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Al servizio della collettività e non del profitto. Per una democrazia dell’intelligenza artificiale

Il dibattito mondiale sull’Intelligenza Artificiale è ovviamente vastissimo e a tutt’oggi al centro dell’attenzione pubblica e di quella di quasi tutte le organizzazioni sociali e lavorative. Si tratta di una vera e propria rivoluzione tecnologica e l’IA è destinata in breve tempo a trasformare profondamente il mondo che conosciamo e senza alcuna possibilità di poter mai più tornare indietro.

Ecco, è proprio questa la frase che si legge e si leggerà dovunque in ogni studio o intervento in merito. E si deve anche ammettere che è vero, la trasformazione è e resterà irreversibile. Come molte volte è successo nella storia, una nuova tecnologia cambia le nostre abitudini, i nostri pensieri, la nostra quotidianità, aprendo anche nuove relazioni con la realtà. Anche se bisogna sempre tenere a mente che di fatto non vengono mai eliminate del tutto le tecnologie preesistenti; esse diventano semplicemente settorializzate e vengono poi utilizzate per campi e compiti specifici o per un valore simbolico connesso, come può essere l’uso di una penna stilografica, oggi segno di ricercatezza o di potere.

La vera posta in gioco: conoscenza e democrazia

Senza voler azzardare una definizione tecnica dell’IA tra le centinaia possibili utilizzate nella ormai sterminata letteratura di riferimento, ci basti isolare due aspetti cruciali del fenomeno: la dimensione di tecnologia linguistica e comunicativa e la potenza economica e industriale che la produce e la diffonde. Se proviamo a tratteggiare una rapida genealogia, si comprenderanno meglio le dinamiche antropologiche connesse, la posta in gioco e le criticità sociali.

Facile ma sempre interessante il passo del Fedro (274 c e ss.) di Platone, nel quale Socrate - che sappiamo non avere mai usato la scrittura, credendo esclusivamente nella maieutica - racconta di Theut, un vecchio dio egiziano che, oltre a numeri, calcolo, geometria e astronomia, aveva inventato le lettere dell’alfabeto e cercava di convincere Thamus, il Re della Tebe egiziana che «Questa scienza, o re […], renderà gli Egiziani piú sapienti e arricchirà la loro memoria perché questa scoperta è una medicina per la sapienza e la memoria».

Ma Thamus immediatamente rispose che l’alfabeto, e quindi la scrittura: «ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitarsi la memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non più dall'interno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei: ciò che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria ma per richiamare alla mente. Né tu offri vera sapienza ai tuoi scolari, ma ne dai solo l’apparenza perché essi, grazie a te, potendo avere notizie di molte cose senza insegnamento, si crederanno d’essere dottissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla».

A prescindere dall’interpretazione del passo, sono chiari gli elementi di una discussione possibile su vantaggi e svantaggi della scrittura sin dal V secolo a.C. Allo stesso modo, secondo gli studi, le ipotesi e le dimostrazioni di Ivan Illich, nella prima metà del XII secolo, forse intorno al 1140, un monaco viene colto a leggere senza pronunciare a voce alta le parole, e senza addirittura muovere le labbra, modificando da allora in poi l’esistenza stessa del testo, oggettivandolo incredibilmente per gli occhi, con una temporalità diversa dalla sua versione orale. La stampa gutemberghiana a caratteri mobili segna il punto allo stesso tempo finale di questo percorso e di incrocio indissolubile con moltissime tecnologie materiali.

La scrittura, nel suo lungo corso qui brevemente delineato, ha rappresentato una vittoria decisa e irreversibile dell’umanità sul tempo. Le parole, i discorsi, le riflessioni, i sogni, una volta affidati alla scrittura diventano patrimonio comune e eterno, con la possibilità incredibile del continuo arricchimento del sapere generale e la capacità di dialogo continuo. La diffusione permessa dalla stampa inoltre mette in grado anche le donne e gli uomini che non appartengono a ceti e classi egemoni di accedere a saperi e culture dai quali erano storicamente esclusi. Anche grazie a queste conoscenze sarà possibile esercitare finalmente i diritti democratici individuali e collettivi.

