Cultura

17 novembre 2021

Un nuovo paradigma educativo imposto dalla transizione ambientale: il nuovo libro di Laval e Vergne

Dopo cinque anni di “blanquerismo” (dal nome del ministro dell’istruzione francese) che hanno avuto l’effetto di verticalizzare, per non dire rifeudalizzare, la scuola francese, è giunto il tempo per riaprire la scuola alla democrazia. È questo il senso del successo che il libro di Christian Laval e Francis Vergne, Éducation démocratique: la révolution scolaire à venir, pubblicato da La Découverte sta riscontrando in Francia e si spera venga presto tradotto da qualche editore italiano. I due autori, sociologi e filosofi dell’educazione, che già nel 2012 avevano fatto discutere con il volume La nouvelle école capitaliste indicano quanto il sistema educativo giochi un ruolo ecologico e sociale determinante: rendere il mondo vivibile e preservare il pianeta attraverso una ristrutturazione della scuola. È la sfida di ciascuno di noi.

Ne La Nouvelle école capitaliste i due autori avevano denunciato la “fabbrica della impiegabilità” a detrimento dei saperi, l’asservimento della scuola agli obiettivi economici, la trasformazione degli studenti in consumatori e soprattutto la messa in competizione degli istituti che rafforza gli effetti della segregazione sociale. In questo nuovo e dirompente volume, Laval e Vergne attaccano direttamente il “tecnocratismo” così largamente diffuso nelle scuole occidentali, che provoca un disastro democratico generale. Ecco perché occorre ripoliticizzare la questione della scuola per rimetterla al centro del dibattito pubblico. La questione della scuola è sociale e politica, e si intreccia con l’educazione democratica.

“Questa educazione democratica, occorre inventarla”, ci dicono gli autori nell’introduzione. “Si può enunciare il senso generale della trasformazione desiderabile: andare verso una società che allargherà le capacità politiche dei suoi membri, assicurerà loro uguaglianza sociale e garantirà il rispetto delle forme di vita”: ecco i tre obiettivi posti dinanzi ai principi futuri. Per gli autori, il momento è giunto: “la doppia crisi dell’educazione, quella sociale per effetto della crescita delle disuguaglianze tra le classi, e quella politica per effetto della perdita della comunità, non si risolverà mediante rimedi autoritari o conservatori, e non può che essere superata da una democrazia radicale”. Questa è la speranza che alimenta la riflessione attorno a ciò che dovrebbe essere una educazione democratica. Per gli autori, tutto si tiene: se l’educazione è in crisi lo è perché il funzionamento della scuola non si può separare dai fallimenti della società e del regime politico. Questa nuova educazione viene definita dai due autori, sociologi e filosofi, attraverso 5 principi: la libertà accademica, la ricerca dell’uguaglianza nell’accesso al sapere, la definizione di una cultura comune, una pedagogia istituente e l’autogoverno della scuola.

Nell’educazione, l’uguaglianza è la sfida più grande. Essa “non può progredire che a condizione di un riconoscimento delle classi sociali e di tutte le forme di disuguaglianza nella società”. Gli autori denunciano le interpretazioni individualizzanti che sono di moda nelle scuole, soprattutto per effetto dell’egemonia delle neuroscienze. Per l’uguaglianza occorre agire sul “quadro economico, sociale e culturale delle famiglie”, cosa che va ben al di là di borse di studio largamente insufficienti. Occorre farla finita con la segregazione scolastica, in un Paese, la Francia, in cui la sfida vera è che il privato scolarizza il 20% degli studenti. In particolare, gli autori sollevano la questione della pedagogia dell’uguaglianza. Come trasformare il rapporto sociale degli studenti col sapere? Secondo loro, “il senso che gli studenti trovano è largamente determinato dall’anticipazione di un futuro sociale e professionale possibile o altrimenti impossibile”. Una minore ingiustizia sociale dovrà avere un impatto sul rapporto col sapere a condizione di non limitare l’orizzonte culturale degli studenti di origini popolari. Una rivendicazione che incontrerà notevoli sviluppi nell’istruzione professionale.

