La rivista

Dibattito pedagogico

Riflessioni sulla storia silente delle donne

Premessa

L’intento di questo articolo è quello di mettere in evidenza il ruolo fondamentale di un’educazione interculturale che, al fine di contrastare l’odio sempre più diffuso nella società moderna, sappia educare all’accoglienza delle differenze (Pinto Minerva, 2002), affondando le proprie radici nei Diritti Umani. Una delle espressioni più terribili di quest’odio è rappresentata dalla violenza di genere, conseguenza di una mentalità patriarcale che resiste non solo in Paesi arretrati, ma anche all’interno di realtà socioculturali apparentemente evolute, divenendo ostacolo ai processi d’inclusione (Fiorucci, Pinto Minerva, Portera, 2020).

La necessità di forme d’intervento efficaci a contrastare questo fenomeno è una riflessione che coinvolge tutte le agenzie educative, formali e non formali, nonché il mondo della comunicazione, dell’arte, dello spettacolo, della formazione e della politica. Tali settori della società, insieme alla scuola e alla famiglia, rivestono un ruolo educante, anche se, troppo spesso, si rileva una perdita di consapevolezza in ordine a tale ruolo che mette a rischio il valore stesso della democrazia e, in particolare le pari opportunità (Santerini, 2021).

Per mettere in risalto l’importanza di un percorso educativo e formativo che tenga conto della formazione di una cittadinanza attiva, nel 2017, il MIUR ha emanato le Linee Guida Nazionali per l’attuazione del comma 16 dell’art.1 della Legge 107 del 2015. Attraverso di esse, si è voluto rimarcare non solo il valore fondamentale della conoscenza, ma anche la necessità di valorizzare la dimensione emotiva e relazionale delle giovani studentesse e dei giovani studenti. Nonostante tale intervento normativo, è innegabile che la strada che conduce alla valorizzazione delle differenze di genere e, più in generale, di tutte le diversità quali risorse e ricchezza per l’umanità (Morin, 2017) è ancora lunga e tortuosa, se si considera che, solo nel nostro paese, ogni anno, sono ancora numerose le donne che perdono la vita per mano di un uomo.

Durante la pandemia da Covid-19, addirittura, si è registrato un aumento dei casi di violenza contro le donne, dovuto, in particolare al confinamento nelle mura domestiche e all’impossibilità di accedere alle reti socioassistenziali che operano sui territori per contrastare tale fenomeno (Istat, 2021).

La violenza di genere nel panorama internazionale

La comunità internazionale ha iniziato a osservare sistematicamente il problema della violenza contro le donne solo a partire dai primi anni ’90. Infatti, le definizioni internazionali di violenza contro le donne sono il frutto di un lungo percorso storico composto da diverse tappe (Bonura, 2016). Ciò accade soprattutto perché molte delle violenze perpetrate a danno delle donne insite in diverse culture sono considerate normali. Per meglio comprendere questo aspetto basti pensare allo stupro che, in molti paesi, viene utilizzato come arma di guerra (Santerini, 2021). La prima definizione riconosciuta a livello internazionale di violenza nei confronti delle donne come di un atto fondato sul genere risale al 1993. L’art.1 della Dichiarazione delle Nazioni Unite sull’eliminazione della violenza maschile contro le donne definisce violenza contro le donne:

«Ogni atto di violenza fondato sul genere che comporti o possa comportare per la donna danno o sofferenza fisica, psicologica o sessuale, includendo la minaccia di questi atti, le coercizioni o privazioni arbitrarie della libertà, che avvengono nel corso della vita pubblica o privata».

Il concetto di “genere” trova la sua massima espressione nella Convenzione di Istanbul (2011)[1], dove, all’art. 3, viene intesa come una «violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere». Il termine “genere”, nel caso specifico viene definito come l’insieme delle aspettative sociali, dei ruoli, dei comportamenti e delle attività che una data società considera appropriati per uomini e donne.

