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04 marzo 2022

Il lavoro libero e autonomo degli scienziati come strumento di pace

Non serve scomodare il Progetto Manhattan che, precedendo ed affiancando lo scatenarsi della Seconda Guerra Mondiale, arrivò a coordinare 130.000 persone (certamente non tutti scienziati) nel progettare e realizzare la svolta bellica nucleare, per ricordarsi quanta scienza e tecnologia ci sia dietro il dispiegarsi della “forza militare”. E, di conseguenza, quanto l’arma rappresentata dalla capacità scientifica possa rappresentare uno strumento e al tempo stesso un deterrente.

Gli sforzi che gli scienziati, di qualsiasi colore, disciplina e appartenenza religiosa, nazionalità  o fede politica, hanno messo in campo nei decenni successivi hanno però posizionato la scienza e la ricerca come un grande strumento di pace, di progresso e di apertura. E’ ben nota la presenza e la collaborazione, ad esempio, di ricercatori palestinesi e israeliani nelle attività del CERN, senza che nessuno abbia chiesto ai singoli pronunciamenti o prese di distanza.

Tra le novità, in negativo, che l’invasione russa dell’Ucraina sembra aver introdotto vi è però il rischio del venir meno di questo principio. Da una parte, infatti, i vari appelli, che tradizionalmente incrociano appartenenze e storie personali, tendono a ribadire il principio “pacifista” di non asservimento della scienza agli interessi di parte e ad un uso distorto che usa la guerra per la soluzione dei problemi, proprio quando ci si dovrebbe confrontare con le drammatiche conseguenze delle crisi sanitarie, ambientali ed economiche. Ma, dall’altra, probabilmente anche a causa dell’emotività del momento e a una diffusa sensazione di impotenza che prevale in un’opinione pubblica colpita dalla sproporzione tra “capacità” militare e difficoltà di reazione, sembrano manifestarsi posizioni anomale, meritevoli di commenti.

Leggi la lettera aperta degli scienziati russi

Era stata da poco archiviata la vicenda esplosa all’Università di Milano Bicocca riguardante il caso della sospensione per “par condicio” (poi revocata) di una lezione su Dostoevskij che un commento di Massimo Sideri, responsabile per il quotidiano milanese delle pagine sulla ricerca e l’innovazione, ha riproposto un uso “sanzionatorio” della scienza nei confronti degli invasori russi. Semplificando la posizione dell’editorialista, poiché la scienza ha un costo, si può ipotizzare che accanto alle sanzioni finanziarie volte a tagliare le gambe all’economia russa, ci siano anche sanzioni scientifiche che, attraverso l’isolamento, indeboliscano le potenzialità  del sistema e inducano a più miti consigli chi oggi invade e prevarica.

Se il fine è nobile, confermato dal richiamo finale alla diplomazia scientifica, appare singolare lo strumento scelto.

Trent'anni fa, a fronte della dissoluzione del blocco sovietico, uno specifico programma europeo (il programma COST) si era posto l’obiettivo di evitare un indebolimento (svuotamento) delle competenze degli scienziati ivi operanti, attratti dalle sirene economiche e di carriera del blocco occidentale, garantendo loro collaborazioni e risorse pur di continuare a mantenere una capacità di ricerca, e di formazione, nei, e dei, contesti in cui operavano. L’appello sottoscritto dagli scienziati russi e citato ieri sulla Stampa da Elena Cattaneo, con già quattromila firme, non sarebbe stato possibile se si fosse alimentata una logica da tifoserie, anziché favorire la dialettica scientifica che presuppone confronti e anche scontri, ma riconosce all’interlocutore, salvo smentita, la buonafede e uno sforzo condiviso per l’avanzamento delle  conoscenze.

Senza peraltro dimenticare che nel loro insieme le sanzioni economiche di per sé finiranno per colpire la scienza, come anni di ristrettezze di bilancio ci hanno tristemente insegnato anche in Italia. L’autonomia scientifica è un valore che, non a caso, è garantito dalla nostra Costituzione. L’articolo cita come esempio a cui ispirarsi il venir meno, deciso dai russi, della collaborazione sui satelliti di Galileo. A mio giudizio questa, che è una evidente decisione “politica”, non dipende dalla volontà delle scienziati e tecnologi coinvolti a cui si può certamente replicare usando la stessa moneta. Ma non confondiamo le carte in tavola per sostenere la positività di usare l’arma del ricatto come forma di convincimento. Infatti il risultato più che probabile sarebbe quello di rafforzare dipendenze ed avvicinamenti tra le comunità scientifiche russe e il potere politico ed economico da cui dipenderebbero sempre di più.

Favorire gli scambi, promuovere l’appartenenza, garantire l’autonomia e l’azione sono elementi costitutivi dello “spazio comune di ricerca” che è parte dei trattati dell’Unione Europea. E tale spazio è naturalmente destinato all’apertura a terzi e a negare frontiere e delimitazioni. Chi avrebbe detto solo qualche settimana fa che saremmo stati catapultati in questi ragionamenti?

L'autore

Alberto Silvani