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Mobilità al lavoro: verso la giusta transizione

Non è con pacche sulle spalle, buoni auspici o rassicurazioni di facciata che si ribalterà il declino della nostra filiera dell’auto, che in Italia vale cento miliardi di euro l’anno e si basa su un tessuto produttivo di 5.500 imprese e 270 mila occupati, inclusi fornitori e lavoratori indiretti. Lo sanno bene i sindacati dei metalmeccanici che il 12 aprile scorso, a Torino, hanno scioperato unitariamente per la prima volta dopo quindici anni – c’erano persino i quadri, i protagonisti nel 1980 della famosa “marcia dei quarantamila” nelle stesse strade – per tentare di fermare la dismissione dello stabilimento di Mirafiori, con tutto ciò che ne consegue in termini di ripercussioni negative anche sulle imprese e i lavoratori dell’indotto, a Torino e in tutto il Piemonte. A partire dagli anni Trenta del secolo scorso Mirafiori è sempre stato il cuore pulsante della nostra industria automobilistica; adesso i suoi tre milioni di metri quadri – è il più grande stabilimento italiano per estensione – sono occupati solo per metà come sito produttivo di Stellantis. Molti capannoni sono vuoti. La fabbrica rischia di diventare un sito di archeologia industriale della Torino che fu capitale industriale del Nord – dal biennio rosso di Gramsci al boom economico e oltre –, teatro della contestazione operai-studenti degli anni Sessanta e Settanta, dell’inurbamento di masse di operai dal Sud, dell’utilitaria pagata a rate come simbolo del benessere. Perché adesso, mentre gli operai invecchiano, l’azienda, che è ormai un gruppo con sede nei Paesi Bassi e proprietà internazionale con significative partecipazioni francesi, non li rimpiazza con personale giovane e, anzi, vara un piano esuberi con incentivi economici alle dimissioni: 3.600 unità non solo a Mirafiori, ma in tutti gli altri impianti del marchio.

Italia, adieu?

Lo Stato italiano ha dato alla vecchia Fiat e poi Fca oltre 220 miliardi di euro negli ultimi cinquant’anni, tra cassintegrazione, bonus e incentivi e sussidi vari. Ora però il gruppo migra verso altri lidi: Sudamerica, dove ha un piano di investimenti da 5,6 miliardi di euro e 40 nuovi modelli da produrre, ma anche Spagna, Nord Africa, Europa dell’Est. L’amministratore delegato di Stellantis, Carlo Tavares, a parole si dice pronto a tornare a produrre nel nostro Paese un milione di veicoli l’anno, quasi raddoppiando l’attuale volume di 751 mila nel 2023, ma in realtà sembra andare in tutt’altra direzione. E proprio da Torino ricatta il governo e i sindacati: se entrerà in Italia un altro produttore, soprattutto se cinese, allora sì, che ci saranno lacrime e sangue. Tavares ha fatto capire che non ci sarà addio all’Italia a patto che resti il monopolio e intanto arrivino dal governo più bonus per le rottamazioni. Intanto la 500 resta in Polonia e nessun nuovo modello viene annunciato in Italia quest’anno.

Cosa ha, l’Italia, che non va? Perché questo lento abbandono? Secondo l’Alleanza Clima Lavoro – tavolo permanente di confronto, elaborazione, proposta e iniziativa comune tra sindacati e ambientalisti costituitosi a marzo 2023 con l’obiettivo di favorire la transizione verso la mobilità sostenibile – la risposta a queste domande c’è e riguarda due grandi assenti: la politica industriale e quella climatica del nostro paese. Per dirla in breve, la prospettiva di una transizione verso una mobilità sostenibile rappresenta una prospettiva e un’opportunità unica, in linea con gli ambiziosi obiettivi climatici di decarbonizzazione e neutralità climatica dellEuropa, che va imboccata senza indugi e in modo coerente. L’Italia non lo sta facendo, si affida al mercato, all’obsoleto dogma del lassez-faire. Nel frattempo la filiera dell’auto cambia, il mercato si riposiziona a livello globale. E l’Italia resta in ritardo. Non soltanto la filiera dell’automotive, piuttosto tutto il Paese, che il governo pensa ancorato agli idrocarburi, con un futuro come hub europeo del gas.

