Parlare, scrivere di Andrea Camilleri al passato è impresa ardua, perché Camilleri, a cent'anni dalla sua nascita (a Porto Empedocle, nel settembre del 1925) in realtà pare non se ne sia andato davvero. Non solo perché la Rai ripropone, a guadagnare facile terreno nello share, i suoi episodi del Commissario Montalbano, ma per quello che ha rappresentato e rappresenta ancora la sua opera per la cultura italiana, la società di questo paese. Anche una semplice sintesi della sua poliedrica attività non si esaurisce facilmente, lui, anche prima di essere universalmente noto firmava già cose che sono rimaste nell'immaginario collettivo di una generazione attaccata ad uno schermo ancora in bianco e nero. La sua produzione letteraria è monumentale, iniziata assai prima che il successo lo portasse ad essere tradotto in ogni lingua, già a cavallo tra gli anni '40 e '50 del secolo scorso, quando pubblicava i suoi racconti su L'Ora di Palermo.
Camilleri ha traghettato la memoria del “secolo breve”, con le sue storture, le sue aberrazioni, ma anche con la vertigine inesauribile delle sue speranze, in questo millennio. L'ha fatto con ironia, inventando linguaggi nuovi, promuovendo una cultura che nasce dal dubbio, dall'essere colti non in quanto si sa, ma perché ci si interroga, ci si muove con atteggiamento critico, ridendo – se è il caso – di sé stessi, mentre ci si rimette in discussione. L'ha fatto come fa il maestro che conosce perfettamente il suo ruolo. E maestro, insegnante è stato a lungo, nelle accademie, nelle scuole di regia. È lì che ha formato sé stesso insieme ai suoi allievi di cui disvelava talenti (tra gli altri lo stesso Luca Zingaretti e Marco Bellocchio), assecondandoli, con spirito osmotico, ricercando uno scambio continuo, pratica indispensabile per chi ha consapevolezza piena del significato più autentico del proprio lavoro.
Camilleri è un intellettuale “non convenzionale”, prova ogni genere di esperienza, dall'insegnamento alla regia, dal teatro alla scrittura ed alla sceneggiatura, smuove le coscienze, rovescia il paradigma del “tutto cambia perché nulla cambi”, non si adagia nella “condizione umana con le sue steppe di gialla noia”, come direbbe quell'altro insegnante siciliano, Gesualdo Bufalino. Interpreta la Sicilia come un microcosmo che va raccontato, perché contiene in sé l'immagine esatta della complessità planetaria. Del resto, la Sicilia ha quella forma a triangolo, è Trinacria, tripartita, con quel tre che ritorna esplicativo nella sua perfezione – anche contraddizione - come somma del primo pari e del primo dispari, rappresentazione del tutto e del suo contrario. Irrequieto, al più categorizzabile nella precisa classificazione che degli isolani fa Nisticò, lo storico direttore de L'Ora di Palermo, dividendoli in siciliani di scoglio ed in siciliani di mare. I primi, abbarbicati allo scoglio, non se ne staccano, disillusi, danno l'impressione d'essere rimasti in Sicilia solo per vedere come va a finire. Pure fuori dell'uscio di casa pare si apprestino ad esplorare il Borneo, se vanno nel paese limitrofo salutano i parenti, se si spingono più in là per necessità è cosa che dura poco, affrontano la trasferta come un evento luttuoso. Andrea Camilleri appartiene alla seconda categoria, a quelli che al primo refluo di vento stendono le vele e prendono il largo, ma se ne vanno con la valigia pesante del ricordo, della memoria, si portano dietro le rene dorate, il porto di partenza coi suoi profumi, quell'umanità vilipesa dell'isola, col suo destino vincolato al coraggio dell'agire. Nel suo viaggio non disdegna la deriva, per quel mare di mezzo che non è mai uguale a sé stesso, non ha le onde lunghe e costanti, spinte dai venti precisi e stagionali, dell'oceano; si muove d'onde corte e bizzose, come certi suoi personaggi, abituati a farsi gioco di venti cangianti, di libecci, scirocchi, grecali, che inseguono le bonacce a tracciare rotte verso il porto salvo. Nemmeno si nega il piacere di lanciare reti a maglia fine, per catturare le pregiate prede della letteratura siciliana del Novecento. Lui, Camilleri, sa bene come si va a pesca, è nato fronte porto, affacciato sul Mar d'Africa, lungo le rotte di mercanti Fenici, d'un Ulisse che non trova pace e conforto di patria, di un qualche Argonauta.