All’interno della Convenzione di Istanbul la violenza non è più considerata una questione “privata” ma diviene un tema “pubblico” riconoscendone il carattere strutturale rintracciabile nelle diseguaglianze sociali esistenti fra uomini e donne in relazione al potere, alle opportunità e alla rappresentazione simbolica e politica; nelle differenti aspettative esistenti nei confronti di bambine e bambini e nella normalizzazione e tolleranza sociale di forme più o meno evidenti di prevaricazione nei confronti del genere femminile (Bonura, 2016). Se la locuzione “violenza di genere” riguarda, quindi, la violenza nei confronti di una donna perché donna, è altrettanto rilevante l’uso del termine femminicidio, introdotto dalla sociologa Diana Russel (1992) per definire l’uccisione di una donna in quanto donna da parte di un uomo. Il femminicidio rappresenta l’ultimo atto di un continuum di violenze che possono assumere forme diverse ma che hanno lo scopo di provocare l’annientamento fisico e psichico della donna. Per comprendere meglio le cause dalle quali trae origine il fenomeno della violenza di genere è opportuno, dunque, ripercorrere alcuni tratti della storia silente delle donne.

Violenza ed esclusione, fenomeni antichi

La violenza di genere è un fenomeno, presente da sempre, che riguarda tutto il mondo e colpisce sia gli Stati più evoluti sia le aeree più arretrate del mondo. Nonostante ciò, tale fenomeno, è rimasto silente per moltissimi secoli perché ritenuto connaturato con la tradizione, con i valori dominanti e con le leggi, come se tale crudeltà rivolta alle donne fosse considerata alla stregua di un fenomeno naturale (Romito, 2000). Infatti, basta considerare che, nell’ordinamento italiano, il delitto d’ onore è stato abrogato solo a partire dal 1981 e che la potestà genitoriale ha sostituito la patria potestà solo con la riforma del diritto di famiglia avvenuta nel 1975, grazie alla quale le figure del padre e della madre venivano equiparate per doveri e dignità (Ungari, 2002) anche se l’art. 29 della Costituzione Italiana già nel 1947 dichiarava che:

«La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull'uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare».

È evidente come, nonostante l’uguaglianza sancita dalla Costituzione, anche nel periodo post costituzionale le donne abbiano continuato a subire limitazioni alla loro libertà, relegate a una condizione di inferiorità tale da renderle le grandi assenti nella storia dell’umanità. Questo, non perché le donne non elaborassero teorie nei vari campi del sapere, non perché non avessero le capacità per incidere nella società, ma perché la cultura dominante le aveva rese oggetti a disposizione degli uomini: dei padri, dei mariti, dei fratelli e persino dei figli, nonostante nell’art. 3 della Costituzione Italiana (Clemente, Cuocolo, Rosa, Vigevani, 2018), si contemplasse la loro inclusione e l’inclusione nella società di tutte le diversità e/o le minoranze. Infatti, tale articolo recita:

«Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».

Decenni prima, la Legge Casati del 1859, sancì il diritto all’istruzione elementare e si occupò dell’organizzazione dell’istruzione superiore per entrambi i sessi, anche se, nella sua attuazione, non fu affatto efficace in quanto vennero differenziati i contenuti dei percorsi di studi, escludendo le donne dalla possibilità di accedere ai ruoli di maggiore prestigio sociale (Daniele, 2018).

A tal proposito, è fondamentale sottolineare come, nonostante in Italia le università fossero accessibili alle donne già dal 1875, grazie ai decreti a firma di Ruggero Bonghi e Michele Coppino, che sancirono per le ragazze la possibilità di iscriversi all’università alle stesse condizioni degli uomini e di frequentare a tutti gli effetti le lezioni accademiche, era tuttavia molto raro che una donna si iscrivesse, perché le veniva consigliato di lasciar perdere e di fare un passo indietro rispetto all’uomo, considerato più adatto alla vita pubblica (Martini, Sorba, 2021).

Sophia Jex Blake e il sogno di diventare medico

Vi erano carriere che venivano drasticamente proibite alle donne. A tal proposito possiamo citare il caso della studentessa inglese Sophia Jex Blake e le sue sei compagne di università, divenute note come le sette di Edimburgo che, nel 1869, vennero aggredite con lancio di fango e fischi dai loro colleghi universitari che volevano tenerle lontane dall’aula di anatomia, perché considerate non adeguate alla professione medica.