Un esempio di arretratezza sistemica che pesa come un macigno sul settore auto. Tra una decina di anni, cioè dopo il 2035, data che per le industrie è dopodomani, in Europa non soltanto non si potranno più produrre veicoli leggeri e commerciali con motore endotermico ma, sempre in ottemperanza al Green Deal europeo, le case produttrici saranno chiamate a emettere meno CO2 nelle loro lavorazioni. Saranno dunque responsabilizzate anche dell’energia che impiegano. È in particolare l’articolo 7bis del regolamento comunitario 851/2023 a prescrivere questo monitoraggio dell’intero ciclo, rispondendo all’idea di un unico ecosistema della mobilità. Ciò significa che produrre in Italia, dove fino ad ora le rinnovabili non sono decollate e le fabbriche vanno ancora per lo più a derivati del petrolio, costerà di più che in Francia o in Germania. Stellantis non è insensibile al problema. A Torino Tavares è andato per inaugurare il reparto dell'eDct Assembly Plant per la produzione di cambi elettrificati ma anche per illustrare i successi aziendali sul fronte della sostenibilità ambientale: la riduzione, appunto, del 13% dell’impronta di CO2 negli ultimi due anni e l’utilizzo al 58% dell’elettricità proveniente da fonti rinnovabili.

Quanto al mercato, sulla carta quello interno dovrebbe essere molto appetibile. In un’Italia lunga e montuosa, fatta di paesini più che di grandi agglomerati urbani, siamo un popolo di possessori di auto: di auto vecchie, per essere precisi. Abbiamo un parco auto tra i più grandi d’Europa, con 40 milioni di vetture – 666 auto ogni mille abitanti, il 30% in più rispetto alla media di Francia, Germania e Spagna –, ma anche quello più vetusto dopo la Grecia, perché le auto italiane per il 23,2 per cento hanno oltre 19 anni d’età, sono modelli ante Euro 4, secondo l’ultimo studio dei venditori dell’Unrae. In base a questo studio circa un italiano su quattro vorrebbe acquistare un’auto nuova nell’anno in corso, ma uno su tre intende rivolgersi all’usato perché i modelli di auto elettrica in vendita sono troppo cari, e anche perché l’endotermico nuovo in commercio è per lo più di alta gamma. La “Pandina”, che ancora tiene in piedi lo stabilimento di Pomigliano, e continuerà a essere prodotta lì fino al 2030, ha ancora il motore a scoppio mentre quella elettrica verrà lanciata a metà di quest’anno dalla Serbia.

L’auto elettrica non sfonda essenzialmente perché gli italiani hanno salari che non crescono da trent’anni, come certifica l’Ocse, e perché al contrario di ciò che succede in Cina l’industria non immette nel nostro mercato modelli di classe B elettrici, le vecchie utilitarie, preferendo piuttosto puntare su Suv e modelli premium, gli stessi che finora si sono incanalati nell’export europeo. E così il market share dell’elettrico in Italia è al di sotto del 4%, e il parco auto full electric è circa l’1% del totale, con 220.000 unità. In Germania sono sei volte tanto. Il recente rinnovo del bonus governativo da solo non servirà, purtroppo, a compiere il miracolo di invertire questa tendenza. Sarà come nella favola della volpe e dell’uva, comunque gli italiani si scoprono consumatori piuttosto scettici sulla necessità di una transizione verso la mobilità elettrica per abbattere l’inquinamento da gas climalteranti e da polveri sottili.

Intervenendo su questo tema, l’Alleanza Clima Lavoro ha pubblicato una rassegna, curata dagli esperti di Motus-E, di trenta domande e altrettante risposte sull’auto e la mobilità elettrica, per smentire i troppi falsi miti e le fake news più frequenti che circolano, e per disinquinare il dibattito pubblico riportandolo su un sentiero di verità e attendibilità scientifica. Del resto il mercato dell’auto ha già scelto di puntare sull’elettrico e lo ha fatto da tempo, motivo per cui non farà inversioni di marcia cambiando tecnologie e investimenti. Basti pensare che il cumulato a livello mondiale degli investimenti su veicoli elettrici e batterie da parte delle maggiori case automobilistiche e imprese dell’automotive ha superato i 1.200 miliardi di dollari. A guidare la transizione all’elettrico è la Cina, dove a partire dagli anni Ottanta, in un Paese ancora di biciclette e risaie, si è puntato tutto su uno sviluppo industriale che riducesse le importazioni di petrolio e di tecnologie digitali, fino a diventarne leader.

