La rivista

Politiche educative

Ripensare il rapporto delle professionalità coinvolte nei servizi ludico-ricreativi

Abstract

Con l’istituzione dell’albo professionale degli educatori e dei pedagogisti, diviene necessario riflettere sulle modalità con le quali i diversi professionisti educativi integrano le loro competenze all’interno dei servizi. Questo articolo affronta le due cornici teoriche che orientano il rapporto tra gioco e educazione nella pratica professionale. La prima riguarda gli studi condotti da diversi esperti di gioco che promuovono quelle forme di gioco libere dalle strumentalizzazioni della pedagogia e suggeriscono di non considerare il gioco come uno strumento educativo. La seconda riguarda quelle caratteristiche specifiche del gioco che lo qualificano come elemento formativo in sé e, quindi, come campo di interesse della pedagogia e dell'educazione. Saranno analizzate brevemente le professionalità che nel contesto italiano sono state ispirate dalle due linee di pensiero e cercheremo di trovare una mediazione tra loro. Secondo l'autore dell'articolo la soluzione risiede nel pieno riconoscimento delle due professionalità e nella promozione di forme collaborative e di co-progettazione all’interno della pratica professionale.

Establishing the professional register of educators and pedagogists makes the reflections on the ways in which educational practictioners integrate their skills within the services necessary. This article addresses the two theoretical frameworks that orientate the relationship between the game and the education in the educational practice. The first framework concerns the studies that coinceive the game as a practice free from the exploitation of pedagogy and suggest not considering gaming as an educational tool. The second one is based on some fundamental features of the game that qualify it as a formative practice in itself and, therefore, as a field of interest in pedagogy and education. The professions that in the Italian context have been inspired by the two lines of thought will be briefly analyzed. We will also try to find a mediation between them. According to the author of the article, the solution lies in the full recognition of the two professions and in the promotion of collaborative forms and co-design within professional practice.

Cornice teorica del gioco in senso leisure

Gli effetti dell’istituzionalizzazione del gioco, ovvero del suo inserimento all’interno della pratica educativa ai fini didattici, sono descritti da diversi studiosi ed esperti di settore, afferenti a molteplici aree disciplinari, come “distorsioni”. Nel tempo si sono creati importanti contrasti tra le posizioni di chi vede il gioco come un ambito di ricerca e di pratica della pedagogia e chi vede la “pedagogizzazione” del gioco come uno snaturamento di quest’ultimo. Tale dibattito ha tutt’oggi delle ripercussioni nell’organizzazione dei servizi educativi e nella loro definizione sul piano normativo, a partire dalla disputa su chi debba progettare, coordinare e condurre le attività ludiche nei servizi appositi.

Partendo, però, da una breve analisi delle correnti di pensiero di cui sopra, è emblematica la critica del giornalista e scrittore Giampaolo Dossena (1930-2009), il quale esprime con forza la propria ostilità rispetto al connubio educazione-gioco nel libro Abbasso la pedagogia. Nel testo sono analizzati con archeologica perizia i giocattoli ritrovati negli espositori per la vendita e nella collezione personale di Ida Sello[1], all’interno del suo antico negozio, un po’ cartoleria un po’ negozio di giocattoli. Dossena propone numerosi approfondimenti inerenti alla storia del gioco dell’oca, della tombola, dei puzzle, delle bocce e dei birilli, dei giocattoli guerreschi, dei soldatini, dei giochi di costruzioni e persino dei pennini. Questi approfondimenti riguardano le modalità con le quali i giochi “repertati” si sono presentati nelle diverse epoche e nelle diverse culture. Ma un aspetto di particolare interesse riguarda la denuncia delle innumerevoli forzature subite da alcuni giochi trasformati in “educativi”, che hanno portato alla perdita di attrattività della maggior parte di essi. L’autore descrive una pedagogia rea di aver imbrigliato il gioco per porlo al servizio di necessità ad esso estranee. Questa pedagogia (questo modo di fare pedagogia, n.d.r.) limita la libertà del gioco e del giocatore e, secondo l’autore, come sottolineato da Roberto Farnè[2] nell’introduzione all’edizione digitale del 2020, persegue fini di indottrinamento.

