Stiamo passando da un’economia di pace a una economia di guerra, dal Green Deal al War Deal, dalle armi della ragione alle ragioni delle armi. C’è una narrazione – subdola e strumentale – che l’economia di guerra porti lavoro, crescita economica e innovazione tecnologica.
Tutto falso.
Sì, un po’ il PIL e gli occupati crescono, ma molto, molto di meno di quello che avverrebbe se le stesse risorse venissero indirizzate sulla transizione ecologica, sul welfare, sulla sanità. L’hanno dimostrato con accurati modelli econometrici i ricercatori di Greenpeace e Sbilanciamoci nel lavoro Economia a mano armata[1].
Secondo questi modelli, se prendiamo a esempio la Germania, un miliardo di spesa nel settore militare produce un ritorno economico di un miliardo e 200 milioni di euro e 6.150 nuovi posti di lavoro, mentre gli stessi soldi spesi nella transizione ecologica hanno un ritorno di un miliardo e 752 milioni e 11.360 posti di lavoro.
Ma se prendiamo l’Italia i dati sono ancora più eclatanti. Per ogni miliardo di euro speso il ritorno nel settore delle armi è di 741 milioni di euro e 3.160 occupati. Mentre per la transizione ecologica il ritorno economico è di 1 miliardo e 900 milioni per 9 mila e 960 posti di lavoro. Il triplo del settore militare.
Per andare ai classici, va ricordato che Karl Marx nelle Teorie sul plusvalore affermava che la spesa militare è un consumo improduttivo, merce non scambiabile con altra merce e anzi distruttrice di ricchezza (quando poi le guerre si fanno: distruzione di città e territori, inquinamento dei siti, ecc.), merce destinata ad essere consumata o sostituita perché obsoleta, ma non scambiata, e quindi, appunto improduttiva. Non crea valore aggiunto. Un tornio, un software, una macchina di assemblaggio creano ricchezza economica e sociale, un fucile o un bazooka, no, anzi, la distruggono. Inoltre bisogna ricordare che negli ultimi dieci anni il contributo dato dall’industria militare all’innovazione e alla ricerca è drasticamente sceso nella classifica del contributo dato dai vari ambiti produttivi (digitale, farmaceutico, elettronico, ecc.).
La bufala del miraggio lavorativo
I colossi del digitale (Google, Microsoft) e della logistica (Amazon, ecc.) nonché dell’Intelligenza Artificiale nascono e si sviluppano in ambito civile (a differenza di quello che avveniva negli anni ’50 e ’60), salvo oggi ricercare nuovi spazi di business – molto profittevole – nel settore militare. Gli stessi investimenti della Cina (a differenza degli Stati Uniti) nei nuovi settori e frontiere dell’economia tech e digitale si concentrano sul civile e non sul militare. E la ricerca e gli investimenti si sono concentrati su altri settori, come biotecnologie, Intelligenza Artificiale, semiconduttori e automotive, e non sul settore militare. Inoltre il settore aerospazio-difesa – questo è un paradosso, ma teniamone conto – pesa sempre meno nell’economia globale, anche se è strafinanziato dalla spesa pubblica.
Secondo i dati della EU Industrial R&D Investment Scoreboard che monitora i 2 mila gruppi industriali più importanti al mondo, il settore aerospazio-difesa è scivolato dal decimo posto al quattordicesimo posto nella classifica globale per importanza economica. Il settore militare cresce a dismisura, è molto pompato dalla spesa pubblica che viene sottratta agli investimenti sociali. Il complesso militare-industriale si impone anche sul resto dell’economia. Sì, i posti di lavoro nel settore militare sono buoni – meglio pagati e protetti – e magari fanno rifiorire il fenomeno delle “aristocrazie operaie”. Ma non sono così tanti. Secondo alcune stime i posti di lavoro creati in Europa con Rearm Europe sarebbero circa 1milione e 400 mila, poco più di 100 mila in Italia in una decina d’anni. Sono stime.
Un sacco di soldi per pochi posti di lavoro. Ricordo che per la spesa degli F35 si prevedevano in Italia oltre 10 mila posti di lavoro. Tra l’impianto di Cameri e l’indotto, forse arriviamo a 1.500. I peana all’industria militare sono speculari all’assenza di una politica industriale capace di creare lavoro buono nelle frontiere del futuro: transizione ecologica, welfare inclusivo e accogliente, digitale, un modello di sviluppo sostenibile. L’economia di guerra fa felici le multinazionali, gli americani e pochi produttori. Tra l’altro, l’80% della nostra spesa per sistemi d’arma se ne va in appalti per industrie di altri paesi, per i ¾ negli Stati Uniti. Il keynesismo militare è un ossimoro insostenibile, una bufala.