Cambiare direzione

Detto ciò, è bene chiarire un aspetto. La sostituzione dei veicoli inquinanti a motore endotermico con quelli elettrici è condizione di certo necessaria, ma non sufficiente per affrontare il problema di una giusta transizione, ambientale e sociale, verso la mobilità sostenibile e la neutralità climatica. Il passaggio all’elettrico deve cioè avvenire all’interno di un più ampio cambio di contesto e paradigma: da un’idea di mobilità centrata sul possesso e sull’utilizzo individuale del mezzo privato a una nuova idea di mobilità non solo elettrica, ma pubblica, integrata e condivisa. Anche qui, lasciar fare al mercato non basta, servono interventi sostanziosi innanzitutto per potenziare il trasporto pubblico, a partire dalla constatazione che non c’è mobilità sostenibile né diritto alla mobilità senza un trasporto pubblico di massa efficace e non inquinante. Oggi, invece, il trasporto pubblico locale subisce il peso di un cronico sotto-finanziamento del Fondo nazionale trasporti e una drammatica disomogeneità nell’erogazione e nella distribuzione dei servizi e delle reti. Dal punto di vista dell’offerta di trasporto pubblico locale, oggi abbiamo 6.000 posti-km per abitante al Nord e meno di 2.000 al Sud. Con la pandemia, poi, l’offerta è crollata in media del 22%. Questo ci porta peraltro a considerare un ulteriore tema, quello della cosiddetta mobility poverty. In Francia si stima ad esempio che 3 milioni e mezzo di persone a basso reddito sono costrette a limitare la spesa per il carburante e gli spostamenti quotidiani, e oltre 4 milioni di persone non hanno l’auto o la moto. In Italia Legambiente ha elaborato un indice di precarietà della mobilità secondo cui quasi una persona su tre ha dovuto rinunciare ad almeno un’occasione di studio, lavoro, svago o visita medica per cause legate alla difficoltà negli spostamenti, come appunto il caro carburante, l’inadeguatezza del proprio mezzo di locomozione, la mancanza di alternative di trasporto pubblico.

Il cambiamento possibile

Di fronte alla sfida di una giusta transizione ambientale e sociale, come si sottolinea nel Manifesto programmatico dell’Alleanza Clima Lavoro, è necessario che l’attore pubblico assuma un ruolo da protagonista. Ad esempio, è indispensabile un impianto di politica fiscale di segno fortemente progressivo e redistributivo, anche all’insegna del principio del “chi inquina paga”. E poi si deve tornare a fare politica industriale nel nostro paese: per attrarre investimenti, per affiancare a Stellantis almeno un altro produttore, per sostenere le imprese nella loro riconversione e nel loro riposizionamento sui nuovi mercati e sulle nuove produzioni verdi per la mobilità elettrica, a cominciare da quelle della nostra componentistica. È necessario tornare a fare politica industriale anche per recuperare produzioni per noi storicamente preziose, come i treni e gli autobus, invece di importarli dall’estero come avviene oggi. Ad esempio, la produzione di autobus elettrici potrebbe favorire la decarbonizzazione delle flotte del trasporto pubblico locale e dare linfa a una filiera che è passata dal produrre 4 mila mezzi nel 1998 ad appena 150 nel 2019.