Il gioco disinteressato

La posizione di Dossena prende le mosse dagli studi dello storico e linguista olandese Johan Huizinga (1872-1945). Nel testo Homo ludens Huizinga (2017) asserisce che il gioco, ovvero ogni gioco, è innanzitutto e soprattutto un atto libero e che laddove comandato non è più considerabile un gioco. Secondo lo studioso olandese il gioco è un qualcosa a sé rispetto alla vita ordinaria: la sua peculiarità consiste nel rendere possibile all’umano di allontanarsi dalla vita normale, per entrare in una sfera temporanea di attività che possiede fini propri. Da questo punto di vista, per essere considerato tale, il gioco deve essere disinteressato, ovvero un intermezzo della vita di tutti i giorni, un momento ricreativo, cioè avere un inizio e una fine. Ciononostante, Huizinga spiega anche che ogni gioco ha le sue regole, le quali ne consentono la democraticità. Chi vi si oppone o vi si sottrae è considerato un guastafeste, mentre chi imbroglia, il baro, è chi finge di giocare il gioco. Il carattere della libertà del gioco non è minato dalla forza ordinatrice delle regole; esse sono necessarie a garantire la libertà di partecipazione di tutti i giocatori a qualcosa che sia preliminarmente noto come gioco e non manipolabile in itinere da chi bara e da chi si oppone alle regole. Invece, ad osteggiare la libertà, e con essa il gioco nel suo insieme, sono le costrizioni esterne e la strumentalità educativa, quale imposizione atta a sfruttare il potenziale dei giochi e dei giocattoli. In sintesi, si può affermare che il gioco per Huizinga è un’azione libera, situata al di fuori della vita consueta, o per meglio dire al di fuori del modo consueto di vivere la vita quotidiana; esso si compie entro uno spazio consapevolmente determinato, secondo un ordine dettato da regole autonome, che animano rapporti sociali inediti, i quali, non essendo altrimenti realizzabili nella vita di tutti i giorni, sono circondati da un’aura di mistero.

In accordo col pensiero di Huizinga, lo scrittore e sociologo Roger Caillois (1913-1978) nel testo I giochi e gli uomini, che nell’edizione italiana del 2000 è arricchito dalle note di Dossena, definisce il gioco come un’attività:  (I) libera: la cui partecipazione non può essere forzata, pena la perdita di attrattività e il divertimento generato dal giocare; (II) separata: determinata in uno spazio e in un tempo stabiliti in anticipo e, quindi, già noti prima dell’inizio; (III) incerta: il cui svolgimento non segue alcun copione già scritto, se non per quanto concerne il rispetto delle regole, e il cui risultato non può essere determinato in anticipo, in quanto vi è un’imprescindibile apporto soggettivo dei partecipanti che produce esiti nuovi; (IV) improduttiva: che non comporta l’acquisizione di beni e ricchezze tangibili e il cui termine riporta i giocatori alla loro condizione iniziale; (V) regolata: sottoposta a convenzioni peculiari che sospendono le norme ordinatrici dei comportamenti della vita quotidiana, creando una legislazione nuova e superiore a quella ordinaria; (VI) fittizia: nella quale i giocatori sono pienamente consapevoli della loro partecipazione in una realtà altra rispetto a quella conosciuta nella vita normale (Caillois, 2000).

Il gioco come elemento formativo

Diversa delle precedenti è l’interpretazione che ritroviamo ne La scuola dei giochi (Rovatti & Zoletto, 2005), testo nel quale Rovatti esprime in modo incisivo la sua idea di gioco, che condivide numerosi aspetti con le teorie degli studiosi più ostili alla pedagogia, pur senza rinunciare quei legami tra gioco ed esistenza e tra gioco e formazione.