Sophia e le sue compagne avevano un’unica colpa: volevano frequentare la facoltà di medicina di Edimburgo per diventare medici. La loro era considerata un’impudenza, un atto di sfida da punire con l’aggressione, perché all’epoca le donne potevano diventare solo infermiere, dare conforto agli ammalati, svolgere dunque un ruolo di cura, ma non potevano e non dovevano pretendere di entrare a far parte della saggezza medica, dominata dall’universo maschile. Le sette di Edimburgo avevano deciso di sfidare l’arroganza di un mondo dominato dal patriarcato rivendicando il proprio diritto all’istruzione superiore e alle professioni considerate appannaggio dei soli uomini.

Nel 1867 l’Università di Londra fu la prima al mondo a consentire l’iscrizione alle donne presso facoltà di medicina ma, alla fine del percorso, le studentesse ricevevano un certificato di conoscenza invece che una vera laurea, e ciò, naturalmente, non consentiva il loro accesso alla professione di medico.

Le studentesse di Edimburgo furono, dunque, le prime immatricolate regolarmente in un’università britannica. La loro fu una storia di fallimenti e successi inattesi, solo perché avevano osato fare una semplice richiesta a un mondo ostile dominato dagli uomini: quella di entrare a pieno titolo nelle carriere di prestigio (Lewis, 2020).

Maria Federici e la battaglia per l’accesso alla magistratura

Nel nostro paese l'art. 51 della Costituzione prevede che:

«Tutti i cittadini dell'uno o dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini».

Eppure, per le donne la partecipazione attiva alla vita pubblica e l’effettiva parità sociale furono il frutto di un percorso sofferto e faticoso. A testimonianza di ciò, è interessante citare le posizioni contrarie emerse nel dibattito all’Assemblea costituente dove alcuni deputati, nel corso della seduta del 20 settembre 1946, sostennero che, nella magistratura, l’uguaglianza non dovesse essere garantita, essendo noto, a partire dal diritto romano, che la donna, in alcuni periodi della sua vita, non possiede piena capacità di lavoro. Infatti, secondo le idee dominanti del tempo, le donne erano eccessivamente emotive e poco razionali per svolgere determinate professioni, per le quali erano ritenuti più adeguati gli uomini perché più capaci di mantenere un equilibrio nelle decisioni importanti e dunque più adatti alla carriera di magistrati.

Nell’articolo di Stefania Scarponi (2019), intitolato L’art. 51 della Costituzione e l’accesso delle donne ai pubblici uffici e al lavoro nel settore pubblico, si legge che a opporsi a tali affermazioni, che di fatto impedivano l’applicazione effettiva dell’art. 51, fu proprio una donna, l’Onorevole Maria Federici, che, nella seduta del 26 novembre del 1947, sfidò i suoi colleghi affermando che:

«A tutto quanto è stato detto, io potrei rispondere che una raffinata sensibilità, una pronta intuizione, un cuore più sensibile alle sofferenze umane e un’esperienza maggiore del dolore non sono requisiti che possano nuocere, sono requisiti preziosi che possono agevolare l’amministrazione della giustizia. Potrei rispondere che le donne avranno la possibilità di fare rilevare attraverso un lungo tirocinio la loro capacità; saranno sottomesse e sottoposte ai concorsi e a una rigida selezione. Le donne che si presenteranno a chiedere di salire i gradi della Magistratura devono avere in partenza (e li avranno) i requisiti che possono dare loro una certa garanzia di successo». (pp.344-356).

Nonostante l’intervento dell’Onorevole Federici, il discorso sulle attitudini delle donne per lo svolgimento di certe carriere influenzò le prime decisioni dei giudici rimandando l’effettiva applicazione del principio costituzionale.

Simone de Beauvoir: il secondo sesso

In tutti i campi del sapere, le donne dovettero farsi valere. Nell’introduzione del libro Il secondo sesso (1949), la filosofa francese Simone de Beauvoir affronta il tema della discriminazione di genere con tagliente lucidità, mettendo in risalto che le differenze tra uomo e donna, che hanno segnato il destino subalterno del femminile, hanno radici profonde e sopravvivono nel nostro quotidiano tanto da farne parte come idee dominanti. La de Beauvoir afferma:

«Un uomo non comincia mai col classificarsi come un individuo di un certo sesso: che sia uomo è sottointeso. […] L’uomo rappresenta insieme il positivo e il negativo al punto che diciamo gli uomini per indicare gli esseri umani, poiché il senso singolare della parola vir essendosi assimilato al senso generale della parola homo. La donna invece appare come il solo negativo […] si determina e si differenzia in relazione all’uomo, non l’uomo in relazione a lei; è l’inessenziale di fronte all’essenziale. Egli è il Soggetto, l’Assoluto: lei è l’Altro (pp. 14-15)».

