La rivista

Politiche educative

I Convitti-Scuola della rinascita e l'avventura pedagogica del Giaime Pintor di Roma

Correva l’anno 1945 e precisamente il 14 agosto. L’Italia era stata appena liberata dall’occupazione nazi-fascista allorquando il sindaco di Milano, Antonio Greppi, e il rappresentante del governo alleato, colonnello Charles Poletti, presenziarono a Milano la cerimonia di apertura del primo Convitto-Scuola intitolato al partigiano “Amleto Livi”, appena sedicenne, caduto in battaglia a Invorio il 28 marzo dello stesso anno, dando così inizio all’ esperienza antifascista di “scuola nuova e popolare”. In queste realtà non solo si studiava ma si lavorava e tutte le sue componenti erano organizzate democraticamente dal basso in commissioni per risolvere i problemi più elementari, dal vitto alla pulizia dei locali, dai sovvenzionamenti ai rapporti con l’esterno. L’idea dei “Convitti-Scuola per partigiani e reduci” – successivamente il nome di “Convitti-Scuola della Rinascita” – era nata nell’ottobre del 1944 su iniziativa di alcuni partigiani della Decima Brigata Garibaldi “Rocco” comandati dal commissario politico Luciano Raimondi – “Nicola” – internati nel campo di concentramento di Schwarz-See in Svizzera. I partigiani della “Rocco” si trovavano in alta montagna: di fronte all’attacco nemico furono costretti a trasferirsi in Svizzera dove vennero concentrati in una specie di lager presso lo Schwarz See, dove furono trattati con estrema durezza. Durante quelle poche settimane invernali di prigionia passate nel freddo e nella fame, i giovani partigiani costretti all’ozio forzato con alla guida “Nicola”, appassionato insegnante di filosofia al liceo, cominciarono a organizzare alcuni gruppi di studio: letteratura italiana, lingue straniere e storia. Nei primi di gennaio del 1945 il gruppo di partigiani garibaldini ritornò in Ossola con le armi in pugno e a primavera, con la Liberazione, a Milano l’unità venne provvisoriamente acquartierata in una caserma.

Nascita e diffusione dei Convitti-Scuola della Rinascita

Durante la guerra molti giovani avevano dovuto interrompere la scuola, molti altri provenienti da famiglie povere non erano andati oltre le elementari, nella lotta partigiana avevano dimostrato doti notevoli di intelligenza e di capacità. E poi c’erano i ragazzi mutilati, gli orfani dei caduti, i figli dei senza tetto: una vera e propria emergenza che doveva essere affrontata per cercare di rimuovere le ingiustizie sociali e ricominciare a ricostruire il Paese sulla base di quell’idea nata a Schwarz-See e perseguita con passione da Luciano Raimondi.  Si mettono così in pratica gli ideali della Resistenza, “patrimonio morale e culturale che può e deve servire di base alla nascita di una scuola nuova, popolare”. Il tutto prende corpo rapidamente: i partigiani hanno ancora zaini e coperte, in caserma sono disponibili letti a castello e scatolette, viene trovata ad Affori una sede nei locali di un antico collegio. Si costituisce un comitato promotore formato da tre professori, Luciano Raimondi, Claudia Maffioli e il filosofo Antonio Banfi, con tre studenti, Angelo Peroni, Ludovico Tulli e Guido Petter. Vi si uniscono subito altri insegnanti antifascisti (socialisti, comunisti, repubblicani, azionisti e liberali) fra i quali Luigi Pellegatta, Alba Dell’Acqua, Pasqualina Callegari, Bianca Ceva con l’aiuto entusiasta dei migliori partigiani della brigata e con il patrocinio immediato dell’ANPI, che presto istituisce nella sede centrale di Roma un Ufficio Convitti Scuole. Così ebbe inizio una splendida avventura di una comunità scolastica di giovani adulti dove si studiava, si lavorava, si discuteva, si organizzava e si dirigeva in maniera democratica tutta l’attività politica, strutturale, culturale e pedagogica del Convitto-Scuola con l’intento di costruire uno strumento educativo di rinnovamento democratico della nuova scuola popolare fondata sullo spirito di libertà e di lotta antifascista che aveva ispirato la Resistenza italiana.

