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SUI GENERIS - Questioni di parità

Le ragazze stanno bene?

«Viviamo in un Paese in cui non servono nemmeno i maschi per essere maschilisti [...] O viene consentita un’educazione alla destrutturazione dei modelli di genere nelle scuole primarie, oppure diventa troppo tardi. E a 16 anni “troia” è già un insulto usato da ragazza contro ragazza. Non c’è bisogno nemmeno del maschio» affermava Michela Murgia commentando il caso Weinstein e le svariate accuse fatte, in modo trasversale da donne e uomini, a Asia Argento successivamente alla sua denuncia e allo scatenarsi del fenomeno #metoo. «La meraviglia del maschilismo è avere delle vittime complici del sistema che le rende vittime. Infatti, ironia della sorte, la persona più maschilista che conosco è di sesso femminile», concludeva la scrittrice.

Quello della violenza di genere è un tema complesso e multiforme. Viene definita dalla Dichiarazione ONU per l’eliminazione della violenza contro le donne del 1993 come “ogni atto di violenza fondata sul genere che abbia come risultato, o che possa probabilmente avere come risultato, un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica per le donne, incluse le minacce di tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, che avvenga nella vita pubblica o privata”. Riferendosi alla violenza di genere si può parlare di violenza fisica, sessuale, psicologica, domestica, economica, persecutoria… Capita, inoltre abbastanza frequentemente, che la violenza risulti nascosta e poco evidente, mimetizzata tra gli intrecci della vita quotidiana, per poi rivelarsi solo nelle situazioni più tragiche, quando si traduce in un femminicidio[1]. Essa nasce, difatti, come qualcosa di normale e normalizzato e solo da qualche decennio a questa parte si opera, dal punto di vista legislativo, affinché diventi completamente perseguibile[2]. In Italia fino al 1996, data di introduzione della Legge 66, Norme contro la violenza sessuale, la violenza nei confronti di una donna rimaneva un fatto privato, molto diffuso e largamente accettato, che risultava, a livello normativo, identificabile come reato contro la morale e non contro la persona, né tantomeno identificato come un problema sociale radicato e intollerabile (non dimentichiamo che in Italia la realtà del delitto d’onore fu abolita solo nel 1981).

Quello della violenza sulle donne è un tema che ricopre le pagine dei giornali non solo per il numero spropositato di femminicidi che si contano dall’inizio dell’anno[3]. “Il patriarcato uccide”, “non è un caso isolato si chiama patriarcato", “lo stupratore non è un malato ma un figlio sano del patriarcato” sono solo alcuni degli slogan riportati nelle tante manifestazioni in occasione dell’ultimo 25 novembre, giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, tenutesi a poche settimane dal femminicidio di Giulia Cecchettin. «Abbiamo sperato tutti che per eliminare la violenza di genere bastasse aspettare un po’, lasciar crescere i giovani uomini e assistere così a un magico cambiamento sociale. L’assassinio di Giulia Cecchettin, però, ha rimescolato tutte queste idee e ci ha mostrato un quadro generale molto più complicato», ha scritto la filosofa Maura Gancitano in un articolo pubblicato su laRepubblica proprio in occasione del 25 novembre[4]. Gli slogan puntano l’attenzione su quanto le violenze di genere non siano eventi sporadici, ma un fenomeno sistemico, che va affrontato in tutta la sua pervasività. È un pensiero che si nasconde dietro le parole, un modo radicato di guardare e agire nel mondo che è tempo di smascherare.

I pregiudizi legati agli stereotipi di genere sono inconsci e spesso vengono veicolati in maniera involontaria e inconsapevole e, ritornando a Michela Murgia, sono il più delle volte le stesse donne a reiterare e consolidare l’immagine del femminile creata dalla cultura patriarcale. Affinché venga progressivamente sradicato questo sistema, facendo luce sulle ragioni storiche-economiche-politiche-sociali che lo hanno alimentato, e si abbattano gli stereotipi di genere è importantissimo affrontare queste tematiche con i giovani.

Le ragazze stanno bene?

