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Il mondo non ha mai lasciato la strada della guerra

Sin dai primi giorni seguenti allo scoppio della invasione russa in Ucraina, in Europa sono tornate in maniera prepotente alcune parole chiave che sembravano scomparse da tempo nel vocabolario quotidiano, o che quanto meno facevano capolino giusto il tempo di una “sparata” politica per poi tornare nel dimenticatoio. “Arsenale atomico”[1], “Guerra su larga scala”[2], “Escalation militare”[3] sono solo alcuni esempi di termini usati da media, analisti e politici per descrivere l’attuale clima di tensione mondiale. E se “ogni scenario è possibile”[4], l’unico scenario davvero auspicabile, la Pace, sembra un miraggio sempre più lontano. Insomma, sembra quasi un percorso già tracciato e inevitabile. Ma è un caso sfortunato che si è arrivati qui? Oppure la strada verso il conflitto è stata tracciata da tempo?

Nel corso del 2023 e della prima metà del 2024, Greenpeace, Associazione Lunaria e Sbilanciamoci! hanno investito risorse, idee, energie (e passione!) per provare a dare una chiave di lettura storica e scientifica all’attuale situazione internazionale per comprendere quali sono i fenomeni economici e sociali sottostanti. Perché fare qualcosa di questo tipo? Per quanto possa sembra banale, nel dibattito pubblico corrente vi è la chiara tendenza ad ascoltare il proprio “sentimento”. Soprattutto quando esso è mosso da chiare finalità politiche per cui bisogna mostrare i muscoli agli elettori più o meno pronti ad un conflitto aperto rincorrendo la prossima rielezione[5] oppure si debba giustificare ad ogni costo una “guerra giusta”[6]. Seppure seguire il sentimento sia “umano”, sarebbe auspicabile per la società un dibattito coerente in cui oggettività e autocritica facciano da guida alla discussione. Allora, da un lato, essere “oggettivi” significa guardare la realtà per ciò che è, analizzando dati e informazioni e sviluppando ragionamenti guidati dal pensiero informato e non “dalla pancia”; dall’altro, essere “autocritici” significa guardare prima di tutto in casa propria e poi in quella altrui (nel nostro caso, la “casa” è l’Europa ma anche l’Italia); infine, essere “coerenti” significa prendere atto delle oggettività e dalle criticità emerse (… quanto meno di una parte di esse) e dotarsi di strumenti per perseguire un percorso migliore per la propria società.

Il risultato dello sforzo profuso dalle tre realtà citate prima è il rapporto “Economia a mano armata 2024 - Spesa militare e industria delle armi in Europa e in Italia”[7], nel quale sono riportati diversi contributi di attivisti, accademici ed esperti di geopolitica sul tema del processo di riarmamento mondiale ed Europeo degli ultimi decenni. Sintetizzarne in maniera esaustiva il contenuto non è affatto un compito semplice, ma proverò a fare del mio meglio per rendere giustizia ai grandi sforzi fatti dagli autori[8].

Già dalla prefazione di Carlo Rovelli[9] si intuiscono alcuni dei temi da sollevare per parlare in maniera intellettualmente onesta del rapporto tra armi, guerra ed economia in Europa: il retaggio storico del colonialismo che ha condotto ad una “supremazia economica” del blocco occidentale sul resto del mondo; la “prosperità che si diffonde” nel mondo cambiando l’assetto geopolitico mondiale; il lobbysmo dei fabbricanti di armi e gli interessi economici enormi che guidano da tempo il pensiero politico; l’Italia in “prima linea” al seguito di un pezzo di Europa “allineata ai più bellicosi”; ma anche “il carattere culturale e politico italiano che avversa la guerra” e che “desidera un mondo più pacifico”, ma orfana di un riferimento politico da sostenere”. Chiaramente, questi concetti non bastano a completare il puzzle contorto della geopolitica europea e a mano a mano che nuovi aspetti emergono, la faccenda si fa sempre più complessa.