Il legame con la lotta di liberazione antifascista era chiaro ed inequivocabile. «Il problema della scuola per tutti – scriverà Raimondi – e della formazione di tutti i giovani verso il pieno sviluppo delle loro capacita individuali per il loro inserimento attivo e creatore nella nuova società usciva dai programmi e dal cuore della Resistenza». L’attività della comunità venne regolamentata da uno Statuto e da un Codice elaborati dal Convitto di Milano e successivamente implementati e arricchiti dai contributi dei vari convitti che vennero aperti nelle altre realtà italiane con lo scopo di «porre tutti i lavoratori e i figli dei lavoratori su un piano di effettiva libertà nel campo dello sviluppo morale e culturale» ( art. 2 dello Statuto) anticipando per certi versi quello che sancisce l’art. 3 della Costituzione «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale… che impediscono il pieno sviluppo della persona umana». Con l’affidamento della direzione e l’organizzazione del Convitto viene data piena attuazione alla collaborazione attiva e alla corresponsabilità degli allievi educandoli all’autogoverno e alla democrazia avvalendosi del collegio dei docenti e della loro esperienza umana e culturale. Una forma positiva di democrazia diretta vista come mezzo per risolvere i problemi di quel periodo postbellico complicato e difficile dove lo stesso studio viene visto e considerato come lavoro effettivo, liberando l’allievo da ogni preoccupazione di carattere economico per sé e per le eventuali persone a carico.

Con il sostegno dell’ANPI l’esperienza milanese si diffonde in alcune città del nord e a Roma. Vengono istituti altri nove convitti a Cremona, Torino, Novara, Venezia, Genova, Sanremo, Bologna, Reggio Emilia, Roma e la particolare esperienza del Villaggio della Rasa a Varese. Le strutture organizzano corsi professionali diversi, sulla base delle diverse esigenze economiche di ogni singolo territorio. A Milano, per esempio, vengono organizzati corsi di chimica e di meccanica; a Cremona ci si specializza nel campo dell’industria lattiero-casearia e nella liuteria; a Reggio Emilia la meccanica agraria e l’edilizia; a Genova si studia all’istituto nautico e a Sanremo si preparano i tecnici del turismo e delle attività alberghiere. Corsi speciali, come quello per odontotecnici e orologiai, vengono creati per la prima volta in Italia, destinati in particolare ai giovani mutilati e invalidi. Ogni Convitto si impegna poi nella produzione di beni o servizi (formaggi a Cremona; mobili a Varese; grafica a Milano e Roma) da vendere all’esterno, con l’istituzione di piccole aziende cooperative i cui introiti contribuiscono all’autofinanziamento del Convitto stesso.

I giovani allievi che frequentano queste istituzioni non solo ottengono risultati brillanti negli studi ma vengono inseriti efficacemente in quel complesso e particolare mondo del lavoro tipico di un paese in ricostruzione.  Il che viene ampiamente favorito dall’istituzione presso il convitto di Milano di un Centro d’orientamento agli studi e alle professioni, diretto dal professor Cesare Musatti – il grande psicoanalista italiano – con l’ausilio del professor Gaetano Kanizsa.  In coerenza con i principi resistenziali ogni singolo convitto era organizzato democraticamente in quanto veniva considerata centrale l’integrazione tra società e istituzioni, estendendosi anche a un campo più ampio che riuniva tutti i Convitti in un solo movimento, con problemi analoghi da risolvere e dando origine a congressi di tutti i Convitti, convocati periodicamenteLucio Lombardo Radice definì le assemblee inter convittuali l’“Italia in piccolo”. I dieci Convitti-Scuola rappresentavano «l’abbozzo di un “piano nazionale” di scuola nuova e di preparazione al lavoro che cominciava a realizzarsi» e che avrebbe dovuto portare all’apertura di 90 Convitti, uno in ogni provincia italiana.

