Cultura

02 febbraio 2022

La Shoah attraverso gli occhi di un bambino

Europa. 1938-1943. Nella notte tra il 9 e il 10 novembre 1938, la Notte dei Cristalli, scattò il vero e proprio pogrom antisemita, l’attacco fisico contro gli ebrei e i loro beni in tutti i territori sotto il controllo tedesco, coordinato e ordinato dal Ministro della propaganda Goebbels con il pieno consenso di Hitler. Il piccolo ebreo Natan lo sperimentò a Berlino sulla propria pelle, verificò l’indifferenza di molte delle persone che facevano parte del suo quotidiano, vide l’arrivo dei fuochi e le camicie scure trascinar via il caro divertente padre, gran raccontatore di illuminanti barzellette, e caricarlo su un camion. Qualche anno dopo una signora amica avvisa la mamma che è meglio far partire i ragazzi più grandi, Natan sì, il fratello minore Sami no. Prendono il treno, unico mezzo di meno incerto trasporto, prima verso Vienna e Graz in Austria, poi verso Zagabria in Croazia, dove restano un paio di mesi; un gruppo tenta di proseguire verso Turchia e Palestina, Natan e gli altri (di tante nazioni) restano in un castello a Horjul in Slovenia, più di un anno, giungono in Italia nell’estate 1942, arrivano a Modena, finché il rabbino della sinagoga li destina a Nonantola. A Villa Emma giungono quaranta ragazzi e nove adulti, ci sarebbero quarantatré stanze, riescono subito a tenderne vivibili due, una per i maschi, una per le femmine. Fanno lavoretti, ascoltano lezioni, imparano mestieri, si riuniscono in assemblea, incrociano cittadini e ragazzi del paese, spediscono e ricevono lettere, riescono pure a procurarsi il pianoforte per Boris, il pianista russo. La Delegazione per l’assistenza degli emigrati ebrei (DELASEM) fa molto, ma sono soprattutto i cittadini locali ad aiutarli, i contadini portano cibo, i falegnami forniscono letti, le sarte cuciono vestiti. E il loro sostegno diventa decisivo quando arrivano le SS e bisogna trovare il modo di nasconderli e farli fuggire verso la teoricamente neutrale Svizzera (c’è un primo tentativo fallito rispetto al quale viene alla mente la vicenda di Liliana Segre).

Il creativo insegnante di scuola primaria (a Modena) Ivan Sciapeconi (Macerata, 1969) ha al suo attivo già vari testi didattici e di narrativa per ragazzi e ora racconta con maestria una bella storia vera, un riuscito esordio nel romanzo. Con tono giusto e garbato, sceglie il punto di vista di un bambino ai bordi della pubertà, la narrazione è in prima persona al presente, con mescolanza sapiente di tempi e contesti, di ricordi e illusioni, di pensieri e dialoghi. Il titolo fa riferimento all’ultima necessità della fuga, le donne del paese tutte a produrre cappotti eguali in poche ore, con bottoni e asole al posto giusto, come se fosse una gita di adolescenti. Il romanzo può essere letto da 8 a 98 anni, niente astruserie, sigle, prosopopea. Lo stile e le parole sono curate, le emozioni di un giovanissimo, il dramma di alcune generazioni. Un vecchio e un bambino riescono a seguirlo e a capirlo, a divertirsi e a commuoversi, allo stesso modo. Nella Villa le lingue parlate erano tante, ci si intendeva in molti modi. In fondo al testo si trovano i nomi veri dei ragazzi di Villa Emma e dei loro accompagnatori. Natan ripete spesso che si sforza di memorizzare l’identità di chi li stava aiutando, deve loro la vita, vuole che se ne conservi la memoria. L’autore ha raccolto materiali, testi, racconti e testimonianze parziali, informazioni storiche, pur segnalando che possono esserci dimenticanze, si tratta appunto di un romanzo storico. Del resto, esiste ancora oggi una Fondazione Villa Emma che svolge un eccezionale lavoro culturale e di documentazione. Gli ospiti ebrei di allora fuggirono davvero tutti insieme, solo un piccolo gruppo tentò la via verso sud (e gli americani), un paio si unirono alla Resistenza nelle Marche. Una volta partiti, la vita a Nonantola riprese e vi sono pubblicazioni di piccoli editori locali a raccontarla, alcuni cittadini non sopravvissero alla Shoah, altri furono nominati Giusti tra le Nazioni dallo Yad Vashem; così come iniziò la nuova esistenza degli arrivati in salvo, alcuni dei quali tornarono nel modenese a guerra finita.