In queste parole emerge quanto l’identità femminile sia ancora troppo intrappolata in una cultura patriarcale, nella quale la figura dell’uomo sovrasta la scena mentre la donna viene costretta a una vita da prigioniera.

Simone de Beauvoir, per descrivere la condizione femminile, utilizzò come metafora l’harem, un luogo in cui le donne vivevano sottomesse agli uomini con l’unico scopo di soddisfare i loro piaceri e la loro grandezza. Infatti, nell’harem, erano completamente asservite, private della libertà di perseguire propri progetti, di avere dei desideri e, soprattutto di sviluppare la propria identità di donne. L’identità femminile, dunque, si forma a partire dal maschile, è percepita, nell’immaginario collettivo come l’opposto del maschile e/o peggio ancora, come il suo negativo.

Prova ne è che la stessa filosofa parigina, pur avendo scritto molte opere sulla filosofia esistenzialista, viene ricordata maggiormente per essere stata la compagna di uno dei filosofi più famosi del XX secolo, Jean Paul Sartre, tant’è che, oltre a essere messa in ombra dal peso socioculturale del suo compagno, venne anche descritta come colei che aveva applicato la filosofia di Sartre alle proprie opere. A scagionare la de Beauvoir da tali accuse furono i suoi diari scritti prima di incontrare Sartre, ritrovati e pubblicati in lingua francese nel 2008 (Kirkpatrick, 2020).

Essere donne, dunque, significava accettare il peso dei “miti femminili” atavici, imposti dall’esterno, nei quali era stabilito come una donna doveva essere e realizzarsi. Tutto ciò implicava una scissione tra la ricerca della propria libertà e la necessità di aderire a ciò che veniva imposto, per non sentirsi colpevoli. Essere donne era una condanna a uno stato d’inferiorità perché significava sognare, pensare e vivere attraverso gli uomini. Se per l’uomo l’amore era una parte della vita, per la donna, in base ai miti diffusi, l’amore costituiva la vita stessa e ciò prevedeva che le donne dovessero realizzarsi attraverso il matrimonio e la maternità.

Il ruolo delle donne nella Repubblica di Platone

Dopo aver raccontato le storie di donne che tra l’800 e l’900 lottarono per conquistare pari dignità rispetto agli uomini, è sorprendente ritrovare nel libro V della Repubblica di Platone una prospettiva, a tratti rivoluzionaria, della donna. Infatti, secondo il filosofo greco, la donna era ritenuta in grado di partecipare sia alla vita pubblica sia al bene dello Stato. Le parole di Platone destano stupore quando afferma che:

«non c’è alcuna pubblica funzione che sia riservata alla donna in quanto donna, o all’uomo in quanto uomo, ma fra i due sessi la natura ha distribuito equamente le attitudini, cosicché la donna, appunto per la sua natura, può svolgere tutti gli stessi compiti che svolge l’uomo […]»

Secondo Platone, dunque, non esistono reali differenze tra uomini e donne perché anche le donne potevano essere scelte per governare la città stato ideale, in quanto, per loro natura, erano predisposte e capaci di ricoprire tale ruolo. Ciò che rendeva differenti uomini e donne e che doveva essere messo in discussione, secondo Platone, era il metodo educativo, che doveva essere simile sia per la donna sia per l’uomo. Sempre nel libro V della Repubblica, infatti, si arriva a definire una vera e propria regola pedagogica secondo la quale uomini e donne posseggono la medesima natura ed è per questo che entrambi devono essere educati alla difesa della città Stato.