Il rispetto dell’identità di genere e il riconoscimento della violenza sono temi di cui si discute quotidianamente in riferimento ai giovani e alla loro educazione affettiva. Tuttavia, come ha specificato durante un’intervista alla nostra redazione la psicologa e psicoterapeuta Anna Oliverio Ferraris «una prima annotazione importante è che nel nostro Paese, contrariamente a quasi tutti gli altri paesi europei, non è prevista una educazione sessuale a scuola che possa raggiungere tutti i giovani, il che spiega una serie di carenze. Molte famiglie, infatti, non forniscono una educazione sentimentale sessuale soddisfacente ai loro figli e figlie. Possono affrontare alcuni temi ma non altri che li imbarazzano e su cui loro stessi hanno le idee confuse o mancano di un vocabolario adeguato. Inoltre la mentalità sessista non è solo trasversale a donne e uomini ma anche transgenerazionale. Continuano a esserci, nel nostro Paese, delle sacche di incultura dove dominano mentalità e pregiudizi della società tradizionale. Il successo del libro “Il mondo al contrario” di Vannacci ne è un esempio. Donne e uomini, che sono stati allevati in famiglie dove la moglie era sottomessa al marito e dove la società non offriva spazi di autonomia o di autorealizzazione alle donne, stentano a trasmettere ai loro figli e figlie una visione paritaria, diversa da quella in cui sono cresciuti essi stessi. Gli apprendimenti infantili sono molto radicati e solo una presa di coscienza può modificarli. A ciò si aggiunga che le televisioni nostrane preferiscono fare spettacolo del sesso piuttosto che parlarne con competenza». Una recente ricerca promossa da Save the Children dal titolo “Le ragazze stanno bene? Indagine sulla violenza di genere onlife in adolescenza”[5] offre dati su cui è importante riflettere. Prima di tutto è bene sottolineare come la ricerca indaghi anche la dimensione online dei giovani, ormai elemento di cui la vita dei ragazzi è completamente permeata, evidenziando come su qualsiasi ambito di riferimento non si possa più fare una netta distinzione tra reale e virtuale. Vivendo con un corpo sempre connesso a un dispositivo digitale i ragazzi sperimentano anche discriminazioni e violenze su due livelli, come nei casi di bullismo e cyberbullismo, ma possono anche riportare nella vita reale quello che vedono nella finzione virtuale. «Nel mondo online c'è molto sesso, anche hard, anche violento nei confronti delle donne (e qualche volta dei bambini), che può dare una visione sbagliata e pericolosa dei rapporti tra i sessi, visione che, ragazzi alle prime esperienze, possono trasferire nel mondo reale. Sappiamo da vari studi che sono sufficienti poche settimane di frequentazione di siti e materiali pornografici hard perché un ragazzino minimizzi lo stupro. Centrati sulla performance e immersi in un clima di provocazione erotica, molti si convincono che per sentirsi a proprio agio bisogna aumentare il numero dei partner e la frequenza dei rapporti e poiché i pornodivi non prendono precauzioni, il preservativo è considerato un optional», prosegue Anna Oliverio Ferraris. I dati prodotti dalla ricerca, pubblicati lo scorso ​​13 febbraio 2024, hanno messo in evidenza diversi aspetti e hanno lanciato dei campanelli d’allarme che non devono essere trascurati, tanto che Save the Children ha lanciato in concomitanza alla pubblicazione del report la campagna #chiamalaVIOLENZA, realizzata con la partecipazione della scrittrice Chiara Tagliaferri e del Movimento Giovani, allo scopo di sensibilizzare i ragazzi e le ragazze a non accettare comportamenti violenti ed aggressivi. Uno dei dati più rilevanti della ricerca riguarda il 30% degli adolescenti che sostiene che la gelosia sia un segno di amore. E al riguardo non possono che venire alla mente i tanti articoli di giornale che, dopo l’episodio di un femminicidio, associano proprio questi due termini, gelosia e amore, radicandoli ancora più nettamente nella coscienza comune. Le parole sono uno strumento potente per plasmare e manipolare. La gelosia si può trasformare così non solo in un movente, ma in un’attenuante che giustifica il femminicida, incolpando la vittima per aver tradito, per “essersela cercata” insomma[6]. «La gelosia è un sentimento frequente nelle relazioni sentimentali, non si tratta di negarla ma di non lasciarsi trascinare: di non travalicare quei confini che salvaguardano l'autonomia delle persone, di non volere impossessarsi del partner come se fosse una proprietà, di non pretendere che lui/lei si conformi, in nome del possesso amoroso, ai propri impulsi e desideri. I gelosi che non riescono a controllare le proprie emozioni sono poco abituati a riflettere, sono quindi più propensi a passare all'atto, ossia alla costrizione e alla violenza. Per questo serve una buona educazione sessuale-sentimentale che spieghi, tra l'altro, quanto sia importante non dare per scontato il consenso, ma verificare di volta in volta, anche all'interno di una relazione stabile, la disponibilità di entrambi al rapporto fisico», prosegue Anna Oliverio Ferraris parlando di gelosia e consenso.