Ricordo che quando Churchill vinse la guerra, poi perse le elezioni del 1945 a favore dei laburisti che si fecero portavoce di una società drammaticamente impoverita che voleva sanità pubblica, sicurezza sociale, case popolari. L’economia di guerra lasciò in dotazione alla Gran Bretagna un debito pubblico del 210%. E negli Stati Uniti, prima dell’economia di guerra c’era stato con Roosevelt, dopo la crisi del ‘29, un keynesismo civile vero – altro che militare – che creò lavoro senza fare armi, tassando i ricchi con un’aliquota del 95% sui redditi più alti e colpendo ferocemente la finanza speculativa.
Un peace deal
Quello che serve a noi è un peace deal non un war deal, un’economia di pace, non un ‘economia di guerra. Si crea molto più lavoro, più crescita economica con un’economia di pace che con un’economia di guerra. Ecco perché con Sbilanciamoci e Rete Pace e Disarmo abbiamo lanciato dal 20 ottobre al 30 novembre la carovana per un’economia di pace[2], in occasione della discussione della prossima legge di bilancio e della nostra controfinanziaria[3]. Partiremo da Campobello di Mazara a Trapani, contro il caporalato e lo sfruttamento dei migranti, insieme alla CGIL, poi andremo a Messina, contro il Ponte sullo Stretto, per poi attraversare l’Italia, andando in un ospedale, in una scuola, in un consultorio, in una università, in una fabbrica, in un carcere, in un centro antiviolenza a fare iniziative per dire che questi sono i posti dove vanno messi i soldi e non nei cacciabombardieri e nei carri armati. Invitiamo tutti a darci una mano e a organizzare iniziative sul vostro territorio: anche un flashmob, un volantinaggio davanti una fabbrica, un’assemblea.
Il riarmo è cominciato in Italia ben prima del Rearm Europe e della decisione della NATO. Dal 1989, ad eccezione di qualche anno nella prima metà degli anni ‘90, le spese per armamenti sono aumentate in tutto il mondo. L’Italia negli ultimi dieci anni ha aumentato del 60% la spesa militare: il 12% soltanto nell’ultimo anno. Nel nostro Paese la multinazionale italiana Leonardo , si è adeguata a questo andazzo per inseguire i lucrosi profitti del militare, non fa più le locomotive del Frecciarossa e si è sfilata dall’Industria Italiana Autobus. Invece di investire nella mobilità sostenibile si è buttata, come un pescecane qualunque, sul militare e il traffico d’armi. E il Governo, che detiene il 30% della proprietà di Leonardo, sta a guardare.
Il ministro delle imprese e del made in Italy Adolfo Urso ha dichiarato che l’automotive si può riconvertire nel militare per uscire dalla crisi. Non essendo stato capace in più di due anni di affrontare la crisi del settore dell’auto – che risale a prima del green deal e la colpa non è certo della transizione – pensa che invece di fare 250 mila automobili si possano fare 250 mila carrarmati. Con le stesse catene di montaggio, gli stessi robot, la stessa verniciatura, le stesse macchine di assemblaggio. Dilettanti allo sbaraglio.
Noi invece diciamo il contrario. Che la riconversione al civile – senza perdere un solo posto di lavoro – si può fare[4]. Con le stesse tecnologie che vengono utilizzate per fare i sistemi di puntamento dei blindo si possono costruire i macchinari per fare la TAC. Con la stessa tecnologia che si utilizza per costruire i cacciabombardieri, si possono costruire gli aerei per spegnere gli incendi. Con le stesse tecnologie che si utilizzano per costruire gli elicotteri da guerra Mangusta si possono costruire gli elicotteri per l’elisoccorso nelle aree interne.
Serve una politica industriale, un modello di sviluppo diverso, ma soprattutto serve la volontà politica. Non è una cosa impossibile. Ed è per questo che dobbiamo impegnarci tutti, insieme al sindacato, per dimostrare che è possibile un’altra strada, un’alternativa che dobbiamo praticare e mettere in campo.