Tali legami non hanno a che fare con gli obiettivi della didattica né con i risultati degli studi della psicologia dello sviluppo e dell’educazione, ma sono riconducibili alle specificità della pedagogia generale, in quanto inerenti alla formazione personale dell’individuo. Per riconoscere e comprendere l’inscindibilità tra gioco e formazione della persona è necessario ricondurre l’esperienza di gioco alla sua dimensione narrativa. Il giocare, essendo storia di vita vissuta – in un altrove ma pur sempre vissuta – è narrabile a sé e agli altri. In quanto possibile narrazione, essa include una dimensione logico-razionale, che risiede prevalentemente nelle regole (game) e nella successione cronologica dei momenti del gioco giocato (play)[3], e una dimensione affettivo-relazionale, la quale inevitabilmente va ad ancorarsi alla sua analoga inerente alla storia di vita ordinaria del giocatore, che qui è allo stesso tempo narratore e soggetto narrato. Questo ancoraggio della dimensione affettivo-relazionale del racconto autobiografico del Sé giocatore con la dimensione affettivo-relazionale del Sé quotidiano va ad incidere sulla storia di vita della persona che il giocatore è.

Rovatti si dissocia da quel modo di intendere il gioco come un qualcosa che riguarda esclusivamente l’infanzia e, soprattutto, si rifiuta di pensare l’infanzia come un momento dell’esistenza necessariamente ingenuo, puro, tanto elevato da avvicinarsi al divino.

Il gioco è «tutt’altro che una innocente evasione infantile che addolcisce la scuola» (p.15), per cui dobbiamo allontanarci da quelle disposizioni educative promosse a livello istituzionale volte ad utilizzare strumentalmente il gioco come palliativo momentaneo, necessario a rendere più sopportabili gli apprendimenti formali. Allo stesso tempo si deve rinunciare a quelle ibridazioni messe in atto per “ludicizzare” forzatamente gli apprendimenti scolastici meno motivanti. Questi “stratagemmi” rappresentano la riduzione esercitata dal gioco sull’apprendimento e viceversa. Essa, secondo il filosofo modenese, è dovuta all’affermazione dell’idea del bambino metafisico, leggero e innocente, di derivazione nietzschiana[4], che si tenta di applicare all’educazione dei bambini e delle bambine reali, senza ottenere successo, in quanto non vi sarebbe niente da edulcorare.

Per Rovatti, ulteriore problema di non poco conto è anche la comprensione parziale del gioco. Esso è un «modo di stare nell’esperienza, nella realtà della vita» (p.11), anche quando non si gioca un gioco particolare. Pertanto, costituisce un importante elemento di continuità tra tutte le esperienze, ivi comprese quelle di apprendimento e insegnamento.

Infatti, il gioco non dovrebbe avere un ruolo marginale e meramente ricreativo, come se fosse un intervallo nel quale è consentita una maggiore libertà rispetto alle costrizioni della vita, ma deve fare un tutt’uno con l’apprendimento e l’insegnamento. Ciò non significa, come già ammonito sopra, innestare artificiosamente il gioco nella didattica, ma considerare il gioco come possibile atteggiamento divergente rispetto alla realtà tutta, comprese le pratiche inerenti all’apprendimento/insegnamento.

Il gioco per Rovatti si integra all’apprendimento per trasformarlo nel profondo, non solo dal punto di vista esteriore e modale, bensì mettendo in discussione sia i modi di insegnare e di apprendere sia ciò che è considerato degno di essere appreso. E questo non può che avvenire secondo logiche e criteri che non appartengono all’ordinario.

Parafrasando Bateson, il potenziale del gioco sta nella creazione di cornici dentro le quali il senso delle cose muta, mutano i rapporti tra gli oggetti e i loro referenti; tutto assume nella metafora e nei simboli un valore diverso. Famosa è la frase «le azioni che in questo momento stiamo compiendo non denotano ciò che sarebbe denotato da quelle azioni che queste azioni denotano» (Bateson, 2000, p. 221).

Proprio le possibili modificazioni dei rapporti tra l’umano e gli oggetti, nonché il nuovo senso acquisibile da questi rapporti, deve interessare i professionisti dell’educazione.

L’aspetto maggiormente formativo del gioco suggerito da Rovatti è la sua capacità di insegnare al giocatore a scollarsi dalla realtà alla quale esso è pur sempre vincolato. La misura di questo estraniamento corrisponde a quanto basta per decentrarsi e per produrre nella propria esistenza una qualche eccedenza di spazio e di tempo, ossia per aprire al possibile una realtà altrimenti chiusa in sé stessa.