Restando sul processo storico che ci ha condotti fino a qui, i saggi di Marcon e di Strezzari ci guidano, quasi tenendoci per mano, dalla fine della Guerra Fredda ad oggi mostrando chiaramente come il pensiero politico e la comunicazione di massa abbiano subito mutamenti irreversibili.  Nuovi fenomeni socio-politici-economici sono emersi: il dilagare del “nazionalismo aggressivo”, anche in contesti inaspettati come le democrazie; la “demolizione del ruolo degli organismi internazionali” e il “marcato unipolarismo NATO”; l’utilizzo sempre più consolidato di corpi (para)militari privati; l’apparente “natura interna” di alcuni conflitti nati dal disfacimento di stati sovranazionali; la “geopolitica degli interessi di potenza” e la diffusione di una economia di guerra in grado di costituire il motore dell’intera economia nei suoi intrecci con la criminalità. Il risultato di questi mutamenti? In Europa pressoché ogni giorno assistiamo a leader politici che “invitano i cittadini a prepararsi mentalmente alla guerra” o che già si proiettano verso “un mondo pre-guerra”. Quindi non ci si può sorprendere se per esorcizzare la paura della guerra la politica risponda “votando indiscriminatamente” per ulteriori aumenti della spesa militare, anche con il supporto di schieramenti inaspettati come liberali o verdi. A conti fatti, la Guerra nel mondo non si è mai fermata, nonostante essa “non sia così efficace nel raggiungere gli obiettivi che si prefigge e non porta di per sé maggiore stabilità”. La Guerra ha cambiato volto e anche lo stile comunicativo si è fatto più morbido: una guerra non è più solo una guerra, ora è una “guerra umanitaria” oppure una “operazione speciale”, quasi fosse un semplice strumento tecnico in mano alla politica internazionale dei paesi. Ma anche dandole un’accezione più accettabile, la guerra resta “il trionfo dell’ingiustizia, della sofferenza umana, della violazione dei diritti umani”. E se la guerra ha cambiato registro, anche il pacifismo ha cambiato i propri strumenti: dalla “diplomazia popolare” della Comunità di Sant’Egidio, ai “Corpi civili di pace” fino alle “interposizioni non violente nei conflitti armati” delle Nazioni Unite. Adattare e migliorare gli strumenti politici è sicuramente un aspetto positivo, ma dopotutto “non bisogna aspettare che scoppi la guerra per intervenire”, perché “se vuoi la pace prepara la pace”.

La narrativa storico-politica ci restituisce un quadro allarmante e con prospettive molto incerte, oserei dire oscure. Tuttavia, la sola politica non è sufficiente a dare una visione completa ed è quindi necessario introdurre il secondo pilastro della discussione: l’economia della Guerra e gli attori coinvolti nel processo di armamento. Il rapporto “Economia a mano armata 2024” approfondisce l’intreccio tra pensiero economico, istituzioni e industria in maniera approfondita e scientificamente solida nei saggi centrali. Partiamo con una veloce fotografia della situazione corrente. Nel 2022, la spesa militare mondiale ha raggiunto un picco mai visto prima: oltre 2200 miliardi di dollari, con un aumento su base annua del 3.70%[10]. Tutte le maggiori potenze economico-militari del mondo hanno contribuito a questo aumento (NATO e Cina in testa) e l’Europa non è di certo rimasta a guardare: dal 2014 al 2023 l’aumento reale della spesa militare totale è stato del +48.2%, passando da 145 miliardi di euro nel 2014 a 215 miliardi di euro nel 2023 (per intenderci, il PIL reale del Portogallo nel 2022 è stato di 208 miliardi di euro… e quindi è come se in Europa, ogni anno, “creassimo” un Portogallo di spesa militare) mentre nel 2023 la spesa per gli armamenti nei Paesi UE della NATO ha raggiunto la cifra record di 64.6 miliardi di euro, cioè +168% in dieci anni. Ovviamente non tutti i paesi europei hanno lo stesso peso: infatti, circa 2/3 della spesa militare europea è ripartito tra Francia, Germania, Spagna e Italia[11]. Inoltre, i paesi europei hanno anche facilitato l’accesso ai fondi strutturali europei e hanno reso il settore bellico più attraente per giovani professionisti e laureati tramite appositi programmi di formazione.

