La rivista

Ricerca bene comune

Esplodono le spese militari: dal Governo un bilancio di guerra

Abbiamo affrontato più volte su questa rivista il tema delle spese militari e di tutto quello che ci ruota intorno. L’ultima, in ordine di tempo, è stata la presentazione dell’e-book Economia a mano armata con un articolo pubblicato sul n.6 di giugno 2024 curato da Paolo Maranzano[1], uno dei coautori del testo di Sbilanciamoci!

In occasione del varo della legge di bilancio del 2025, preceduta da pronunciamenti impegnativi in materia di sforzo bellico, atteso dai singoli paesi, e di “necessità” di una difesa comune europea, come nel rapporto Draghi di settembre e nei successivi impegni indicati dalla nuova Commissione Europea, ci è sembrato ragionevole riprendere la lista dei temi sollevati, confrontandoci con Maranzano in forma di intervista su quanto emerge e sulle possibili scelte.

Tre sostantivi, non necessariamente correlati, caratterizzano la spesa militare: Quantità, qualità, impiego/destinazione. Concetti che spesso sono associati all’attesa di ritorni (alle “ricadute” sia tecnologiche che economiche) che caratterizzano il mercato e il commercio dei prodotti legati a questa particolare economia. Con un parallelo un po’ ardito gli stessi sostantivi definiscono la spesa in ricerca e il dibattito che la contraddistingue. Qual è la tua opinione in proposito?

Da diversi decenni il mondo della ricerca scientifica e sociale ha intrapreso un percorso di omologazione e integrazione verso standard internazionali che tutti devono rispettare e tenere in considerazione, sia nell’attività quotidiana che nella programmazione di medio e lungo termine. A testimonianza di questo processo di omologazione vi è la “corsa al ranking” che istituti di ricerca, università e addirittura i singoli ricercatori che ne fanno parte, hanno lanciato per ottenere posizioni sempre migliori nelle graduatorie internazionali e sulla cui base si determinano il prestigio (o la decadenza) delle istituzioni di ricerca. E i rankings sono esattamente basati sui tre sostantivi citati nella domanda: “quanta” ricerca produci; “che qualità” di ricerca produci; e “quali ricadute ha” la ricerca che produci. Se da un lato, quantificare la ricerca è piuttosto semplice (basta contare il numero di articoli scientifici o report o materiali vari pubblicati in un certo periodo di tempo), misurare la qualità e le ricadute della ricerca non è affatto banale. La qualità non è un concetto assoluto, va declinata nel contesto specifico, e molto spesso la sua definizione accontenta solo una parte limitata degli interessati. Per la “ricaduta” è anche peggio: in ambito ingegneristico siamo in grado di verificare quanto sia utile e diffusa una certa tecnologia solo se è stata realizzata fisicamente e poi utilizzata; ma come valuti tutte le ricerche che poi non portano a brevetti o strumenti pratici? E come si valuta la ricaduta di un modello matematico o di una teoria economica o di uno studio sociologico? Riproponendo questo ragionamento fatto sulla ricerca al caso degli armamenti, il buon senso suggerisce che quantificare le armi sia un compito abbastanza semplice, mentre parlare di qualità e ricaduta è decisamente più complicato. Cosa vuol dire armamento di qualità? Intendiamo un sistema d’arma più preciso di altri che colpisce bersagli senza causare danni collaterali? Beh, allora in questo momento in Palestina l’esercito regolare israeliano sta usando sistemi d’arma davvero di bassa qualità dato che per colpire un rifugio di miliziani abbatte un ospedale e uccide decine di civili. Magari qualità significa un sistema d’arma prodotto a costi inferiori del passato? Piuttosto direi che questo risultato “positivo” è dato dalla capacità di ingegneri e ricercatori di efficientare il processo produttivo, indipendentemente da cosa si produce. Quindi, se la definizione di arma di buona qualità non è chiara, sulla ricaduta sociale degli armamenti dovremmo essere tutti d’accordo nel dire che vi è una sola risposta: morte e distruzione. Al massimo possiamo aggiungere ai “ritorni” anche qualche profitto per chi l’arma l’ha prodotta e venduta.

L’aggravamento dei conflitti a livello globale e il loro avvicinarsi allo scenario nazionale, nonché la diretta percezione della loro incidenza sulla nostra vita quotidiana e sulle prospettive future, rappresentano una novità di cui ancora non abbiamo preso completamente coscienza. Questo non facilita la lettura delle scelte e di quanto contenuto nelle decisioni politiche ed economiche. Come fare per investire la società civile, e in particolare il mondo della cultura, della formazione e della ricerca?

