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Diminuisce la creatività scientifica?

Tra gli addetti ai lavori ma, soprattutto, nella vita di ogni giorno ci si interroga su una crescente distanza tra le potenzialità scientifiche, e in particolare quelle tecnologiche, e la loro traduzione in concreti benefici volti a migliorare condizioni di vita e di lavoro. Ognuno di noi è portato a confrontare la condizione attuale con quella di qualche anno fa e, nello stesso tempo, a considerare costi e rischi di questa “evoluzione”, da quelli ambientali diventati così percepibili per le loro manifestazioni estreme e negative a quelli derivanti dalla minaccia nucleare.

Interrogarsi su dove, e anche su come, procede la scienza rimane un esercizio utile, amplificato dall’esperienza maturata in questi anni di contrasto alla pandemia, dal progressivo affermarsi del concetto di “open science” e da richiami culturali come quelli contenuti anche in pellicole quali la recente Oppenheimer, che documentano un clima di condivisioni e confronti tra diversi scienziati e diverse discipline.

Ritorna dunque di attualità uno studio pubblicato all’inizio di questo anno su "Nature" (Papers and patents are becoming less disruptive over time) da tre “scienziati sociali”, due (Michael Park e Russel Funk) della Scuola di Management dell’Università del Minnesota e una (Erin Leahey) della Scuola di Sociologia dell’Università dell’Arizona. Uno studio estremamente documentato essendo basato sull’analisi di circa 45 milioni di lavori scientifici e su quasi 4 milioni di brevetti pubblicati a partire dal 1945, e con il ricorso a un indicatore che, misurando le citazioni nei cinque anni successivi a quello considerato, distingue tra la rilevanza originale di un contributo rispetto a un ruolo più incrementale sugli studi precedenti. L’assunzione è, concettualmente, semplice: più un articolo, o un brevetto, è “dirompente” (disruptive) meno avrà bisogno in seguito di essere citato con gli studi precedenti, in quanto costituisce un naturale spartiacque di riferimento da tutti conosciuto, e riconosciuto.

Tanti studi, meno originalità

Gli autori misurano un dato oggettivo: nel periodo 1945-2010 la diminuzione di tale indice (ovvero l’aumento dell’incrementalità sull’originalità delle innovazioni pubblicate) oscilla tra il 90 e il 100%, minore nel caso delle scienze della vita, della ricerca fisica e biomedica ma maggiore per le scienze sociali e tecnologiche. Analogamente, anche se con valori inferiori, per i brevetti dove, nel periodo 1980-2010, l’originalità è scesa di oltre il 90% per i farmaci e la medicina e di quasi l’80 per i computer. Entrambi settori considerati, non a caso, leader per i processi innovativi di quegli anni.

Indubbiamente questi dati sono (stati) influenzati dalla crescita esponenziale del numero di autori, pubblicazioni e brevetti e dal conseguente ricorso a meccanismi citazionali volti a testimoniare la “conoscenza” della materia e delle relative radici ma l’impressione di un “calo di creatività” risulta rafforzata dal progressivo ritardo tra l’assegnazione del Nobel e l’anno della scoperta a cui si riferisce.

Una ulteriore conferma, secondo gli autori, di questo impoverimento di originalità è data dal linguaggio utilizzato, sia attraverso un minor ricorso a neologismi (o a combinazioni di parole) sia rispetto alla prevalenza di concetti di miglioramento o conferma nei confronti di creazione o scoperta. Una considerazione interessante riguarda la – relativa – indipendenza sulla qualità delle riviste: anche le più prestigiose presentano lo stesso problema, sebbene in misura inferiore.

Se però guardiamo alla numerosità assoluta degli studi dirompenti, questa si mantiene sostanzialmente stabile, ma non risulta influenzata, e influenzabile, dalla crescita dei risultati incrementali. In altri termini cresce il “rumore di fondo” ma i “picchi” restano stabili.

Le considerazioni degli autori si estendono ai cambiamenti intercorsi nella scelta degli argomenti da studiare, e quindi dei meccanismi e dei soggetti finanziatori, che tendono a privilegiare tematiche di maggior rilevanza in cui anche un miglioramento incrementale può rappresentare un asset da utilizzare, e nella crescita della specializzazione scientifica che riduce l’approccio esplorativo e multidisciplinare. Il suggerimento finale riguarda il contesto in cui i ricercatori operano, spesso gravato da regole amministrative e burocratiche, dal privilegiare la quantità (di pubblicazioni) sulla qualità (dei contenuti), dal contenimento del rischio nei confronti della sperimentazione e dell’esplorazione, dal primato dei meccanismi di valutazione ben riassunto dalla nota formula di publish or perish, magari suggerendo, e qui sta l’originalità della proposta, di “investire” su giovani e promettenti ricercatori, ovvero sulle loro carriere, piuttosto che sul finanziamento, anche consistente, di singoli progetti.