La vittoria dei democristiani e la difficile resistenza dei Convitti

Le cose però andarono diversamente.  Dopo le elezioni politiche del 18 aprile 1948, ovvero le prime elezioni della nascente Repubblica italiana, venne a determinarsi uno scenario politico sostanzialmente diverso da quello dei primi anni del dopoguerra: la Democrazia Cristiana si aggiudicò la maggioranza relativa dei voti e quella assoluta dei seggi. Con la sconfitta netta del Fronte Democratico Popolare composto dal PCI e PSI favorita anche dalla scissione socialdemocratica guidata da Giuseppe Saragat avvenuta l’anno prima, il partito di Alcide De Gasperi divenne il punto di riferimento per l’elettorato anticomunista e il principale partito fino al 1994. All’indomani di quella scadenza elettorale le scuole partigiane furono oggetto di una costante e continua azione di sabotaggio da parte dei governi democristiani, che le consideravano “covi dei rossi”. Vennero revocate le Convenzioni per il loro finanziamento, furono richiamati nelle scuole pubbliche gli insegnanti distaccati presso questi istituti. Vennero inviate ispezioni governative dai Ministeri dell’Interno, della Pubblica istruzione e del Lavoro con l’intento di scoprire rivoltelle e mitra. Furono invece costrette a «constatare la positività, il lavoro altamente qualificato e l’impegno straordinario nell’ideale della dignità del lavoro e della prassi di libertà» come ebbe a sottolineare Luciano Raimondi. Inizia comunque un lungo e difficile periodo per i Convitti, che uno dopo l’altro sono costretti a chiudere. Dei Convitti –Scuola continuò a resistere solo quello di Milano che nel 1955, dopo una lunga lotta sostenuta da larghi strati della popolazione, da campagne di stampa e dall’intervento di altissime personalità, fu costretto a lasciare la sede di Via Zecca Vecchia. Sarebbe stata la fine senza l’intervento del Comune di Milano, che concesse una ex fabbrica di vagoni ferroviari, con due capannoni semidiroccati, sporchi e cadenti; con un duro lavoro, la sede venne riattivata e nel 1956 la Scuola poté riprendere la sua attività. Due anni dopo, nel 1958, la scuola media ottenne il riconoscimento legale e nello stesso anno i corsi professionali furono assunti dall’ECAP-CGIL per poi passare alla Regione Lombardia, mentre il Convitto rimase in funzione fino al 1970. Nel giro di una decina d’anni l’esperienza dei Convitti-Scuola della Rinascita si concluse istituzionalmente ma lo spirito originario di coloro che l’avevano vissuta fu poi trasferito nei luoghi in cui cominciarono a svolgere la loro attività professionale con lo stesso spirito di iniziativa, con l’entusiasmo, la voglia di cambiare, con il rapporto democratico, il senso profondo di giustizia che avevano sviluppato in quegli anni di attività comune. Un patrimonio – ha sottolineato Nunzia Augeri – che discende direttamente dai momenti più luminosi della Resistenza e che costituisce un’eredità civile e morale che i protagonisti di quel tempo hanno mantenuto vivo e hanno cercato di trasmettere alle nuove generazioni.  Fra i circa 5.000 giovani che si avvicendarono nei Convitti, vanno ricordati i nomi, noti a livello nazionale, dell’attore Gianrico Tedeschi, del fotografo Uliano Lucas, del cantautore Ivan Della Mea, del docente universitario Guido Petter; o altri noti a livello locale, come Pasquale Maullini, che fu sindaco di Omegna per cinque mandati consecutivi, o l’avvocato Rolando Menotti di Milano.

Mario Alighiero Manacorda e il convitto Giaime Pintor di Roma

Alla fine del 1945, ovvero in piena espansione del movimento dei Convitti-Scuola, Luciano Raimondi contattò Manacorda che allora si stava occupando dell’Unione degli Intellettuali Italiani. Questi si attivò per dar vita anche a Roma ad un’esperienza simile a quella milanese. Nella primavera del ’46 Manacorda, con l’aiuto dell’ANPI e del PCI a cui aveva aderito da poco, riesce ad ottenere come sede la Casa del Partigiano (ex Casa del Reduce) accanto alla sede dell’ANPI. Con il giovane pedagogista c’erano altre persone il cui apporto sarà giudicato dallo stesso Manacorda preziosissimo: un economo, un portiere, un cuoco e una professoressa di materie letterarie dai capelli grigi, Mariù Cordella, che dopo essersi guardata intorno prese una scopa e si mise al lavoro insieme al portiere. «Non ero più solo!» raccontò Manacorda. E così ebbe inizio l’avventura pedagogica del Convitto-Scuola romano intitolato a Giaime Pintor intellettuale e partigiano romano morto  a soli 24 anni, dilaniato da una mina che l'esercito tedesco aveva lasciato in Molise lungo la linea del Volturno.