Parallelamente, riguardo alle politiche per l’occupazione, con la transizione alcuni posti di lavoro spariranno, altri si trasformeranno, altri ancora se ne creeranno e se ne potranno creare; e questo vale anche e soprattutto per i trasporti e l’automotive. Occorre una riforma complessiva del sistema degli ammortizzatori sociali, insieme a misure specifiche per la transizione che assicurino il passaggio a nuove professionalità, realizzando e finanziando in modo adeguato programmi di formazione e di riqualificazione. Infine è prioritaria una riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario per creare nuovi posti di lavoro, per aumentare la produttività del lavoro e – cosa non secondaria – per liberare tempo e spazi di benessere ai lavoratori. Proprio su questi temi, l’Alleanza Clima Lavoro ha di recente pubblicato un dossier a cura di un gruppo di ricercatori dell’Università di Pisa coordinato da Simone D’Alessandro, che si propone di fornire un quadro delle possibili traiettorie di sviluppo produttivo, tecnologico e occupazionale nel nostro Paese sul fronte della mobilità e dei trasporti. La premessa è che la transizione verso la mobilità sostenibile è una tappa essenziale per conseguire il traguardo della neutralità climatica al 2050 fissato dal Green Deal. Ed è al contempo una grande chance per trasformare il sistema produttivo italiano coniugando obiettivi di decarbonizzazione, riduzione delle emissioni inquinanti e tutela e promozione del lavoro e del benessere. In particolare, sulla base della raccolta e sistematizzazione di un set di proposte provenienti dalle organizzazioni aderenti all’Alleanza Clima Lavoro, il report delinea un Piano per il lavoro verde e la mobilità sostenibile (PLVMS) per l’Italia. Nello studio si prevede che la realizzazione del Piano, con un costo di 13,5 miliardi di euro l’anno, sia finanziata dalla conversione dei Sussidi Ambientalmente Dannosi (SAD) che lo Stato destina al comparto dei trasporti in Sussidi Ambientalmente Favorevoli (SAF). Attraverso un ingente investimento sulle direttrici chiave del miglioramento del trasporto pubblico, dell’infrastrutturazione elettrica e del sistema di incentivi per la mobilità elettrica destinati a famiglie e imprese – con interventi proposti quali il leasing sociale per l’auto elettrica sul modello della sperimentazione francese e il rinnovo delle flotte commerciali e aziendali –, il PLVMS ha l’obiettivo, da un lato, di dare un forte slancio alla nuova mobilità sostenibile e all’abbattimento delle emissioni inquinanti, e dall’altro di stimolare lo sviluppo sostenibile del Paese. Per stimare e valutare, attraverso l’elaborazione di analisi di scenario, l’impatto del PLVMS su una serie di indicatori chiave di natura economica, ambientale e sociale (Pil, occupazione, disuguaglianze salariali e di reddito, emissioni inquinanti, consumi energetici, eccetera), nel report viene utilizzato il modello di macro-simulazione EUROGREEN, che viene applicato anche per analizzare nello specifico il trend del settore automotive italiano. Tra i principali risultati, rispetto a uno scenario “baseline” di mancato intervento pubblico che porterebbe a maggiore disoccupazione e disuguaglianze, oltre che a una riduzione delle emissioni del tutto insufficiente – l’adozione del Piano per il lavoro verde e la mobilità sostenibile potrebbe assicurare la creazione di 700 mila posti di lavoro a lungo termine, oltre a un forte abbattimento delle emissioni di gas a effetto serra, che al 2050 diminuirebbero del 70% rispetto al 2021. Tutto ciò a dimostrazione che, con una visione chiara e con risorse e strumenti adeguati, la transizione auspicata può avvenire in modo equo ed efficace. Servono per questo politiche industriali, sociali e occupazionali che assicurino la decarbonizzazione e lo sviluppo sostenibile del paese, offrendo al contempo una risposta concreta a uno dei principi cardine del Green Deal europeo: quello di non lasciare indietro nessuno. Di fronte al rischio sempre più concreto di un collasso ambientale e sociale, l’unica alternativa praticabile è quella di rendere la giusta transizione l’architrave e il faro dell’azione e del conflitto politico e sociale, costruendo intorno a questa prospettiva una piattaforma programmatica e un blocco di forze progressiste capace di affermarsi in Italia e, a poche settimane dall’appuntamento con le elezioni europee di giugno 2024, anche in Europa.

L'autore

Rachele Gonnelli

L'autore

Duccio Zola