La riflessione su scienza e guerra che Alberto Silvani ha consegnato ai lettori della nostra rivista merita altri tentativi di approfondimento, nella convinzione di poter alimentare un dibattito pubblico su questo tema decisivo, che ha tante implicazioni. Rilevo innanzitutto che nel cuore della comunità scientifica si è fatto sentire con forza il peso del conflitto bellico, con un atteggiamento che il grande filosofo della politica Carl Schmitt aveva definito secondo la logica binaria di “amico-nemico”. Di fatto, anche nella comunità scientifica internazionale tornano impetuosi i fantasmi della guerra fredda, con l’effetto di far tacere ricercatori, scienziati e filosofi che da almeno tre secoli ci illuminano sul senso della scienza per l’umanità, anche per effetto dei disastri del Novecento. L’interrogativo che ci si pone dinanzi è dunque il seguente: se anche la comunità scientifica segue il dispositivo “amico-nemico”, in virtù di una sorta di economicizzazione della scienza (come giustamente lamenta Alberto Silvani nel suo articolo in cui contesta le posizioni di Massimo Sideri) e di una sua “militarizzazione”, che ne sarà del suo significato per l’intera umanità, proprio mentre essa affronta la più grande questione epocale della sua sopravvivenza sul pianeta?
Non solo. L’umanità sta attraversando da due anni una mortale crisi pandemica planetaria, determinata dal virus Sars-covid-19 e dalle sue varianti, e in questo caso la comunità scientifica ha lavorato su vaccini e farmaci con una velocità, una costanza e un dialogo tra centri di ricerca che ha poche analogie nella nostra storia. Di colpo ce ne siamo dimenticati? Sappiamo ora che la guerra in Ucraina ha fermato questa solidarietà internazionale nella comunità scientifica, con effetti nefasti che possiamo solo prevedere. Già durante la pandemia l’autorità e il senso della scienza, come metodo di soluzione dei problemi dell’umanità, erano stati messi gravemente in dubbio dai sostenitori dei megacomplotti e affini. Oggi la guerra interna alla comunità scientifica potrebbe assestare un ennesimo colpo mortale alla credibilità della scienza.
Della guerra nella comunità scientifica, e i suoi effetti gravi sul futuro, scrive la rivista “Nature” in un articolo assai preoccupato del 14 marzo. Dopo l’invasione dell’Ucraina molte organizzazioni della ricerca scientifica hanno tagliato fondi, risorse e legami di collaborazione con la Russia. In Italia, una recente ordinanza del Ministero dell’Università e della Ricerca si piega a questa disposizione di “carattere internazionale”, afferma. Così come ha fatto il CNR. Tuttavia, nel mondo della scienza è apertissimo il dibattito sul boicottaggio nei confronti degli scienziati russi e ci si chiede se sia o meno utile alla causa della pace. La risposta di molte riviste scientifiche è che isolare in modo indiscriminato gli scienziati russi è più un danno che un bene. Infatti, qualora l’isolamento si avverasse non sapremmo della posizione decisa dei matematici russi contro Putin e la sua guerra, di cui parla Dacia Maraini in un articolo sul Corriere della sera. Né sapremmo nulla degli accademici russi contro la guerra e l’invasione, autori di un documento in cui si riaffermano le ragioni pacifiche della scienza universale volte al progresso della conoscenza, che è valore in sé e per sé, e alla soluzione dei grandi mali dell’umanità.
In realtà, scrive “Nature”, sono stati “gli scienziati ucraini a chiedere con forza il bando degli scienziati russi, soprattutto dalle riviste”, e citano il parere di Olesia Vashchuk, capo del Consiglio dei giovani scienziati ucraini presso il Ministero dell’istruzione e della Scienza. In due lettere, ella scrive che “gli scienziati russi non hanno il diritto morale di ritrasmettere qualunque messaggio alla comunità scientifica mondiale”. E questa ha proprio l’aria di essere una dichiarazione di guerra di scienziati contro altri scienziati, fondata su un tema, quello del “diritto morale”, che ha qualche ragione per essere accettata dall’opinione pubblica occidentale, ma non ha alcun valore sul piano più rigorosamente scientifico. Quegli scienziati che si oppongono a tale bando nei confronti dei russi sostengono, e a ragione, che così si penalizzano proprio coloro che nei centri universitari e di ricerca russi si oppongono al loro governo, anche con pesanti conseguenze di natura personale. E sollevano la questione del senso, di cui anche Alberto Silvani ha parlato nel suo articolo: la scienza può agire come veicolo della diplomazia. Di fatto, scrive “Nature”, “poche riviste hanno bandito gli scienziati russi”. La stessa “Nature” e “Science” hanno condannato l’invasione russa nei loro editoriali, ma hanno assunto posizioni chiaramente contrarie all’isolamento indiscriminato degli scienziati e dei ricercatori russi. Non caso, l’editoriale di “Nature” del 4 marzo scriveva che “il boicottaggio dividerebbe la comunità globale della ricerca e restringerebbe lo scambio di conoscenze tra studiosi”.
Nonostante queste posizioni aperturiste, gli scienziati ucraini hanno sostenuto le posizioni solo di quelle riviste che invece aderivano apertamente al boicottaggio, convinti che solo agendo con l’isolamento si sarebbe posto fine al conflitto (con l’accusa, nemmeno tanto sotterranea, di complicità con Putin). Per chiarire questo punto, “Nature” ha intervistato uno scienziato politico di una università russa, il cui nome è stato tenuto riservato per ovvie ragioni legate alla sua sicurezza e a quella dei suoi familiari. Egli afferma che sono molti gli scienziati russi che si oppongono alla guerra, “molti rischiano di persona durante i moti di protesta”, e infine che “il boicottaggio sulle riviste ha davvero scarso impatto sul Cremlino”, che col vice primo ministro Dmitry Chernyshenko ha annunciato la creazione di un sistema nazionale di valutazione della ricerca. La nazionalizzazione della ricerca e della sua valutazione, in seguito al boicottaggio, potrebbe danneggiare la comunità scientifica russa e internazionale, afferma “Nature”.
Come tutti sappiamo la necessità di pubblicare su riviste internazionali stimola la ricerca migliore e ne aumenta la qualità e l’attendibilità. La nazionalizzazione della ricerca e della sua valutazione è un evidente controsenso, e mette fuori gioco dalla comunità internazionale gli scienziati della seconda super potenza nucleare. E non sarebbe, davvero, un bel risultato per il futuro della scienza sul pianeta…