La stessa dinamica è avvenuta con la possibilità di incidere audio e video e soprattutto con la decisiva innovazione tecnologica della radio, del telefono, del cinema e della televisione. Il mondo stesso è diventato completamente diverso, in questo caso sconfiggendo addirittura lo spazio, che grazie a queste tecnologie viene istantaneamente azzerato. Quando questi media sono diventati non solo unidirezionali, ma bidirezionali e oggi addirittura multidirezionali - penso, ad esempio, alle le piattaforme sociali -, hanno permesso di vivere le parole nello stesso momento, quelle del lavoro e quelle dell’amore.

Nella nostra piccola genealogia, l’altro grande precedente storico a cui guardare è la Rivoluzione Industriale, e in particolare al radicale cambiamento che ha apportato agli stili di vita, tendenzialmente - con il senno di poi e senza velleità finto primitiviste - migliorando il tenore generale di vita, anche di quella quotidiana. Ma questa trasformazione, dal nostro punto di vista, va guardata correlandola alle questioni problematiche che si posero al tempo, soprattutto nelle cosiddette prima e seconda rivoluzione e che furono imposte con durezza e ineluttabilità dai grandi imprenditori industriali: i salari bassi, ritmi di lavoro durissimi, lavoro infantile, salari inferiori per le donne e nessuna tutela per la maternità o la gravidanza, incremento del numero di minatori, aria irrespirabile nelle nuove città, case sovraffollate, condizioni igieniche pericolose, incremento delle malattie, scarsa alimentazione, etc., solo per elencare casualmente alcuni esiti 'negativi' della rivoluzione. A questi diktat, dovuti a una asimmetria di potere, non ci si poteva materialmente opporre dal punto di vista individuale, pena la disoccupazione o la fame, ma proprio da qui iniziò una risposta collettiva.

Ora, cosa lega questi fenomeni, che potremmo quasi definire ‘spartiacque’, all’intelligenza artificiale? Dei primi, come abbiamo anticipato, dobbiamo cogliere la dimensione linguistica, in quanto strumento fondamentale dell’esistenza relazionale e individuale umana, in grado di modificare i paradigmi mentali e soprattutto, dal nostro punto di vista, latrice di trasformazioni complete nella trasmissione del sapere, nell’organizzazione dei saperi, nelle nuove organizzazioni sociali che crea, fino a costituire i nuovi valori che emergono da queste trasformazioni tecnologiche. La conoscenza diffusa, attraverso l’istruzione generalizzata, determina le condizioni stesse di un reale accesso consapevole ai diritti umani e civili e all’esercizio della democrazia, in tutte le sue forme.

Delle rivoluzioni industriali invece si tenga in considerazione la radicale trasformazione del mondo del lavoro, con una velocità e un’intensità mai viste prima di allora, della quotidianità, delle stesse relazioni sociali, e addirittura di tutto il territorio antropizzato.

Per il nostro discorso, però, manca ancora un elemento, da circoscrivere con precisione, anzi due: la direzione della trasformazione tecnologica e la sua potenza e pervasività. Le trasformazioni delle tecnologie linguistiche e comunicative avvengono attraverso la pertinentizzazione di una tra le mille pratiche possibili, sperimentate in ogni angolo del mondo, che riesce a trovare le condizioni per svilupparsi e via via divenire egemone e diffondersi, a volte lentamente a volte più rapidamente. Le rivoluzioni industriali invece hanno acquistato forza e estensione grazie a una vera e propria imposizione, frutto e esito di potenza economica e sociale, tale da creare immediatamente quasi dei fronti contrapposti, legati alla posizione nella struttura economica che ne risulta (senza neanche scomodare le categorie interpretative di Marx). Come abbiamo appena accennato, è stata necessaria una vera e propria organizzazione delle donne e degli uomini che si sono trovati a lavorare nei nuovi luoghi creati dalle rivoluzioni industriali, che è stata lunga, faticosa, osteggiata, ma che è stata l’unica vera risposta possibile per ripristinare una società più giusta e più equa, o quantomeno più equilibrata, traducendo poi queste conquiste prima su un piano politico, poi su quello legale, poi finalmente su quello istituzionale, con la naturale concatenazione intrinseca e contraddittoria di questi piani.