Le riflessioni del filosofo modenese ci danno lo spunto per tratteggiare quattro apprendimenti fondamentali che derivano dal giocare autentico e che devono assumere una funzione fondativa del lavoro educativo agito attraverso il gioco, ovvero al di là delle competenze inerenti all’animazione:

  • il rapporto tra la regolatezza e la libertà. L’esperienza del gioco insegna che se si entra in un gioco ma si rifiutano le regole di quel gioco, perché si pensa che non debbano esserci regole o perché si vorrebbero regole diverse, il gioco nel quale si è liberamente entrati verrà distrutto. Ciò impedirà di giocarvi sia a sé stessi che agli altri che sono interessati a quel gioco. Giocare è, infatti, l’espressione di libertà che richiede delle regole affinché tale libertà sia distribuita in tutti i partecipanti;
  • la trasformazione della realtà. Winnicott sosteneva che “mentre gioca il bambino o l’adulto è libero di essere creativo” (1971, p. 101). Ciononostante, noi possiamo giocare tutti gli aspetti della nostra esistenza, «noi giochiamo il serio, giochiamo l’autentico, giochiamo la realtà, il lavoro e la lotta, giochiamo l’amore e la morte. E giochiamo perfino il gioco» (Fink, 1969, p. 54). L’umano può giocare con la realtà, distanziandovisi e distanziandola da sé, ovvero mettendo “tra virgolette” parti di essa e agendovi in senso trasformativo. Ciò non significa comunque rifiutare la realtà, ma porvisi dinnanzi in un modo creativo, che, coerentemente col punto precedente, lasci pieno spazio alla partecipazione attiva degli altri;
  • la resilienza e il coraggio. Giocare implica mettersi in gioco, col rischio di “perdere la faccia. Apprendere a giocare significa uscire dalla zona di comfort, nella quale si è certi di non perdere nulla, per sviluppare resistenza rispetto alla continua perdita di un qualcosa, che sia la propria reputazione o, più semplicemente, il controllo di sé e sul proprio ambiente. Allo stesso tempo il gioco insegna ad assumere nuove facce, a “guadagnare” nuove modalità per esprimere sé stessi, ivi comprese le modalità che implicano l’autoironia, divenendo così agenti consapevoli della propria perdita e del proprio guadagno;
  • la franchezza. Apporre le virgolette alla realtà o a una parte di essa, per portarla a un livello di analisi altro rispetto al vivere ordinario, implica anche un uso giocoso del linguaggio nella relazione con gli altri, cioè un uso nuovo della parola per comunicare sé stessi e il proprio rapporto con la verità. Il gioco consente ai giocatori di sperimentare il parlar franco, protetti dalle regole predeterminate e all’interno dei ruoli che le regole delineano.

L’integrazione dell’extra-pedagogico col pedagogico

In buona misura, i riferimenti che abbiamo collocato dentro la cornice del “gioco come leisure” sono quelli che, per salvare il gioco da una pedagogia dell’efficienza, hanno ispirato prassi e contesti operativi nei quali la dimensione educativa è stata messa in secondo piano.

Per molto tempo, a prescindere dai titoli acquisiti e dall’ineludibile componente educativa che connota ogni relazione tra gli adulti e i bambini, nonché tutti gli aspetti inerenti all’autoeducazione dei giocatori, ad occuparsi professionalmente del gioco sono stati gli animatori, il cui profilo professionale non risponde da statuto ai bisogni di ordine educativo dei bambini e delle bambine, quanto più ad esigenze di svago, intrattenimento e distensione rispetto alle responsabilità del quotidiano. Ne è dimostrazione l’analisi della professionalità dell’animatore di ludoteca presentata da Acerbi e Martein (2005) dove non vi è traccia dei temi inerenti al mondo dell’educazione e della formazione umana:

  • attitudine a capire lo spirito e l’importanza del gioco e quindi la capacità di proporre l’attività ludica e di dialogare, nel gioco, con quanti partecipano a tale attività;
  • conoscenza ampia della cultura ludica di ogni tempo e di ogni paese, con particolare e privilegiato riferimento a quella del proprio territorio;
  • capacità di animare le attività ludiche con o senza giocattoli, di insegnare giochi, di condurre giochi e di gestire situazioni conflittuali che possono determinarsi durante l’attività stessa;
  • capacità di insegnare a costruire giocattoli con diversi materiali e tecniche;
  • abilità nel programmare l’attività ludica anche per altri servizi e gestire eventuali approfondimenti su tecniche espressive attinenti (p. 31).