E dove vanno a finire tutti questi investimenti? Come riportano Vignarca e Alioti, i benefici per le industrie belliche[12] europee sono inequivocabili: le 15 principali aziende europee produttrici di armi hanno visto aumentare le loro vendite dell’1,5% (per un totale di 95.8 miliardi di euro) e i loro profitti dell’11,2% nel 2022. L’industria bellica è però solo uno dei pezzi di economia che ha tratto in passato e trae ora beneficio dalle crisi internazionali. Sofia Basso[13] parte dalla recente crisi nel Mar Rosso, che ha visto come protagonista la marina italiana, per mostrare il legame profondo tra spesa militare e protezione della sicurezza energetica del paese (soprattutto se da fonte fossile), anche tutelando direttamente interessi di compagnie private in territorio internazionale. Infine, nel saggio di Coveri e Guarascio[14], si gettano le basi per una discussione sul ruolo che la digitalizzazione e le nuove piattaforme Big tech (es. X/Twitter o Google) giovano nei conflitti. In particolare, la ricerca e deve ancora esplorare la relazione di mutua dipendenza che lega le strategie di crescita di queste società e gli interessi dello Stato in materia di apparati militari, di sicurezza e di intelligence (non solo dipendenza di conoscenza, ma anche di infrastrutture e tecnologia).

Un facile e grave errore che si potrebbe commettere ad una analisi superficiale è pensare che gli aumenti registrati negli ultimi due o tre anni siano la risposta all’aumento della tensione militare globale. Al contrario, ciò che i dati fanno emergere è che la guerra in Ucraina o la guerra in Palestina non sono generatori ma acceleratori di un processo storico di riarmamento che è già attivo da tempo (come visto in precedenza, le radici vanno trovate alla fine della Guerra Fredda) ed è guidato da interessi essenzialmente economici. Sia i dati analizzati nello studio di Bonaiuti & al., che nel saggio di Raul Caruso emerge chiaramente che gli stati europei “avevano posto le basi per dare avvio a un percorso di rafforzamento da concretarsi sotto forma di una maggiore integrazione dei sistemi di difesa”[15] su spinta atlantista.

Alla luce di tutto questo, una semplice domanda dovrebbe nascere spontanea: in una “Europa in cui in vengono rivendicati l’umanesimo e l’illuminismo come principi centrali”, in che modo l’aumento delle spese militari risponde alle sfide che l’umanità deve affrontare oggi? Seguendo delle basilari regole di educazione finanziaria, se investi denaro da una parte, devi (molto probabilmente) ridurre le spese da un’altra parte[16]. E allora, per quale ragione le grandi potenze del mondo hanno deciso che “i fondi che potrebbero essere utilizzati per mitigare o invertire il dissesto climatico e per promuovere la trasformazione pacifica dei conflitti, il disarmo e le iniziative di giustizia globale, vengono invece spesi per militarizzare un mondo già troppo militarizzato”[17]. Nel caso europeo, Caruso evidenzia tre potenziali tesi: 1) il riarmo corrente aumenterà la sicurezza dei paesi e contribuirà in maniera decisiva sulle sorti della guerra in corso tra Russia e Ucraina; 2) eserciti e arsenali più grandi garantiscano più sicurezza (‘più è meglio’); 3) il riarmo in corso è basato sul rafforzamento dei sistemi di difesa nazionali già esistenti, senza cambiare l’assetto generale della difesa. A prescindere da quale tesi sia la più “sensata”, ciò che pare chiaro è che la spesa militare fatta “oggi per oggi”[18] non è giustificabile. A rafforzare questa posizione critica verso gli investimenti in armamenti vi sono i risultati portati da Bonaiuti & al. che evidenziano il “cattivo affare” generato dalla nuova corsa alla militarizzazione in Europa. L’affare è cattivo sotto vari punti di vista: in termini di acquisizione di maggior sicurezza e credibilità internazionale, “un’Europa più militarizzata difficilmente potrà risolvere gli attuali (e futuri) conflitti con il rischio opposto di una ulteriore destabilizzazione dell’ordine internazionale”; sul piano economico, “l’Europa militarizzata si sta avviando verso una traiettoria di minore crescita economica, minore creazione di posti di lavoro e peggiore qualità dello sviluppo”. Al contrario, un solido impegno europeo verso investimenti in protezione dell’ambiente, istruzione e salute genererebbe effetti migliori sulla crescita e sull’occupazione e porterebbero grandi benefici alla qualità della vita e dell’ambiente.