Dal punto di vista teorico, allora, potremmo porre la questione dell’intelligenza artificiale al crocevia di queste due grandi 'serie' di ‘rivoluzioni’, in quanto permeata da strutturazioni simili. Una trasformazione della tecnologia della comunicazione, irreversibile, tale da modificare profondamente i saperi codificati, la loro trasmissione, i paradigmi comunicativi e i discorsi stessi, anche in termini foucaultiani, agita e imposta da grandi concentrazioni di potere economico, sociale e ‘scientifico’, senza nessun riguardo rispetto alle vite materiali e simboliche delle donne e degli uomini coinvolte, se non per quella minima parte legata a discriminazioni ideologiche troppo apparenti.

È qui che si pone la vera questione democratica che è praticamente assente dal dibattito pubblico e proprio alla luce di questa assenza, cerchiamo di valutare sui diversi piani quali siano gli ostacoli e le problematiche connesse.

I tentativi di regolamentazione e di azione politica

Partiamo da un presupposto insieme etico e politico: non è possibile accettare l’imposizione di queste tecnologie, includendo nella categoria 'imposizione' la materiale impossibilità per i soggetti coinvolti di potersi opporre individualmente, a meno di non accettare una materiale esclusione dalle dinamiche sociali contemporanee.

E non è possibile che gli unici attori di queste trasformazioni tecnologiche epocali reali siano solo le grandissime imprese e che le prospettive dello sviluppo restino confinate solo e esclusivamente all’interno di una prospettiva di profitto.

E ancora non è possibile che gli Stati nazionali individuino come interlocutori per elaborare e implementare una strategia operativa e legislativa solo stakeholder legati al mondo dell’impresa o dell’accademia, che in questo caso funge solo da legittimazione vagamente 'scientifica' per effettuare pratiche decise a monte (si ricordino, solo per facilità interpretativa, gli studi commissionati dalle multinazionali del tabacco che escludevano esplicitamente che il fumo potesse essere un agente cancerogeno). Così come non è possibile che le cittadine i cittadini rappresentino per le politiche governative di regolamentazione solo e esclusivamente dei consumatori o degli utenti di servizi vari forniti dallo Stato e non in quanto cittadini dotati di diritti civili e politici destinati anche a governare le trasformazioni tecnologiche, attraverso vecchi e nuovi strumenti democratici.

Le organizzazioni sovranazionali come la Comunità Europea o quelle internazionali come le ONU, l’UNESCO o l’OCSE stanno cercando di formulare, a margini di studi debitamente indirizzati, dei quadri normativi o comunque di riferimento per le azioni politiche e legislative dei governi nazionali. Purtroppo bisogna notare che queste indicazioni sono spesso basate su un generico, se non ideologico, rispetto dei diritti umani e delle varie minoranze (etniche, di genere, etc.) e comunque sempre conformi a una totale subalternità alle imprese private. La questione della democrazia non viene mai posta realmente, in nessun eventuale e possibile esercizio.

La lettura attenta di questi documenti, che quasi sempre sono delle dichiarazioni di intenti, permette una analisi critica che individua le dinamiche sottese, gli universi socio economici di riferimento, le velate e nascoste ideologie, le reali volontà, le giustificazioni sempre ex post, le assenze mai casuali. Proviamo allora a analizzare velocemente i documenti di due organi istituzionali, uno rappresentativo e uno governativo, e quello di un’organizzazione di studio internazionale

Il primo documento di un ‘organo rappresentativo’, anche se peculiare, è la Risoluzione del Parlamento europeo del 3 maggio 2022 sull'intelligenza artificiale in un’era digitale che analizza sei casi di studio: la salute, il Green deal, la politica estera e la sicurezza, la competitività, il mercato del lavoro e, buon ultimo, il futuro della democrazia. In questa ultima parte, anche se è molto spinta sui diritti civili più che su quelli direttamente politici, un gran numero di osservazioni si basa proprio sulla criticità delle conoscenze, della loro verificabilità, dell’accesso e della qualità dei dati assunti dalle IA. Ma la Risoluzione si interroga diffusamente sul ruolo dell’UE, anche inquadrandolo specificamente nella ‘competizione globale’, delineando i limiti, le opportunità e le criticità della costruzione di un quadro giuridico e normativo comune e coerente, e di un ‘mercato unico digitale’ (con le opportune distinzioni relative agli aspetti green e di sostenibilità), oltre che invitare alla valorizzazione dei ‘talenti’ e al finanziamento della ricerca pubblica sull’intelligenza artificiale.