La Storia degli ultimi trent’anni ci ha chiaramente mostrato come la società e l’economia possono mutare molto rapidamente e in direzioni che non ci si aspetterebbe. Chi poteva aspettarsi che da una serie di manovre fraudolente di alcune banche “too big to fail” in meno di due anni si potesse precipitare verso speculazioni sui conti pubblici nazionali tanto forti da far cadere governi; tagli lineari alle voci di bilancio pubblico in materia di sanità, istruzione, sostegno alla fragilità; e disoccupazione a livelli record? Oppure, chi si aspettava che dopo due anni di pandemia in cui abbiamo limitato (e in alcuni casi rinunciato) la mobilità personale per salvare vite umane, recessione, grandi piani di ripresa e crescita come non la si vedeva da decenni di stagnazione, che scoppiasse una guerra tra gli eserciti regolari di due paesi sovrani (sottolineo questo aspetto perché ormai eravamo abituati esclusivamente a combattimenti tra eserciti internazionali e miliziani irregolari), a cui dobbiamo aggiungere gli alleati che inviano tonnellate di armamenti e che  solo quando le cose vanno male invocano la via della diplomazia per concludere le ostilità? Ecco, è chiaro che in un clima di incertezza generale e globale qualunque società tende a chiudersi su sé stessa, cercando di occuparsi solo della routine quotidiana, perché pensare ad un orizzonte più lontano è troppo complicato. Non possiamo prendercela con chi si sente insicuro, ha paura o semplicemente ha una idea vaga di quello che sta succedendo: il panorama è complesso e si complica ad ogni ulteriore movimento. Molti di coloro che lavorano nel mondo della ricerca, della cultura e della formazione hanno capito chiaramente che l’unica via percorribile per dipanare (per quanto possibile) questa nebbia è continuare ad esprimersi tramite i canali che si hanno a disposizione e tenere sempre alta l’asticella dell’attenzione sui temi internazionali, anche quelli che apparentemente sono lontani e poco influenti. Gli obiettivi che chiunque ne abbia la possibilità dovrebbe perseguire sono molteplici: il primo è sicuramente salvaguardare il diritto di ognuno ad avere una opinione, facendo sì che questa opinione sia informata e ragionata. In tal senso, rigorosità nell’utilizzo e nella divulgazione delle informazioni e serietà nelle modalità di comunicazione devono essere la base per trasmettere in maniera efficace i messaggi. Secondo, ricordare sempre che “la guerra non è la risposta”, ma che “la guerra è la domanda ed la risposta è no!”. Come formatori e ricercatori dovremmo respingere forme comunicative che portano alla assuefazione alla guerra come parte integrante delle nostre vite, alla rassegnazione e all’abitudine di pensare al “mercato della guerra” come uno dei tanti settori dell’economia e della società di paese, ignorando volontariamente le catastrofiche conseguenze che esso implica.

Da più parti si rivendica la necessità di un “esercito europeo” o quantomeno di un coordinamento più forte sulle dotazioni e gli investimenti. Draghi, e non solo lui, esemplifica questa scelta come propedeutica a un rafforzamento, da una parte, della capacità operativa (inclusa la dissuasione verso terzi) e, dall’altra, della possibilità di un investimento comune sottratto ai vincoli nazionali. In altre parole a un passo in avanti nell’integrazione europea. È questa una strada percorribile? E a quale prezzo?