Nei giorni in cui questo articolo è stato scritto le elezioni europee sono in corso (o terminate da poco) e il risultato è ancora indefinito. Ciò che invece è ben definito è che in questo momento storico i paesi europei e i suoi cittadini sono chiamati a scegliere in merito a una scelta politica molto ampia che contrappone da un lato una visione della società e della economia più militarizzata e il perseguimento della sostenibilità e del benessere sociale dall’altro. Una volta intrapresa una strada non è detto si possa tornare indietro senza sacrifici.


[8] Tra l’altro, tra gli autori ci sono anche io, quindi proverò ad essere oggettivo e autocritico anche (e soprattutto) nei miei confronti

[9] Uscita anche su Il Corriere della Sera del 1 maggio 2024

[10] Si vedano “Spese militari e industria delle armi: un intreccio problematico” di Francesco Vignarca e “L’Europa delle armi. La spesa militare e i suoi effetti economici in Germania, Italia e Spagna. Rapporto di Greenpeace” di Chiara Bonaiuti, Paolo Maranzano, Mario Pianta e Marco Stamegna.

[11] Si veda il saggio di Vignarca per un approfondimento (basato sui dati dalla Legge di Bilancio 2024) sulla spesa militare italiana nel 2023 e 2024, mentre si veda Bonaiuti & al per un confronto tra le spese militare di Germania, Spagna, Italia ed Europa in generale.

[12] Il tema delle industrie belliche è molto articolato e meriterebbe un approfondimento di spessore che per ragioni di sintesi non possiamo dare qui. Gianni Alioti sintetizza in maniera chiara ed esaustiva il quadro attuale e passato del sistema industriale militare a livello europeo (‘L’industria militare in Europa’) e italiano (‘L’industria militare in Italia’), evidenziando i principali trend e mettendo “sotto la lenta di ingrandimento” i principali leader di mercato nazionali e internazionali. Il saggio “L’esportazione italiana di armamenti nel contesto europeo e internazionale” di Giorgio Beretta, invece, approfondisce il ruolo dell’Italia nel commercio internazionale dei sistemi di armamento ed esamina i trend esportativi e le principali aree di destinazione evidenziando le più rilevanti quote di operazioni autorizzate verso i Paesi che non fanno parte delle principali alleanze italiane e verso le aree di maggior tensione geopolitica nel mondo. Infine, Guglielmo Ragozzino in “Il Tempest che sta arrivando” e Marinella Correggia in “Dalle mine Valsella alle bombe Rwm. Passato e futuro della riconversione dal militare al civile” ci illustrano due casi studio legati alla industria bellica italiana. Ragozzino racconta di come Italia, Regno Unito e Giappone abbiano unito le forze in un progetto volto a sviluppare una nuova classe di aerei da combattimento e di come questo progetto possa cambiare gli equilibri della industria aeronavale militare in Occidente. Correggia, invece, racconta del tentativo dal basso di riconvertire una azienda militare (la Rwm in Sardegna) e le difficoltà incontrate dal comitato per definire insieme ai lavoratori e i sindacati interni il piano di riconversione warfree.

[13] Si veda “L’energia militarizzata: quando le forze armate proteggono gas e petrolio” di Sofia Basso.

[14] Si veda “Piattaforme digitali e commesse militari negli Stati Uniti” di Andrea Coveri e Dario Guarascio

[15] In particolare, a seguito del vertice NATO del settembre 2014 fu approvata la cosiddetta ‘regola NATO’ del 2% del PIL da destinare alla difesa, oltre che fu deciso di allocare una proporzione costante (20%) del budget all’acquisizione di nuovo equipaggiamento e dispositivi d’arma.

[16] Diamo per buona l’ipotesi di risorse pubbliche limitate e che “la coperta è sicuramente corta”.

[17] Nel saggio di Vignarca si sottolinea che la spesa militare influisce pesantemente sulle emissioni di gas serra (le emissioni militari sono stimate al 5,5% dei gas serra globali) e che vari studi confermano la tesi secondo cui la spesa militare e il commercio di armi influenzino il coinvolgimento attivo degli Stati nei conflitti armati.

[18] La spesa militare decisa in un certo momento non può modificare le sorti di una guerra in corso dal momento che gli equipaggiamenti e dispositivi d’arma che saranno disponibili solamente in futuro.

L'autore

Paolo Maranzano

Rricercatore in Statistica Economica presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca