennate. Cambiamenti economici e politici, conflitti armati, emergenze ambientali generano migrazioni di un gran numero di persone che rischiano spesso di vedersi rimpatriate con la forza, ma nel frattempo la società cambia e gli ambienti sociali, in primis le scuole diventano multiculturali e necessitano di nuovi approcci pedagogici e didattici.
La crisi ambientale
Come ultima questione, tralasciandone tante altre, quella ambientale, climatica, ecologica. La questione è ormai sotto gli occhi di tutti anche se non manca chi si ostina a negarla; intervenire non è più un’opzione ma un’urgenza, una necessità, un dovere.
Come affrontare questi elementi di contesto dal punto di vista pedagogico e didattico?
Pedagogia e didattica per la scuola attuale
Non si tratta di trovare ricette didattiche magiche, in grado in un sol colpo di risolvere questioni la cui soluzione spetta innanzi tutto al sistema politico nazionale e internazionale, tuttavia la scuola può fare molto, soprattutto nel lungo periodo, per preparare la condizioni culturali idonee ad affrontare e superare le tante questioni oggi sul tappeto. Il primo passo è senza dubbio quello di riconoscere le urgenze culturali, politiche, economiche, tecnologiche, ecologiche prima solo accennate. Per troppo tempo la formazione, iniziale e in servizio, di docenti e dirigenti, si è focalizzata su oggetti specifici dei processi di insegnamento-apprendimento rinunciando ad affrontare l’analisi del quadro culturale in grado di giustificare l’opzione per una metodologia piuttosto che per un’altra. Si è generato così anche in ambito pedagogico-didattico un mercato della formazione e un consumo della formazione che in larga misura lasciano intatto il costume didattico ancorato a tradizioni che si perpetuano proprio perché non trovano valide alternative. Dunque la formazione politica dei docenti e dei dirigenti innanzi tutto; attenzione politica non partitica, politica perché la pedagogia, la didattica, la scuola, sono fenomeni politici ovvero che influiscono e/o sono influenzati dal governo della città (polis) e pertanto richiedono innanzi tutto la capacità e le conoscenze necessarie a decodificare il paesaggio politico nel quale insiste la scuola. Poi abbiamo le questioni più strettamente didattiche.
Una didattica metacognitiva
La rivoluzione digitale richiede sofisticate capacità mentali di interpretazione, elaborazione e conservazione dell’informazione che solo una didattica metacognitiva può assicurare. Se la scuola moderna aveva il ruolo di assicurare l’accesso all’informazione e l’alfabetizzazione disciplinare e culturale oggi c’è l’urgenza di lavorare sulle competenze legate al controllo dei processi esecutivi cognitivi superiori: la memoria, l’organizzazione mentale delle informazioni, le strategie di apprendimento ma anche il controllo delle fonti e delle tecnologie dell’informazione.
La centralità dell’educazione linguistica
In un quadro culturale dominato dall’informazione alfabetica emerge l’importanza di assicurare una profonda competenza linguistica intesa come capacità di muoversi autonomamente all’interno dell’universo linguistico: saper comunicare, parlare, ascoltare; riuscire a esprimere vissuti e sentimenti e riconoscerli nelle narrazioni altrui; saper leggere e scrivere testi complessi delle più diverse tipologie. In questa direzione l’educazione linguistica ha fatto passi da gigante basti pensare alla grande lezione di Tullio De Mauro e alla ripresa di quella di Celestin Freinet con le sue tecniche didattiche per l’apprendimento cooperativo di lettura e scrittura.
Una didattica cooperativa e prosociale
I processi di socializzazione e di apprendimento non sono separabili, l’apprendimento non è mai un fatto individuale ma sempre sociale e relazionale. Ma la socializzazione non può essere ridotta ad apprendimento cooperativo, essa è e deve sempre essere presente nell’intenzionalità didattica. Il lavoro di gruppo non può essere ridotto a una opzione metodologica tra le tante quanto piuttosto elevato al rango di elemento strutturale della didattica scolastica dal quale si snodano tutte le altre esperienze didattiche.
Una didattica laboratoriale e interdisciplinare
La didattica trasmissiva, esclusivamente verbale, incarnata dalla pratica didattica della lezione tradizionale, non funziona per tutte le tipologie di apprendimento ma solo per quelle riferite a obiettivi didattici di conoscenza, che ormai, peraltro, possono essere facilmente appresi in rete. Per lo sviluppo di capacità e competenze superiori e operative servono strategie laboratoriali, interdisciplinari e cooperative in grado di mettere il soggetto che apprende in contatto diretto con i processi di produzione della conoscenza stessa. In questo senso tutte le discipline sono affrontabili attraverso il laboratorio didattico non solo quelle tradizionalmente ritenute più pratiche, anzi, proprio il laboratorio si presta maggiormente a una didattica interdisciplinare in grado di superare quella frattura tra scienze umane e dello spirito e scienze fisiche e naturali, tra approccio generalistico e approccio specialistico alla conoscenza come auspicato fortemente da E. Morin.
Una didattica in natura e per la natura
La grande assente dalla scuola moderna e contemporanea è senza dubbio la natura, ridotta al rango di sola materia di insegnamento all’interno della quale spesso l’uomo (maschio e bianco), se vi è compreso, rappresenta l’apice. La scuola tende a sottrarre bambini, bambine, ragazze e ragazzi all’ambiente naturale proprio nel periodo della vita in cui più di ogni altro c’è bisogno di riconoscere la propria appartenenza al mondo naturale, l’essere animali tra altri animali e tra vegetali, riconoscere l’interdipendenza tra mondo naturale e società umana, imparare a muoversi all’interno del mondo naturale, ecc. In questo senso le numerose esperienze di outdoor education rappresentano una risorsa preziosa per la didattica scolastica.
Una didattica inclusiva
La scuola moderna, compresa quella di massa nata verso la fine della modernità, è una scuola che uniforma, che elimina le diversità in nome di norme che non rappresentano un dato reale e concreto ma esclusivamente ideologico: la superiorità del maschio, dell’Occidente, dell’economia, dell’abilismo, ecc. Nella società attuale questo quadro di riferimento, oltre che ingiusto e reazionario, è del tutto impraticabile viste le condizioni di contesto prima accennate. L’inclusione, parola ormai già logora, non è la panacea, la soluzione di tutti i problemi quanto un atteggiamento di fondo, una disposizione, una tendenza, una ricerca continua che non si esaurirà mai perché ci sarà sempre qualche diversità che ci coglierà di sorpresa e metterà alla prova i nostri paradigmi culturali. In questo processo di continua ricerca e cambiamento però abbiamo dei punti di rifermento permanenti o quantomeno duraturi e sono quelli della democrazia e della laicità, all’interno dei quali l’antitesi tra assimilazione e emancipazione si scioglie, almeno temporaneamente, nella formazione di cittadine e cittadini in grado di contribuire attivamente allo sviluppo della società.
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Docente di Didattica e pedagogia speciale all'Università degli Studi di Firenze