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Gioco, digital games, tecnologie e istruzione: un nuovo quadro interpretativo ai tempi dell’intelligenza artificiale

Il gioco come allenamento alla sopravvivenza

Le tecnologie dei videogiochi possono essere utili nell’ambito dell’istruzione? Da molti decenni si pone questa questione e a tutt’oggi le risposte emerse nel dibattito scientifico sono state non solo molto diverse ma spesso del tutto contraddittorie. Dalle analisi di psicologia sperimentale sugli studenti universitari statunitensi della fine degli anni ‘80 (Greenfield 1987), poi effettuate in Italia con risultati analoghi (Camaioni 1990), indagando sulla traslabilità delle competenze tra l’ambito videoludico e quello razionale, passando per le storiche indagini sui possibili comportamenti violenti indotti dall’uso di particolari videogiochi, fino all’evidenziazione dei potenziali rischi fisici come le difficoltà del sonno, l’obesità, l’ansia, la depressione e i possibili problemi per un corretto sviluppo cognitivo (cfr. almeno Bediou, Rich & Bavelier 2020 e la relativa bibliografia inclusa), i meccanismi mentali generati o indotti dalle tecnologie digitali e dai videogiochi sono stati variamente esaminati. Purtroppo però, dopo anni di produzione di letteratura scientifica, ci si muove ancora tra gli estremismi di catastrofisti e tecno entusiasti.

Quello che bisogna assolutamente comprendere è che la mancanza di risposte certe dipende essenzialmente dalla difficoltà di circoscrivere con esattezza gli elementi da prendere in considerazione e – almeno in parte – dall’atteggiamento con il quale ci si dispone nei confronti di questi fenomeni, che rende diverse non tanto le risposte ma soprattutto le domande che ci si pone. Innanzitutto, bisognerebbe infatti definire, almeno dalla nostra prospettiva, quali siano le caratteristiche fondanti del gioco “in assoluto”, nella sua dimensione antropologica e, in particolare, della sua dimensione cognitiva, per potere comprendere poi quelle che pur nelle loro specificità e peculiarità tecnologiche presentano i videogiochi.

Dal punto di vista della pedagogia moderna, il legame tra l’apprendimento e il gioco è stato sin da subito chiaro, almeno da quando Froebel riteneva fondamentale per un bambino giocare, in quanto lo predisponeva all’autoapprendimento, come tappa fondamentale in vista della maturità, oppure quando, parlando proprio di Froebel, Gentile vedeva nel bimbo lo Spirito stesso che giocava. Piaget considerava il gioco indispensabile per strutturare correttamente il processo di apprendimento attraverso il quale le nuove informazioni vengono immesse negli schemi cognitivi e le strutture mentali si riadattano a seguito delle nuove informazioni. La tipologia dei giochi connessi alla spontaneità ricalca una progressiva evoluzione che dai giochi di pratica, con una ripetizione di azioni, passa ai giochi simbolici, con rappresentazioni di fantasia, per poi arrivare a quelli basati sulle regole (Piaget 1954). Ma qualche anno prima, nel 1934, Mead aveva già identificato il gioco come la procedura attraverso la quale si costruiva nel bambino la piena coscienza di sé, arrivando a comprendere le forme della relazione individuale attraverso la rappresentazione dei diversi ruoli prossimi a sé, come madre, medico, maestro, poi, attraverso l’interiorizzazione delle regole che costituiscono il generalized other, le forme di comportamento in un sistema organizzato socialmente, nelle modalità accettate e controllate dalle diverse comunità umane alle quali si può fare riferimento (Mead 1934).

In questa prospettiva diventa allora fondamentale comprendere quanto giocare sia un bisogno, quanto sia un piacere o, più precisamente, quanto il bisogno antropologico renda un piacere quella che è una vera e propria necessità, probabilmente evolutiva. Infatti, storicamente la relazione tra il gioco e l’istruzione si è affrontata con fini diversi in domini diversi e quindi con risultati diversi, invece una delle possibilità ermeneutiche più produttive è quella di considerarlo dal punto di vista della antropologia cognitiva e analizzarne, in particolare, la dimensione esperienziale, per comprendere come si espliciti sia il desiderio di giocare, sia la funzione effettiva del gioco in una prospettiva di conoscenza, per poi valutare le reali potenzialità e l’eventuale efficacia istruttiva dei videogiochi.