Nei suoi scritti le catture giuste ci sono tutte, le spiazzanti giravolte pirandelliane, certe profondità di Vittorini, le ironie di Brancati, la passionalità di Consolo, arguzie di Bufalino, quel gusto nel coniugare, attraverso ardite invenzioni linguistiche, dialetto ed italiano colto, come faceva nel suo Horcinus Orca Stefano D'Arrigo – e non era quella l'epica narrazione d'un viaggio? -, ma c'è anche traccia immancabile dell'acume di Sciascia. Proprio con quest'ultimo, Camilleri costruisce una dialettica serrata, nello spazio e nel tempo, i due sono diversi. Il Maestro di Regalbuto era proprio l'archetipo illustrativo della prima categoria di siciliani che descrive Nisticò, con il suo carico di disillusioni, consapevole che ogni cambiamento sarebbe potuto arrivare solo attraverso una rivoluzione delle coscienze, ma altrettanto certo della improbabilità di quell'accadimento. Andrea Camilleri, al contrario, si convince che quella rivoluzione necessaria è anche possibile, persino inevitabile, e lavora per questo, fa di questa ricerca l'abito da lavoro quotidiano della sua produzione artistica. Ne traccia il manifesto programmatico in quella sua ultima apparizione pubblica, quando, ormai completamento cieco e nel vestito cucito su misura di Tiresia, scuote d'energia le pietre antiche del Teatro Greco di Siracusa, meritandosi un'ovazione di diversi minuti. È tutt'altro che il commosso plauso ad un grande maestro, a quello che poteva apparire superficialmente un lascito testamentario, piuttosto è la consapevolezza di avere ascoltato i dettami precisissimi di una prospettiva strategica d'indispensabile cambiamento, quello che può avvenire solo attraverso la riscoperta d'un nuovo umanesimo, che si fa dialogo tra diversi, espulsione definitiva e rigorosa d'ogni forma di sopraffazione e negazione della dignità.
Questa ricerca d'umanità, Camilleri la esercita da abilissimo fotografo dei tic, dei vezzi, dei difetti, di imprinting e riflessi condizionati dei siciliani, catturati dentro le sue narrazioni, da quelle storiche, che lasciano tracce di memoria, a quelle ambientate nell'oggi. Azzecca sempre il carattere giusto in cui ci si riconosce perfettamente, ci si immedesima, senza infingimenti, invitandoci a ridere di noi stessi, a farci trascinare nel gioco dove sotto quel riso c'è sempre una cosa seria. Dell'umanità Andrea Camilleri, del resto, è profondo conoscitore, ne è osservatore attento, lo scienziato che incrocia i dati, quelli della memoria stipati nelle sue zeppe valigie di migrante, quelli della lente d'ingrandimento dell'osservatore creativo, dell'autore. Per questo le sue cose non sono mai banali, Camilleri ha quel talento raro di rendere popolare – in un'accezione positiva – ciò che altri hanno saputo tradurre solo in narrazioni elitarie e poco accessibili.
È scrittore, autore politico nel senso proprio del termine, perché dell'aggettivazione recupera il senso etimologicamente più puro, quello che viene dalla Polis, che implica partecipazione come sua componente essenziale, ciascuno secondo le proprie possibilità, le proprie pulsioni, i propri talenti. Per questo, quando mette a disposizione quel modo di raccontarci le cose unico, sta seminando orti di trasformazioni, insegna quello che sa, soprattutto perché e come lo sa, e da buon maestro si attende che chi l'ascolta sappia farne tesoro prezioso, sappia moltiplicare, mettendoci del suo, conoscenze che sanno di poter crescere solo se collettive.