Diversamente, l’approccio al gioco che ne riconosce e valorizza la dimensione formativa, rimanda a un altro modo di concepire il professionista dei servizi ludici, quello del ludotecario-educatore. Falchi (2004) nel descrivere il profilo professionale (e umano) di tale figura tiene a precisare che le peculiari capacità del ludotecario-educatore non consistono nelle posture ostensive del parlare, spiegare e trasmettere, quanto più alle modalità della cura educativa inerenti all’ascoltare e al promuovere. Ascoltare significa aprirsi alle reali esigenze del bambino, sentire, percepire, saper cogliere le sue sensazioni, emozioni, affetti […] Significa riconoscere il bambino come «soggetto» attivo, originale, intraprendente, attore della propria crescita, capace e impegnato ad affermare la propria umanità.

Mentre la capacità di promozione […] fa riferimento alla capacità, e volontà, d’incoraggiamento dell’educatore nei confronti del bambino, di dare spazio alle sue domande, al suo bisogno di esplorazione; alla capacità di offrire un equilibrato sostegno psicologico necessario per affrontare la situazione ludica, di allestire occasioni, spazi, materiali stimolanti per il bambino; alla disponibilità di discutere e all’abilità di rilanciare temi e quesiti (pp. 90-91).

L’immagine tratteggiata dall’autrice dà l’idea di una professionalità messa al servizio dei bisogni reali delle bambine e dei bambini, che predispone il gioco curvandolo e curvando sé stessa secondo le necessità del contesto. Non si tratta qui di uno strumentalismo finalizzato all’apprendimento di competenze e conoscenze spendibili nei contesti sociali altri, ma di un modo di accompagnare la crescita delle bambine e dei bambini, presidiando e avendo cura anche dell’esperienza ludica. È degno di nota il fatto che tra le missioni del ludotecario-educatore di Falchi vi è, in accordo con quanto riflettuto nel secondo paragrafo di questo contributo, il supporto dei bambini e delle bambine nella concettualizzazione della propria esperienza, ovvero nella costruzione di un racconto formativo inerente all’esperienza del gioco; elementi che richiamano l’apprendimento dall’esperienza, emblema della pedagogia di Mortari (2003).

Con l’entrata in vigore della legge 15 aprile 2024, n. 55, “Disposizioni in materia di ordinamento delle professioni pedagogiche ed educative e istituzione dei relativi albi professionali”, diviene necessario trovare una giusta mediazione tra gli specialisti del gioco e gli specialisti dell’educazione. In questa fase di riconoscimento delle professioni educative, che assumono così uno statuto più forte rispetto agli animatori e ai tecnici di ludoteca, il rischio è quello di una lotta per aggiudicarsi il primato nella progettazione e nell’implementazione degli interventi ludico-educativi. Non si tratta qui di stabilire quale sia la professionalità più idonea al lavoro all’interno dei servizi: una sfida tra i due modelli professionali sarebbe altresì controproducente per la qualità delle pratiche in essi svolte. Da un lato abbiamo gli esperti del gioco, dei giocattoli e della loro produzione all’interno di contesti laboratoriali, dall’altro gli esperti dell’educazione e della formazione. Se consideriamo che l’educazione ha due condizioni principali, l’educare, ossia il nutrire con stimoli che sono prevalentemente culturali, e l’educere, il trarre fuori la soggettività, le disposizioni interne e le potenzialità della persona, non possiamo negare un’imprescindibile necessità di una collaborazione di entrambe le professionalità, ognuna col proprio statuto scientifico e professionale.  Infatti, è innegabile che nel contesto della ludoteca il “nutrimento educante”, ovvero le sollecitazioni che producono effetti educativi, abbiano una natura prevalentemente ludica. Pertanto, esso richiede una solida cultura del gioco e dell’animazione. Contestualmente, il movimento del trarre fuori, ovvero il supporto all’esternazione del potenziale individuale dei bambini e delle bambine, così come la rielaborazione del vissuto ludico e ai fini dell’interiorizzazione dei valori sottesi all’esperienza del gioco e delle sue regole, richiede competenze e conoscenze prevalentemente pedagogiche. In questi contesti, quindi, nessuna figura professionale può essere esclusa, ma diviene essenziale il dialogo, la condivisione di linguaggi, lo scambio di competenze e di interpretazioni specifiche di una e dell’altra visione professionale.