Tra gli altri dati da segnalare: il 19% di chi ha avuto una relazione dichiara di essere stato spaventato dal partner con atteggiamenti violenti; il 29% degli intervistati sostiene che l’abbigliamento di una ragazza possa contribuire a provocare una violenza sessuale.  «L'abbigliamento esprime qualcosa di sé ma è anche una forma di comunicazione. Può succedere che un vestito molto sexy o succinto attiri l'attenzione dei maschi e venga da alcuni interpretato come un segnale di accesso. Ciò non giustifica, ovviamente, la violenza. Una ragazza deve però realisticamente comprendere che ci sono in circolazione persone male intenzionate. Analoga riflessione va fatta per immagini intime – consensuali o non consensuali – postate sui social: una volta messe in rete (online) è difficile controllarne il percorso. Parecchie donne e ragazze si sono suicidate a seguito di questo tipo di esposizione», i commenti di Anna Oliverio Ferraris rimarcarcano ancora di più la condizione di non libertà in cui si continua a trovare la donna oggi, soprattutto in riferimento a tutto quello che ha a che fare con l’esteriorità e l’esternalizzazione: quando deve scegliere come vestirsi una donna deve pensare a come verrà percepita dagli altri e quanti problemi il suo abito potrà procurargli, non vale lo stesso per un uomo. Inoltre, l’atteggiamento di colpevolizzazione della vittima è sempre più frequente, con pesanti conseguenze a livello psicologico che possono sfociare in azioni estreme.  «La vittima viene spesso colpevolizzata per salvare il colpevole. Naturalmente questa prassi rende la vittima, vittima due volte: crea insicurezza, paura, senso di vergogna, perdita di autostima. Può anche accadere che siccome gli altri la considerano colpevole, la vittima finisca per sentirsi tale o comunque violata e "sporca" e, anche, che non riesca più ad avere un rapporto sereno con il proprio corpo e la propria sessualità».