In più di un’occasione Manacorda ha ricordato l’esperienza dei Convitto di Roma e dei convitti in genere. A tal proposito va ricordata l’intervista con Angelo Semeraro, Carmela Covato e Paolo Cardoni pubblicata nel volume L’educazione dell’uomo completo e il suo scritto Un minimo poema pedagogico nel secondo dopoguerra dove sosteneva che l’attività del convitto si era ispirata al Poema pedagogico di Makarenko. In un manoscritto del 1947, presente nelle carte del suo archivio, Manacorda sottolinea inoltre che l’esigenza primaria di dar vita a questa esperienza pedagogica era dettata dalla necessità di far recuperare ai reduci e agli ex partigiani gli anni perduti a causa della guerra finalizzati alla loro riabilitazione al lavoro e alla loro rieducazione democratica. Un impegno non di poco conto se si consideravano le condizioni iniziali con cui si operava: un tavolo, qualche sedia rotta, qualche sgabello: una casa di solida struttura e decorosa, ma resa pressoché inabitabile […] sporcizia, abbandono, squallore. Il Convitto nasceva così senza alcuna garanzia di futuro e per di più sconosciuto alla maggior parte della cittadinanza. Con un bando di concorso vennero chiamati a raccolta partigiani e reduci che cominciarono ad arrivare stanchi per il viaggio e affamati nella speranza di trovare un possibile futuro. Si dovettero, pertanto, affrontare prioritariamente i problemi legati al loro sostentamento, alla loro sistemazione, alle condizioni igieniche e alle attrezzature. Grazie ad un ufficiale dell’esercito inglese che nella vita civile era un pedagogista vennero procurati militareschi tavoloni e altre suppellettili primarie.

Ma servivano aiuti ben più consistenti per avviare un’iniziativa del genere. Manacorda dovette fare  ore di anticamera al Ministero dell’Assistenza postbellica, fino a quando Roberto Battaglia, il futuro storico che lavorava lì come impiegato, gli mostrò una circolare riservata di un alto funzionario, indirizzata ai dirigenti dei servizi, nella quale si diceva che a Roma si stava costituendo un convitto, in cui preside e professori erano tutti comunisti; i funzionari dovranno quindi fare molte promesse, ma «senza concedere alcuna sovvenzione, e soprattutto senza arrivare alla firma di una Convenzione per la regolarizzazione del Convitto». Stando così le cose Manacorda si rivolse direttamente a Emilio Sereni, ministro del citato dicastero appena subentrato al demolaburista Cevolotto, ottenendo uno stanziamento di 200.000 lire. Dopo di che era necessario dotare la struttura di un corpo docente che si aggiungesse a lui stesso e Mariù Cordella che coprivano il versante letterario. Per i corsi di matematica coinvolse un altro intellettuale comunista, Lucio Lombardo Radice, mentre per gli altri insegnamenti si rivolse alle associazioni professionali. L’Unione matematica italiana gli segnalò Liliana Gilli, l’Unione degli insegnanti di lingua straniera gli indicò Onello Onelli, l’Azione cattolica la professoressa Magrini per le scienze. Accanto ai corsi di cultura generale, avendo molti convittori optato per l’edilizia come sbocco professionale, Manacorda dovette immaginare corsi ad hoc, cosicché si rivolse all’Unione architetti, dalla quale ottenne la collaborazione del socialdemocratico Ludovico Quaroni, «uno dei migliori architetti d’Italia». 