Avere un esercito comune significa anzitutto prevedere un budget (di spesa, di investimento e di forze umane) comune ai paesi aderenti. In questo senso, unire le forze in un progetto unitario ha senso ed è sostenibile solo se ognuno contribuisce in base alle proprie effettive capacità o alla propria volontà politica, nessuno escluso. Se partiamo dall’assunto che “il totale non è la somma delle parti”, anzi, “il totale è più grande della somma delle parti”, è lecito pensare che in un progetto di esercito comune le forze vadano sommate ma anche razionalizzate. Se ad oggi ogni paese dispone di un certo numero di forze armate e spende una certa somma in armamenti, con un esercito comune europeo la spesa nazionale e il numero di effettivi dovrebbero diminuire in un’ottica di economia di scala europea. Nel 2023, i paesi UE membri della NATO hanno speso circa l’1,70% del PIL totale in spesa militare[2]. Ci sono paesi come Italia e Spagna che non superano il 1,45% del proprio PIL, mentre altri, ad esempio Polonia e Lituania sono intorno o superiori al 3%, quindi in doppio della media. Questi numeri mostrano che la recente discussione sull’incremento della spesa militare dei paesi alleati fino al 4 o 5% del PIL sia pura fantascienza (per fortuna) per i paesi dell’Europa occidentale, mentre è potenzialmente realtà per alcuni paesi dell’Est. Nel caso italiano, anche solo raddoppiare la quota del PIL in militare, comporterebbe altri 27 miliardi di euro annui di spesa (non male per un paese che fatica a trovare i soldi per gli adeguamenti salariali dei docenti e taglia punti organico a scuole e università). Se la discussione fosse spostata dai singoli paesi all’Unione Europea come attore unico, allora il peso decisionale e l’influenza del continente sarebbero ben diversi: basti pensare che il numero di militari effettivi per i paesi UE-NATO è di poco superiore a 1 milione, mentre i militari USA sono 1,29 milioni, quindi coerenti tra di loro. Come pacifisti, non dovremmo essere troppo esaltati dal potenziale utilizzo della spesa militare comune come strumento di integrazione europea, ma è indubbio che potrebbe portare vantaggi economici e organizzativi. Ma l’organizzazione è proprio il prezzo intrinseco che i paesi aderenti dovrebbero subire, vale a dire la cessione di parte della propria sovranità politico-decisionale in un ambito in cui storicamente si è faticato a trovare compromessi e ragionevolezza. Chi dirà ai sovranisti nostrani (ma lo stesso varrebbe per un polacco o un ungherese) che “i nostri ragazzi” non sono più esclusivamente nostri, ma che fanno parte di un organismo più grande in cui le decisioni vengono prese lontane da Roma? Se ci basiamo sui precedenti non è che il cielo sia proprio roseo.

Trentacinque anni fa festeggiavamo l’abbattimento del muro di Berlino che ratificava il superamento del mondo diviso in blocchi. Quindici anni dopo, con l’allargamento all’Est, l’Unione Europea intraprendeva una scommessa di integrazione che avrebbe dovuto portarla a svolgere un ruolo da protagonista nei nuovi equilibri mondiali, oltre a garantirne una pace interna. Cosa è rimasto di questo disegno?

Navigando sulla pagina istituzionale dedicata all’allargamento dell’Unione Europea ci si imbatte subito in una lista di “vantaggi” di cui i nuovi paesi membri e l’Unione stessa possono beneficiare da ulteriori allargamenti. Quelli che spiccano maggiormente per gli aderenti sono “maggiore stabilità politica”, “maggiori finanziamenti” e “standard più elevati”; per l’Unione, invece, abbiamo “una voce più forte sul panorama mondiale”, “promozione della democrazia” e “investimento per pace e sicurezza”. Ora, consideriamo un semplice numero: l’Indice di Democrazia redatto dalla rivista The Economist ogni anno dal 2006. Tutti i paesi dell’Europa Orientale entrati nell’UE a partire dal 2004 ottengono punteggi sopra la media ma sono classificati come “Democrazie Imperfette (Flawed Democracies)”. L’Europa Occidentale è invece il fulcro delle così dette “Democrazie Complete” (secondo voi, dove si colloca l’Italia?). La cosa interessante è che mentre i paesi fondatori dell’UE hanno punteggi molto stabili (anno più anno meno, chiaramente), ci sono paesi dell’Est Europa che dopo l’adesione all’UE hanno perso svariati punti: tra il 2006 e il 2023 la Croazia cala del 7,67%, la Bulgaria perde il 9,86%, la Romania perde l’8,64%, mentre la Polonia perde l’1,64% con picchi di -9,31% sotto la presidenza Duda (2015-2019). D’altro canto, i paesi dell’Europa Orientale sono quelli che dopo l’adesione hanno sperimentato una crescita economica decisamente più forte dei membri storici[3]. Queste informazioni sono piuttosto allarmanti viste le dichiarazioni presenti sul sito dell’Unione: come è possibile che i nuovi paesi aderenti abbiano addirittura ridotto il proprio grado di democraticità a fronte di un miglioramento economico forte e di una integrazione in un sistema considerato “stabile”? Aggiungiamo un ulteriore elemento di complessità: i paesi dell’Est hanno acquisito nel tempo un peso sempre maggiore nei processi decisionali comunitari e hanno assunto cariche istituzionali di grande peso (l’attuale presidenza del consiglio a guida ungherese e il commissario lituano per la difesa e lo spazio ne sono una prova evidente). È chiaro che ad una maggiore integrazione sia corrisposto un notevole cambiamento nei rapporti di forza tra paesi europei occidentali e orientali: i paesi che dopo la caduta dell’Unione Sovietica sono stati avvicinati e accolti tra le file europee sono stati messi in condizione di crescere molto velocemente e al contempo hanno formato gruppi politici e di influenza con interessi comuni e valori non sempre allineati con quelli dei membri storici[4], portando inevitabilmente ad un peggioramento della stabilità europea e minando l’immagine di una UE compatta e credibile nel panorama internazionale. Una domanda che sorge spontanea è: qual è il reale spirito che ha mosso ed accelerato l’integrazione ad Est dei paesi europei? Si trattava davvero di un allargamento “integrativo” socio-economico e culturale e di reciproco scambio, oppure si è trattato di un allargamento “allontanativo” dal nemico storico (Mosca) fatto il più in fretta possibile per chiudere un capitolo di Storia non gradito? Probabilmente la verità sta nel mezzo, anche se i recenti sviluppi e il cambio di passo verso alcuni temi, tra cui la difesa e gli armamenti, fanno pensare che l’integrazione europea abbia funzionato alla grande sul piano economico, ma molto poco su quello valoriale.