Platone, dunque, riflette proprio sul ruolo dell’educazione e su come sia proprio la differenziazione dei percorsi a sancire le differenze tra uomo e donna. Tali differenze non sarebbero dunque legate a un’inferiorità cognitiva della donna ma solo alle convenzioni che, dopo essersi radicate e sedimentate nella storia attraverso la diffusione di miti sul femminile, sono diventati veri ostacoli alla affermazione della sua identità.

Conclusioni

Sicuramente, pensare alla scuola come luogo deputato alla formazione del pensiero critico per contrastare l’odio e la violenza di genere è fondamentale, ma solo se si considera che la scuola contemporanea opera in un ambiente sociale che muta rapidamente e che la complessità del nostro tempo porta con sé una consapevolezza necessaria: la conoscenza e lo sviluppo sono fondamentali per l’umanità, non solo per garantire la crescita economica, ma, soprattutto, per consentire agli esseri umani di migliorare le relazioni coi propri simili (Ulivieri, 2015).

La scuola, che può farsi interprete dei modelli pedagogici, capaci di approfondire riflessioni critiche e incidere sull’educazioni delle giovani generazioni, non può essere quella delle sovrapposizioni normative, spesso generate da politiche scolastiche di discontinuità, mancanti di consapevolezza storica e coscienza critica, perché distanti dalla realtà quotidiana e/o perché incapaci di intercettare un principio unitario, interamente coerente con la complessità sociale dei singoli territori, ma è quella autentica, in cui le differenze si raccontano e si scoprono all’interno di un processo narrativo spontaneo (Baldacci, 2019). In questa prospettiva, la scuola che può contrastare il fenomeno della violenza di genere e dell’odio diffuso contro la diversità è quella che ha il coraggio di schierarsi, che non si astiene e che sceglie di costruire nuovi percorsi formativi, dinamici e partecipati, che tengano conto dei temi prioritari da affrontare anche se questi mettono in crisi valori tradizionali.

Per sconfiggere la violenza non è sufficiente l’inserimento dell’ora di educazione sentimentale come materia curricolare, soluzione piuttosto inadeguata a risolvere un problema complesso e radicato nella cultura dominante, ma è, invece, necessario restituire alle donne presenza in tutti i campi del sapere, a partire dai libri di testo e dai programmi di studio, per fare in modo che l’identità femminile non venga considerata un universo separato che coesiste all’interno di un mondo maschile e dominante. Dare peso alla storia, introducendo nei percorsi di studio le donne come parte integrante, attiva e partecipe ai processi di trasformazione ed evoluzione delle società, potrebbe senz’altro fare la differenza, conferendo dignità a quella storia silente consolidatasi nel tempo a danno dell’immagine sociale della donna. Solo così si potrà segnare la nascita di una cittadinanza globale in grado di coinvolgere tutti gli esseri umani senza alcuna distinzione di genere.

Bibliografia

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Legge del 13 luglio 2015, n. 107 https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2015/07/15/15G00122/sg
Legge n. 3725 del 13 novembre 1859 (Legge Casati)
Lewis, H. (2021) Donne difficili. Storie del femminismo in 11 battaglie. Milano: Blackie Edizioni.
Martini, A., Sorba, C. (a cura) (2021). L'università delle donne. Accademiche e studentesse dal ‘600 ad oggi. Roma: Donzelli Edizioni.
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Ulivieri, S. (2015). La mission sociale dell'educazione e della scuola. In Insegnare nella società complessa. Pegagogia Oggi, vol. 2/2015, pp. 13-20. Lecce: Pensamultimedia.
Violi, P. (2015). Femminicidio, una nuova emergenza? In Femminismi: teoria, critica e letteratura nell’Italia degli anni 2000. Narrativa 37/2015 pp. 67-78. https://doi.org/10.4000/narrativa.978


[1] La Convenzione è entrata in vigore il 1° agosto 2014, ratificata solo da dieci Stati. La Convenzione del Consiglio d'Europa è stata approvata dal Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa il 7 aprile 2011 e aperta alla firma l'11 maggio 2011 a Istanbul, tra i paesi firmatari anche l’Italia https://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/17/DOSSIER/0/750635/index.html?part=dossier_dossier1-sezione_sezione2-h2_h22 (ultimo accesso 26/11/2023 ore 21.26)

L'autore

Sabrina Di Giacomo

Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo

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