L’ecosistema e la governance sono affrontati con un taglio decisamente più sociale, pur non disdegnando di proporre una vera strategia industriale generale, anche se poi si include un paragrafo su piccole e medie imprese e start up.

Qual è il vero problema di questa Risoluzione dal punto di vista della costituzione di un esercizio democratico? Partendo proprio dalla specificità sia del Parlamento Europeo che dalla tipologia della Risoluzione – che non è una legge – l’intero documento resta un mero elenco di desiderata, senza nessuna reale possibilità di incidere sui paesi membri.

Nel documento dell’OCSE – l’organizzazione per lo sviluppo economico e la cooperazione internazionale che analizza le questioni che saranno poi decise politicamente dal G7 – pubblicato ad aprile 2023, AI language models: Technological, socio-economic and policy consideration, il secondo capitolo si riferisce all’ecosistema coinvolto dall’IA e sin dalla grafica ‘People and Planet’, l’individuazione di 'persone e pianeta' viene subordinata al contesto economico, di cui sono ritenute semplicemente parte. Allo stesso modo gli utilizzatori vengono identificati innanzitutto in un generico pubblico, (‘Public’, neanche ‘people’, ‘persone’, per le quali inoltre si specifica esclusivamente che potrebbero mancare di competenze specifiche), per poi elencare invece esplicitamente gli operatori economici, le istituzioni di ricerca e le agenzie governative.

È davvero singolare inoltre che in un intero capitolo integralmente dedicato alle problematiche possibili, si tratti solo di vaghissime preoccupazioni ambientali, delle possibili discriminazioni per alcune soggettività o alcune minoranze, anche linguistiche, o addirittura del pericolo che le piccole e medie imprese non siano in grado di competere con le grandi aziende produttrici per mancanza del capitale necessario. E anche quando si individua un gravissimo punto critico – che ovviamente dipende sempre dalla mancanza di trasparenza degli algoritmi, che diventano delle black box – come la creazione di contenuti con informazioni selezionate artatamente o addirittura false, si spera semplicemente che gli stakeholders trovino delle soluzioni, ma non si evidenzia in alcun modo il gravissimo problema democratico che ne può emergere.

Si noti, per incidens, che anche in piccoli, veloci passaggi, gli ambiti in cui si ipotizzano i contesti e i settori che potranno beneficiare dell’IA, si individuano chiaramente solo tre specificazioni: crescita inclusiva, sviluppo sostenibile, benessere. Se si fa attenzione a come vengono declinati questi concetti, si comprende immediatamente che essi sono formati da un sostantivo, utilizzato in forma neutra e non specificata – che quindi potrebbe indicare sia un ambito virtuoso sia una forma di azione invece ‘deprecabile' – con l’aggiunta di un aggettivo che esclude le possibili degenerazioni che nell’ideologia delle organizzazioni mondiali rappresentano la dimensione etica di facciata.

Un’ultima notazione, che però è fondamentale per capire la criticità di determinati approcci, è costituita dalle proposte per incentivare la costruzione di un ecosistema digitale. Tutte le proposte, che sono anche di ordine economico, cioè prevedono spese possibili, sono in funzione della ‘facilitazione’ necessaria per la diffusione e il funzionamento dell’IA: l’accesso ai devices e alle risorse digitali, la necessità di avere database accurati e disponibili anche nelle lingue minoritarie, oppure i suggerimenti per le piccole e medie imprese su come integrarsi nel business dell’IA attraverso produzione di software di piccola e specifica calibratura.

Comunque di un punto fondamentale, anche l’OCSE è consapevole: l’accesso libero (open source) al codice dei modelli, una volta reso il codice pubblico e modificabile, può incrementare la trasparenza e l’inclusività. Ma semplicemente le grandi imprese proprietarie delle tecnologie si rifiutano di fornire qualsiasi dato.