Il Mediterraneo rappresenta un tema ricorrente per le questioni collegate all’ambiente, alle migrazioni e, purtroppo, ai conflitti. È credibile un contenimento della spesa militare in un mondo che si riarma e scarica sulle generazioni future la copertura dei costi, inclusi quelli collegati alle ricostruzioni postbelliche?

Quando parliamo di Mar Mediterraneo in termini geopolitici dal punto di vista euro-centrico dobbiamo necessariamente parlare di un fenomeno migratorio che è anche risposta alle decisioni prese dai governi e dalle istituzioni europee. Dovendo rappresentare il legame tra il “mercato della guerra”, le società e i processi migratori, un triangolo chiuso su tre lati potrebbe essere di grande aiuto. Ad un vertice troviamo aziende europee produttrici e venditrici di armi e quindi, per estensione, i paesi europei. Al secondo vertice troviamo un paese che è in conflitto o che lo sarà. Nel momento in cui un’azienda operante nel settore militare decide di vendere armi a governi o gruppi armati di un qualunque paese non europeo, anche apparentemente lontano, che ha o che potrà avere un ruolo in conflitti armati, sceglie una strada che comporta, potenzialmente, enormi guadagni per le imprese operanti nel settore, ma anche una grande responsabilità morale del governo europeo verso chiunque si ritrovi coinvolto, anche senza volerne far parte. Ecco, qui entra in gioco il terzo vertice, formato da tutte le persone travolte dal conflitto e da cui vorranno fuggire. Vista l’emergenza, è verosimile che durante la loro fuga, i migranti si vedranno costretti ad inserirsi in processi migratori non strutturati e fuori dai circuiti istituzionali di libero movimento al fine di raggiungere paesi più prossimi e non coinvolti dal conflitto ove poter trovare condizioni di vita migliori. Se consideriamo la geografia globale, Europa, Asia e Africa, seppur separate da fiumi o mari, formano un grande continente unito, mentre il continente americano resta isolato. Quindi, pare ovvio che i civili sfollati da un paese mediorientale o dal nord Africa tenteranno di trovare salvezza prima di tutto presso i paesi europei, giusto al di là del mare, mentre risulta un po' più complicato scappare negli USA senza un mezzo aereo (purtroppo le scene a dir poco disumane a cui abbiamo assistito durante l’evacuazione delle truppe americane dall’Afghanistan, ci ricordano bene che la disperazione può far salire un uomo su un velivolo in corsa pur di fuggire). Cosa succede se i migranti mettono troppa pressione sui confini europei? Quando il buon senso viene meno, e direi anche un po' di empatia umana, i governi “appaltano” il migrante alle guardie di confine che non rispondono a leggi europee (leggasi, le truppe al confine in Serbia e Montenegro oppure i centri di permanenza in Albania). Queste “soluzioni” sappiamo bene essere dei placebo per l’umore della cittadinanza, scossa e frustrata dalla situazione già complicata, magari strizzando l’occhio ad un pezzo di elettorato più arrabbiato di altri e che vuole veder “difesi” i confini nazionali. La spesa in armamenti è semplicemente un altro modo per calmare le acque e gli umori del popolo, sempre più impaurito e alla ricerca di protezione da un nemico non ancora ben identificato. Perché forse il problema sta proprio qui, dalla guerra al terrore dei primi anni 2000 ci si sta abituando sempre più a combattere nemici “fumosi”, non identificati, sempre minacciosi ma senza un volto, e alla fine ce la si prende con il primo che ti capita a tiro, tanto ormai le armi le hai e le usi.

L'autore

Alberto Silvani