Per mantenere la vitalità dei servizi ludico-educativi bisogna altresì evitare la sovrapposizione di titoli e di competenze che rimanda al fenomeno altamente disfunzionale per il benessere psicologico del professionista che chiamiamo overqualification (Johnson, Johnson, 1996). Con questo termine intendiamo l’accumulo di qualificazioni e delle relative competenze in un unico professionista, che porta quest’ultimo ad essere depositario di saperi e abilità che non possono trovare piena espressione nella sua azione professionale individuale, in virtù di fattori come l’inquadramento contrattuale, gli aspetti organizzativi del servizio (ruoli e mansioni), il tempo a disposizione e le energie effettivamente destinabili alla pratica professionale. Allora, nell’ottica di una compresenza degli educatori e degli animatori ludoteca all’interno dei servizi, la soluzione ottimale è l’integrazione collaborativa delle due professionalità, in modo da produrre, insieme, la sequenza epistemologica “Teoria-Modello-Progettazione-Attività” (Madriz, 2011). Infatti, animatori e educatori possono offrire servizi ludici-educativi di qualità solo traducendo l’insieme delle teorie e delle conoscenze a loro disposizione in un modello giustificativo condiviso, che possa nutrire delle rielaborazioni progettuali dotate di prospettive culturali e educative di alto livello, a supporto di azioni professionali situate nel quadro teorico di riferimento delle due professionalità e nella realtà specifica in cui andranno ad operare.

Bibliografia

  • Acerbi, A., & Martein, D. (2005). Il gioco è di più. Ludoteche e centri per il gioco e l'aggregazione. Bergamo: Junior.
  • Bateson, G. (2000). Verso un'ecologia della mente. Milano: Adelphi.
  • Caillois, R. (2000). I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine. Milano: Bompiani.
  • Dossena, G. (2020). Abbasso la pedagogia. Bologna: Marietti.
  • Falchi, M. (2004). Una ludoteca a misura di bambino. Brescia: La Scuola.
  • Fink, E. (1969). Oasi della gioia. Idee per una ontologia del gioco. Salerno: Rumma.
  • Huizinga, J. (2017). Homo ludens. Torino: Einaudi.
  • Johnson, G. J., Johnson, W. R. (1996). Perceived overqualification and psychological well-being. In The Journal of social psychology, 136(4), 435-445.
  • Madriz, E. (2011). Prendere forma per dare forma: l'azione educativa professionale. Roma: Armando.
  • Mortari, L. (2003). Apprendere dall'esperienza. Il pensare riflessivo nella formazione. Roma: Carocci.
  • Nietzsche, F. (2012). Così parlò Zarathustra. Segrate: Rizzoli.
  • Rovatti, P. A., & Zoletto, D. (2005). La scuola dei giochi. Milano: Bompiani.
  • Von Neumann, J., Morgenstern, O. (1944). Theory of games and economic behavior. Princeton: Princeton University Press.
  • Winnicott , D. W. (1971). Gioco e realtà. Roma: Armando.


[1] Ida Sello (1890-1971), ex-maestra udinese appartenente a una famiglia di industriali, aprì un negozio di materiali didattici e giochi per lo più didattici, di cui divenne importante distributrice in gran parte del territorio italiano.

[2] Farnè non è, comprensibilmente, d’accordo con i toni assoluti di Dossena.

[3] Secondo von Neumann e Morgenstern (1944) è necessario distinguere tra il concetto astratto del game e le configurazioni concrete individuali (play) di questo game. Se il game è l'insieme delle regole descrittive di un gioco, i casi particolari nei quali il game è giocato effettivamente si riferiscono al play. Quest’ultimo è, infatti, il modo particolare nel quale il gioco si sviluppa dall’inizio alla fine.

[4] Il riferimento è a una delle tre metamorfosi (il cammello, il leone e, appunto, il fanciullo) descritte nel primo dei dialoghi di Così parlò Zarathustra (Nietzsche, 2012).

L'autore

Andrea Spano

Università degli studi di Cagliari

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