Proviamo allora a vedere un caso nazionale, ancora una volta dal punto di vista di un documento programmatico, questa volta governativo, per valutare, attraverso le parole che vengono scelte e poste come guida delle azioni, quali siano le dinamiche reali che sottostanno e i reali significati nascosti nell’enunciazione discorsiva,

Il Ministero italiano per l’Innovazione tecnologica e per la Digitalizzazione (MID) ha pubblicato il documento 2025 Strategia per l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione del Paese, nel quale si individuano, nel più puro stile di bassa divulgazione aziendale, tre ‘sfide’, che altro non sono per la terza volta, l’innovazione, la digitalizzazione e lo sviluppo etico e sostenibile, ognuna suddivisa a sua volta in tre obiettivi generali, concludendo con 20 (micro) azioni ‘effettive’ che si pongono come attuative di questi obiettivi.

Innanzitutto, questo si legge nell’esergo: «L’innovazione e la digitalizzazione devono far parte di una riforma strutturale dello Stato che promuova più democrazia, uguaglianza, etica, giustizia e inclusione e generi una crescita sostenibile nel rispetto dell’essere umano e del nostro pianeta».

Ma già nell’introduzione firmata dal ministro si dichiara di «immaginare il futuro che desideriamo e farlo nostro attraverso l’adozione consapevole della tecnologia, integrata con la società sotto i profili etico, sociale, economico, ambientale e biologico».

Si nota immediatamente come la ‘democrazia' scompaia nel giro di una pagina e se si guarda subito ai tre obiettivi che materializzerebbero la prima sfida – la digitalizzazione – dopo l’accesso on line ai servizi della Pubblica Amministrazione di cittadini e imprese, troviamo esplicitamente scritto che «il pubblico è volano di digitalizzazione del privato» e la stessa valorizzazione del patrimonio di open data deve «sviluppare nuovi servizi, attrarre nuove realtà imprenditoriali».

Addirittura inaccettabile, probabilmente da qualsiasi punto di vista, è il primo obiettivo dell’innovazione: dietro l’etichetta di ‘cambiamento strutturale' questo si determina addirittura in una 'sperimentazione in deroga' alle leggi, e qualora questa ‘deroga' porti a risultati considerati positivi, essa potrà essere concessa anche a altri soggetti. Che esistano delle leggi che regolino le imprese e il lavoro sembra essere un dato totalmente irrilevante. E sempre alla luce del supporto statale alle grandi aziende private, effettuato con i soldi pubblici, dopo un generico ‘supporto mirato' a città e piccoli borghi come secondo obiettivo, il terzo identifica chiaramente la ‘reingegnerizzazione' di tutte le infrastrutture fisiche (cloud, fibra e 5G).

Veniamo alla terza sfida, che, nonostante debba tendere a uno sviluppo etico e sostenibile, viene semplicemente suddivisa tra un generico aumento delle capacità dei cittadini di usufruire dei ‘nuovi servizi digitali pubblici e privati’ e dei percorsi di formazione per studenti e ‘formazione continua e reskilling dei lavoratori’. Davvero una idea ristretta e molto tendenziosa dello sviluppo emerge da queste linee programmatiche.

Il ruolo dei soggetti collettivi

Il vero snodo, come si vede, sta tra la conoscenza e la democrazia. La strada scelta e imposta in questo momento dai soggetti che creano e spingono questa intelligenza artificiale rischia di frantumare e di svuotare di senso conquiste umane ottenute con sacrificio e orgoglio. Affrontare oggi la questione dell’intelligenza artificiale non può essere una responsabilità individuale, né può essere fatto come consumatori o utenti e, come abbiamo velocemente visto, i soggetti che potrebbero regolare e governare il fenomeno hanno completamente abdicato a determinare un esercizio democratico. L’unica possibilità è la presenza e l’azione di soggetti collettivi che si assumano la responsabilità politica per gestire il suo impatto sulla società, probabilmente a partire dal mondo del lavoro, da soggettività sindacali soprattutto.

È cruciale che governi, organizzazioni e stakeholder si uniscano per definire in un confronto democratico pubblico e collettivo regolamenti e standard etici e politici che guidino lo sviluppo e l'utilizzo dell’IA, senza limitarsi semplicemente a moderare i problemi che derivano dalla presunta intoccabilità delle leggi del profitto e del mercato. Solo attraverso una governance condivisa e pienamente democratica, in una collaborazione tra soggetti collettivi, sarà possibile garantire equità e promuovere benefici per tutti e garantire che l’IA diventi una tecnologia al servizio dell’umanità.

L'autore

Claudio Franchi