Il 15 luglio 1946 ebbero inizio i corsi con quasi un centinaio di allievi dai 16 ai 26 anni tra universitari, aspiranti geometri, disegnatori edili e pubblicitari e falegnami di diverse aspirazioni e politiche tenuti assieme da una spirito solidaristico che faceva mettere da parte qualsivoglia divergenza. Convivevano in quell’esperienza comunisti, anarchici, cattolici, repubblicani e altri tutti disposti a collaborare per l’autodisciplina, accettati di buon grado da tutto il personale, dai docenti e dai discenti. Nella concezione di Manacorda, il Convitto, oltre che un luogo di studio, era anche una palestra di democrazia, una sorta di piccola polis, di città ideale in miniatura, in cui il lavoro teorico e di apprendimento procede di pari passo col lavoro pratico, la cura condivisa delle esigenze quotidiane del collettivo, e dunque con l’autogestione della struttura e il suo autogoverno democratico. Una democrazia organizzata, con i suoi organismi: Assemblea generale, Comitato direttivo e Commissione giudiziaria fondata sulla distinzione dei tre poteri: legislativo, esecutivo e giudiziario, gestiti di concerto dagli allievi assieme al preside e al Consiglio dei professori. Gli studenti erano tutti responsabilizzati: per ogni camera veniva eletto un «capo-camera, responsabile dell’ordine, della pulizia», del rispetto degli orari; per ogni corso “un capo corso”. Vi erano poi un responsabile della mensa e alcuni infermieri volontari che coadiuvavano il medico.  Ogni allievo era tenuto a dare la sua opera per l’organizzazione del convitto, iscrivendosi all’attività che riteneva più confacente alle proprie attitudini. L’attività era suddivisa in cinque sezioni di lavoro, composte dagli allievi e facenti capo ciascuna a un componente del direttivo: «l’organizzazione interna»; la «didattica» che cura la preparazione dei corsi; «la sezione culturale», che promuove invece incontri con relatori esterni, visite a musei, ma cura anche la «stampa e propaganda», la quale trova la sua prima espressione nel «giornale murale» realizzato da professori e allievi. Vi era ancora la «sezione rapporti con l’esterno», che aveva il compito gravosissimo ed essenziale alle origini, quando si trattava di imporre l’esistenza del Convitto di fronte all’opinione pubblica e ai Ministeri, di richiedere ovunque mezzi di vita e che di seguito avrebbe curato le relazioni con la burocrazia pubblica, in vista della «creazione di cantieri scuola», dove il rapporto tra formazione e lavoro doveva essere diretto e immediato. E infine la «sezione Finanze», che si occupava dei bilanci comunque erano gli studenti a gestirne l’attività.

In quell’estate Manacorda insieme allo psichiatra Giovanni Bollea seguì un corso internazionale per pedagogisti a Losanna dove in particolare ebbe l’opportunità di imparare a trattare con chi aveva avuto traumi psichici a causa della guerra. Da questa esperienza si convinse della necessità di vivere con i ragazzi e discutere con loro in tutti i momenti della giornata il che comportò di conseguenza il trasferimento con sua moglie direttamente nel Convitto per una vita in comune: scuola al mattino, studio libero, molte riunioni, un po’ di sport, d’estate poi il cinema, visto che l’ANPI aveva affittato il cortile fra le due palazzine dove c’era un cinema all’aperto.  Naturalmente c’erano le assemblee, le decisioni da prendere collegialmente, lo scambio di esperienze reciproche sulla vita passata.  Era un vivere con i convittori in un intreccio costante tra lavoro e il vivere quotidiano.

Accanto ai corsi di cultura generale e a quelli professionali per geometri, Manacorda sperimentò iniziative didattiche nuove finalizzate ad altri sbocchi, che caratterizzeranno il convitto romano, come il corso di lingue e turismo e di arti figurative e pubblicitarie affidato al famoso cartellonista svizzero Hugo Blätter.  Ben presto il Convitto- Scuola Pintor cominciò ad essere frequentato anche dai ragazzi di borgata ai quali la stessa Anna Maria Manacorda insegnava a leggere e scrivere. Il modello di Makarenko prendeva così progressivamente corpo con le specifiche sfaccettature del caso così come il modo di rapportarsi con gli allievi con i quali Manacorda sperimentava nuove modalità educative, che puntavano realmente sull’autodisciplina e sul senso di responsabilità piuttosto che su un insieme di norme imposte dall’esterno. Del resto per lo stesso Manacorda l’esperienza del Convitto fu un momento formativo significativo proprio per via del rapporto tra prassi/teoria/prassi che giorno dopo giorno andava a concretizzarsi.

I convittori del Pintor erano diventati 120, ossia circa 1/10 del totale degli allievi degli altri Convitti Rinascita operanti in Italia. Viste le caratteristiche che stava assumendo la struttura romana Manacorda decise che fosse giunta l’ora di fare un ulteriore passo in avanti. Chiese, quindi, un colloquio al nuovo ministro della Pubblica istruzione, il democristiano Guido Gonella con l’intento di ottenere il riconoscimento della validità dei titoli di studio rilasciati dai Convitti. Questi lo ricevette con disaccata freddezza tanto da far risultare l’incontro del tutto evanescente e da ignorare totalmente richiesta. Era il segno evidente di un clima decisamente ostile nel sostenere le iniziative tese a sviluppare quel movimento perché ritenuto un covo di comunisti da boicottare in ogni modo.