La scuola, il luogo da cui (ri)partire

Unico dato positivo emerso dalla ricerca è l’aumento di interesse dei giovani sulle tematiche di genere e la loro voglia di essere coinvolti dalla scuola. I ragazzi, infatti, sembrano riconoscere nella scuola un punto di riferimento, sia come soggetto deputato all'educazione di genere sia come luogo di ascolto. «La scuola può fare molto nello smontare la minimizzazione della violenza di genere e dei comportamenti sessisti. Ha vari strumenti a disposizione, ad iniziare dalla buona letteratura italiana e straniera, la filosofia, la psicologia. Già nella scuola materna è possibile orientare i bambini a considerare le differenze di genere come un aspetto della variabilità umana del tutto legittimo, come tante altre differenze individuali. In seguito come indicano le Linee Guida Europee (in Anna Oliverio Ferraris, "Tuo figlio e il sesso", Bur) si approfondiscono aspetti conoscitivi, sentimentali, sessuali e relazionali legati al benessere e alla salute, si parla di diritti, di rischi, di consapevolezza e di libertà nelle decisioni. Alcune tematiche sono tipiche di una determinata età, altre invece vengono affrontate più volte nel corso della crescita allo scopo di approfondire le conoscenze. Partendo dal convincimento che una decisione non può essere libera se non è consapevole. Con i più grandi serve anche commentare insieme fatti di cronaca o vicende storiche, come quella di Franca Viola, che portò all'abolizione nel 1981 al "matrimonio riparatore", grazie alla sua consapevole, civile ed etica decisione di non sottostare a una legge sessista.  L'educazione sessuale-sentimentale, basata sul dialogo con i ragazzi e le ragazze è un tipo di formazione che un Ministero dell'Istruzione moderno e al passo con i tempi dovrebbe fornire a tutte le scuole, utilizzando dei formatori capaci di comunicare con i bambini e i ragazzi. Se, però, il Ministero non interviene, gli insegnanti possono ugualmente affrontare alcuni dei temi trattati in questa intervista e nel volume "Tuo figlio e il sesso". I ragazzi apprezzano che se ne parli: hanno delle conoscenze e delle opinioni in proposito, spesso però incomplete e poco approfondite. Obiettivo del documento Standards for Sexuality Education in Europe (Colonia, 2010) è di fare uscire i giovani da quella nebulosa fatta di impulsi e informazioni errate in cui spesso sono immersi», conclude Anna Oliverio Ferraris. La comunicazione, il confronto con il passato e la problematizzazione della realtà sono l’unica chiave per identificare i cascami del patriarcato e smascherare gli stereotipi di genere, rispondendo ad un bisogno così importante da parte dei giovani. A tal proposito segnaliamo una interessante iniziativa, stereotipidigenere.eu, una piattaforma online che offre alle insegnanti e agli insegnanti della scuola primaria e secondaria di primo grado strumenti e materiali gratuiti per una didattica attiva sui temi degli stereotipi e della parità di genere. Ispirata al cortometraggio “Mi piace Spiderman…e allora?” di Federico Micali e sostenuta dalla Commissione Europea, la piattaforma si pone come una risorsa fondamentale nella lotta contro pregiudizi e disinformazione, primo passo per sradicare la violenza di genere.


[1] La sociolinguistica Vera Gheno racconta la storia della parola “femminicidio” nel podcast “Amare Parole”, pubblicato dal ilpost.it.

[2] La lotta contro la violenza di genere in Italia si basa su un quadro normativo fondamentale. La legge 119/2013, nota come Legge sul femminicidio, ha introdotto disposizioni specifiche per punire l’omicidio aggravato quando il delitto è commesso in relazione al genere della vittima. Nel Codice Penale, disposizioni relative a violenza sessuale, stalking e maltrattamenti in famiglia sono cruciali nel perseguire i reati contro le donne. La Legge 154/2001, conosciuta come Legge sulla violenza domestica, fornisce misure di protezione e assistenza per le vittime. Ratificando la Convenzione di Istanbul nel 2013, l’Italia si è impegnata a prevenire e combattere la violenza contro le donne e la violenza domestica, oltre a promuovere la parità di genere. Inoltre, il Piano d’Azione Nazionale contro la Violenza di Genere, con misure preventive, di protezione delle vittime e persecuzione dei responsabili, rappresenta un impegno tangibile nella lotta contro questo grave problema sociale. Oltre alle leggi specifiche sulla violenza di genere, altre iniziative normative sono state cruciali nel contesto italiano. Il Jobs Act, introdotto nel 2014, ha incluso disposizioni per combattere la discriminazione di genere sul luogo di lavoro, promuovendo la parità di opportunità occupazionali. Inoltre, il Codice Rosso, entrato in vigore nel 2019, ha introdotto misure urgenti per contrastare la violenza di genere, facilitando l'emissione di provvedimenti di protezione e il coordinamento tra le forze dell'ordine e i servizi sociali per garantire una risposta tempestiva e efficace alle situazioni di pericolo.

[3] Nel 2024 (gennaio/aprile) si contano già 33 femminicidi, lesbicidi, trans*cidi in Italia, mentre 120 sono state le vittime registrate nel 2023.

[6] “Così certi uomini amano troppo, e questo li fa stare male fino a portarli ad uccidere; così certi altri stanno talmente male che questo ammala anche il loro amore, che poi diventa omicida”, Loredana Lipperini, Michela Murgia, “L’ho uccisa perché l’amavo”. Falso! (Laterza, Roma-Bari, 2013). Il testo contiene anche numerosi esempi tratti dalla stampa quotidiana.

L'autore

Martina Polimeni

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