L'ansia del "risultato atteso"

La portata innovativa di questo studio, tanto per restare collegati ai suoi contenuti, non ha però acceso in Italia grandi discussioni, se si esclude un bell’articolo di presentazione di Jacopo Mengarelli su "Scienza in rete" a gennaio (Scienza e brevetti sempre meno innovativi, ma di chi è la colpa?) e un intervento su "Il Manifesto" di Andrea Capocci a fine gennaio (Quando la scienza era rivoluzionaria). Tutto questo fino a un rilancio della questione che Gianmario Verona, già Rettore della Bocconi e oggi Presidente della Fondazione Human Technopole, ha fatto sul "Corriere della Sera" lo scorso 29 agosto. La rilevanza dell’intervento è riassunta dal titolo (Mettere la creatività al centro della ricerca), dai ruoli rivestiti dall’autore (sia passati che presenti), dai contenuti del messaggio e dal particolare momento in cui si collocano. Passiamoli rapidamente in rassegna.

La prima affermazione riguarda l’apparente discrasia tra la conferma del metodo scientifico (verifica di un’ipotesi attraverso meccanismi di prova ed errore lungo traiettorie che si autoalimentano) e i mutamenti realizzativi che spingono i ricercatori a minimizzare rischi (e costi) e a massimizzare i risultati attesi. Le considerazioni dell’autore evidenziano l’effetto cumulativo delle conoscenze possedute e, soprattutto, la separazione disciplinare, spesse volte intradisciplinare, che ha una ovvia conseguenza sui processi di pubblicazione, demandati a riviste specifiche e a comunità ristrette. La verticalità che ne deriva non facilita, se non a costo di interventi complessi, spesso ostacolati da altri problemi organizzativi, la ricomposizione delle conoscenze per dare risposte globali a problemi globali. Tema che avevamo già segnalato nell’ambito della ricerca europea e a cui si sta tentando di rispondere con un approccio per “missioni”.

Ridare spazio alla “curiosità scientifica” significa quindi ridurre la pressione sull’attesa di risultati, una pressione che risulta spesso autoalimentata dai “meccanismi di ingaggio” vigenti nel sistema e dalle incertezze circa le regole future.

E l'intelligenza artificiale?

L’ottimismo dell’autore circa l’esito di questo processo lo spinge a citare un recente articolo di Eric Schmidt su "Technology Review" (Ecco come l’intelligenza artificiale trasformerà il modo in cui viene fatta la scienza, nell’edizione italiana di "MIT Technology Review", luglio 2023). Secondo Schmidt, che, ricordiamolo, è stato ed è in primo luogo un imprenditore, tra i fondatori di Google e per dieci anni suo amministratore delegato e ora a capo di un’iniziativa filantropica (Schmidt Futures) che scommette su persone che applicano scienza e tecnologia in forme collaborative, saranno le potenzialità dell’intelligenza artificiale a rivoluzionare i metodi di produzione e avanzamento scientifico. Un approccio che non dimentica o nasconde i rischi che sempre più vengono evidenziati nei dibattiti e che spingono verso una ricerca di regolamentazioni, di controllo dei dati e degli algoritmi utilizzati e dei relativi meccanismi d’accesso volti a mitigare le asimmetrie informative e le disparità, ma li considera gestibili e comunque inferiori alle opportunità che si generano e che già oggi vengono utilizzate.

Gli strumenti dell’intelligenza artificiale possono ridurre le barriere all’ingresso per i nuovi scienziati e offrire nuove opportunità per chi era rimasto escluso fino a oggi, oltre ad aiutare i processi di revisione/valutazione, pur scontando la difficoltà a trasportare la “conoscenza tacita” posseduta da molti in conoscenza codificata trasferibile. L’intelligenza artificiale ipotizza anche la realizzazione di un’inversione di ruoli tra un avanzamento generato dal progredire di conoscenze “artifìcialmente” combinate rispetto a un successivo perfezionamento affidato alle competenze accademiche più approfondite, capovolgendo lo schema vigente che lega in sequenza l’indagine esplorativa accademica con la realizzazione sistematica industriale.

Il tutto riconoscendo il ruolo e l’importanza di un intervento pubblico che non si limiti a dettare le regole o ad assegnare premi e punizioni.

Ma per tornare a Verona, la riflessione finale merita un approfondimento, in quanto si indirizza alle istituzioni che governano la ricerca con un chiaro invito a mettere la creatività al centro dei loro interessi. A partire dall’interdisciplinarietà delle sfide che chiedono innovazioni più dirompenti, tali anche da essere percepite come risolutive e come tali accettate in termini di opinione pubblica con tutti i pro e i contro. La proposta formulata, per la verità non originale, è quella di dedicare incentivi mirati per questi obiettivi sia rispetto alle pubblicazioni (e quindi un problema delle riviste e degli editori), sia per i gestori di grant e le agenzie.

E, considerando il ruolo oggi rivestito da Verona e il peculiare momento che vede la fase attuativa del PNRR con le relative novità introdotte per le strutture e gli strumenti, merita necessariamente un approfondimento e un’attenta osservazione sugli sviluppi.

L'autore

Alberto Silvani