Poco dopo, nel corso di quel 1947, Manacorda, sempre più assorbito dagli impegni di partito relativi al lavoro culturale, dovette lasciare la direzione del Convitto romano a favore di Lucio Lombardo Radice, al quale seguirà successivamente il prof. Lucchetta ultimo direttore. Del resto, si era ormai già nella fase di rottura dell’unità antifascista e all’inizio della guerra fredda, i Convitti Rinascita furono oggetto di attacco da parte di tutti i governi dell’epoca. L’offensiva si accentuerà dopo le elezioni del 18 aprile. Le ispezioni governative iniziarono a moltiplicarsi assieme a campagne stampa aggressive e tendenziose. L’interruzione delle convenzioni nel 1949 e la cessazione definitiva dei finanziamenti nel 1952 segnarono il declino inesorabile di quell’esperienza. Il Convitto-Scuola Giaime Pintor al pari delle altre istituzioni consorelle entrò in piena crisi e cessò definitivamente la sua attività nel 1949. Alcune istituzioni resistettero ancora per qualche anno. Nel ’57 avevano ormai chiuso tutti, tranne quello di Milano, che a seguito di una lunga battaglia ottenne il riconoscimento di scuola media pubblica che prese il nome di Istituto “Amleto Livi”.

 Le novità di questa esperienza, ha scritto Lucio Lombardo Radice, furono essenzialmente due: il «rapporto istruzione-lavoro» e la «creazione di un “collettivo” democratico» in grado di autogovernarsi. Il valore paradigmatico di questa bellissima avventura è stato così ricordato dallo stesso Manacorda nel finale di un suo scritto: «Così convivono centoventi giovani: non è, certo, una società perfetta, ideale; è però una società che ha retto finora a prove ben dure, ad alti e bassi di speranze e di delusioni […] una società che, nata dal caos e dalla miseria, s’è costruita una vita in certo modo sicura; una società che, composta di giovani parla una parola di serenità e di lavoro; una società che […] precorre i tempi e porta l’esempio d’una vita migliore». In un successivo articolo per il giornale Educazione Sociale, Manacorda sintetizzò le acquisizioni del percorso dei Convitti-Scuola per partigiani e reduci, indicandone le principali innovazioni nei programmi di studio, nella «democraticità dei rapporti intercorrenti tra docenti e discepoli», nella nuova «abitudine […] di partecipare come membro pienamente cosciente alla vita di una comunità democratica, in cui tutti sono chiamati alla loro parte di lavoro e di responsabilità».

I Convitti-Scuola della Rinascita: un germe di futuro

L’esperienza dei Convitti-Scuola della Rinascita nelle sue luci ed ombre è da considerarsi complessivamente come «uno degli esempi insieme più conseguenti, più concreti e più estesi di democratizzazione della scuola» e in prospettiva della società italiana dove tutte le strutture coinvolte che affiancano quell’esperienza  intrecciano lo studio teorico con l’applicazione pratica, offrendo  la possibilità di una preparazione professionale moderna e concreta, un’esperienza che doveva essere generalizzata, valorizzata e istituzionalizzata piuttosto che boicottata e contrastata. 

Nella esperienza dei Convitti Rinascita, oltre alla lezione della Resistenza, si può intravedere l’anticipazione di percorsi che si svilupperanno in particolare negli anni Sessanta e Settanta: un germe di futuro, di quella Italia rinnovata, libera e solidale, che i comunisti e le altre forze protagoniste della Resistenza avevano posto come obiettivo della lotta di liberazione e che rimarrà la prospettiva per la quale Manacorda si impegnerà durante tutta la sua vita. D’altra parte, nella impostazione dei Convitti non è difficile intravedere quell’approccio pedagogico marxiano e gramsciano di una scuola unica iniziale umanistica che nel suo dipanarsi realizzi un intreccio strettissimo tra scuola e lavoro finalizzato alla formazione “dell’uomo nuovo” fondata sul rigoroso impegno e sulla libertà. Una finalità a cui Manacorda dedicherà molto del suo lavoro di studioso.

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Massimo Mari