È dunque questione di cultura e di cultura comune. Christian Laval et Francis Vergne considerano il fondamento comune come un’invenzione liberale in una scuola dominata dal regime della produttività. Per loro la cultura scolastica è un “progetto storico e la proiezione di un ideale”. Questa cultura scolastica comune deve preparare alla gestione democratica ma anche alla sfida tecnologica. “La cultura comune che suppone la democrazia deve integrare tre dimensioni: l’autonomia individuale, l’autogoverno popolare, la responsabilità verso la Terra”. Questa cultura non deve piegarsi a una cultura nazionalista. Dev’essere “plurale e cosmopolita”. E non sarebbe comune se non a questa condizione. Gli autori manifestano interesse verso una scuola democratica dell’insegnamento della storia. E ne spiegano il senso a proprio a partire dal ruolo che ad esempio la letteratura e la matematica giocano nell’istituzione scolastica. Insomma, vorrebbero degerarchizzare i saperi.

Ma quale pedagogia per l’uguaglianza nella scuola democratica? Gli autori mettono schiena contro schiena i partigiani della tradizione e quelli dei metodi attivi accusati di uno “scolarismo che maschera la funzione reale della scuola”. Al contrario, i due filosofi vorrebbero pedagogie sociali “nel senso che cercano di sviluppare una responsabilità verso il gruppo e verso la società democratica alimentando la partecipazione effettiva degli studenti alla elaborazione delle regole collettive”. Per questa ragione essi parando di “pedagogia istituente”. Si penserebbe a Freinet, o a Ourt, ma in realtà gli autori fanno riferimento a Dewey, rigettando l’idea dei limiti disciplinari senza negare il ruolo del maestro. “Ciò che costituisce autorevolezza in pedagogia non è la gerarchia del potere, la sottomissione ai dogmi, la fede nella sovranità, ma ciò che è più vero e ciò che può essere dimostrato con la ragione”. L’educazione democratica risiede nella potenza dell’argomentazione insegnata ai giovani. Si ritrova la stessa ispirazione nella gestione delle scuole che dev’essere assegnata a un’assemblea generale degli studenti, dei genitori, e degli insegnanti. Assemblea in cui la presenza è obbligatoria. Le scuole, secondo questo principio, procedono ad “un autogoverno degli istituti, poiché non si può avere comunità scolastica se l’istituto è governato dall’alto”.

È questa la trasformazione proposta: “la speranza in un altro mondo possibile è la condizione per cui la transizione ecologica impone nuove strade all’educazione, un mutamento radicale nel modo di produrre e di vivere”. La transizione ecologica dovrebbe spingere verso un mutamento radicale del mondo delle scuole. Insomma, concludono: “la realtà impone un cambiamento radicale”. Scrive Laval: “non vogliamo più mentire sull’epoca che viviamo e sulla grande biforcazione che è dinanzi a noi, quella che separa l’abbandono del nostro modello economico dal tentativo catastrofico della dominazione e della distruzione dell’ambiente naturale e sociale”. La questione riguarda quale modello di società e quale forma di vita dobbiamo imperativamente mettere al posto degli attuali schemi di produzione e di consumo, e dunque di sapere che tipo di istruzione dobbiamo adottare per preparare gli adulti futuri a questa trasformazione completa nel modo di vivere, di lavorare, dei legami sociali, delle istituzioni politiche. Si tratta di essere conseguenti. Se si impone una rivoluzione sociale, economica ed ecologica ci si dovrebbe chiedere quali forme essa assumerà a livello di azione educativa.

Questo è il senso del libro, non c’è un istante da perdere per ridefinire un nuovo modello di educazione che non solo sia corrispondente a una società vivibile e desiderabile e a una Terra abitabile in futuro, ma prepari coloro che l’abiteranno a gestire democraticamente il loro destino. Per gli educatori la responsabilità del mondo ha inizio con la formazione della responsabilità dei bambini e dei giovani. Un calcolo rapido: un bambino di dieci anni oggi ne avrà 40 nel 2050, e 70 nel 2080. Quale sarà la sua vita, quale il suo ruolo nella vita sociale, quale sarà il modo di combattere le sfide se non avrà il possesso delle armi intellettuali che gli consentano di acquisire l’esperienza della vita democratica? Rendere vivibile la società e abitabile la Terra nel XXI secolo significa che non è più possibile educare come si faceva nell’epoca della industrializzazione, durante i Trenta gloriosi e soprattutto ora che la competizione è entrata a far parte delle vite di ciascuno e nelle scuole di ciascuno. Rimettere la scuola democratica in primo piano: questo il progetto anti neoliberale di Laval e Vergne.

L'autore

Pino Salerno