Proviamo allora a utilizzare una delle prospettive possibili delle neuroscienze contemporanee. Il meccanismo fondamentale che costituisce il presupposto dell’esistenza umana è il “progetto” – allo stesso tempo mentale e corporeo – di ognuno di noi. Le percezioni e le sensazioni che si provano nella relazione con l’esterno servono a aggiornare e ricalibrare continuamente questo progetto. Lo scopo principe di questa macchina antropologica - nella quale la parte mentale e la parte corporea coincidono totalmente - è essenzialmente la sopravvivenza stessa (cfr. Seth 2021).

Se guardato da questo punto di vista, allora, il gioco rappresenta un ambiente circoscritto e limitato, dove sperimentare, con un numero di parametri minimo – o comunque nettamente inferiore – rispetto alla vita reale, le dinamiche di relazione con la realtà esterna in modo tale da affinare le capacità di sopravvivenza. E poiché è assente la dimensione di senso della vita esterna al gioco, dove non c’è la possibilità di ripetere e di ritentare, e tutto si “gioca” nell’istante della realizzazione, la dimensione ludica permette di allenarsi alla sopravvivenza senza il rischio di morire o di subire danni permanenti (fisici, sociali, e qualsiasi altro aggettivo si voglia affiancare per identificare i domini possibili di rischio). E quando si circoscrivono i limiti organizzati di tempo e di spazio entro i quali un gioco può essere un gioco, ma con un ordine proprio, un mondo di regole interne e con la consapevolezza della propria diversità, sotto una luce precipua questa delimitazione e questa struttura fondativa possono essere definite come l’agone di preparazione alla vita quotidiana.

La differenza tra l’atto di agire seriamente e l’atto di giocare allora sembra ricalcare assurdamente quella della differenza tra l’essere e il non-essere di Parmenide, identificando nettamente due e solo due possibili forme di esistenza, ontologica nel caso dell’essere in sé e performativa nel caso del gioco. Se si accetta infatti la lettura del gioco come forma di allenamento alle azioni che dovranno poi essere svolte in una qualsiasi delle attività quotidiane della vita materiale, le azioni possono appartenere solo ed esclusivamente a uno dei due campi, prescindendo, ovviamente, sia dalle graduazioni possibili della loro scomposizione, sia della loro immersione in una realtà più complessa che prevede forme di relazione tra le persone, piani simbolici, riconoscimenti sociali e vissuti psicologici.

Quindi, se volessimo gerarchizzare alcune pratiche umane disponendole in ordine di complessità decrescente, troveremmo innanzitutto la vita quotidiana (o, meglio, come la definiva Huizinga in contrapposizione al gioco, “ordinaria” o “vera”: cfr Huizinga 1939), poi i giochi in presenza e, paradossalmente, in ultimo, i videogiochi. Perché i giochi in presenza –- dal nascondino al calcio per strada, dalle bambole alle macchinine – sono in realtà molto più articolati e complessi di quanto si pensi, per la quantità di dati, velocemente cangianti, che si deve tenere in considerazione per giocarci. In pochi attimi, infatti, si devono valutare le condizioni esterne, esaminare gli altri partecipanti e decrittarne i gesti e le presunte volontà, immaginare le azioni, ipotizzarne gli esiti possibili, confrontarli con le esperienze pregresse, prendere decisioni, coinvolgere le parti del corpo necessarie, modulare ogni parola o mossa, analizzare minutamente ogni interazione con l’esterno ogni decimo di secondo e rimodulare ogni volta la progettualità della propria macchina corporea.

E questo solo per una partitella per strada.

Huizinga, nel celeberrimo Homo ludens, specificava con chiarezza che il suo obiettivo era analizzare il gioco come una funzione culturale, dichiarando esplicitamente che essa era in alternativa alla funzione biologica. Ma una porta restava aperta quando si affermava che il gioco «è una funzione che contiene un senso» (Huizinga 1939) e che «il bisogno di esso è urgente solo in quanto il desiderio lo rende tale’, perché il gioco è un atto libero».

La contrapposizione tra la dimensione del gioco e quella della vita reale la si potrebbe desumere anche dal suffisso -ίνδα, -inda, che in greco antico trasformava il lemma di riferimento in un gioco: βασιλίνδα, era giocare a fare il re, il βασιλεύς. Fink, che ha scritto pagine importanti sul gioco, diceva che «per capire il gioco dobbiamo conoscere il mondo e per capire il mondo come gioco dobbiamo acquisire un’intuizione del mondo molto più profonda» (Fink 1960, p. 72), avendo la lettura di Eraclito come sfondo paradigmatico, ma intuendo che quelle erano le relazioni chiave. Per capire il mondo del gioco, infatti, dobbiamo capire che esso è il gioco del mondo e che è necessario per imparare a vivere.

Nonostante tutte le possibili complicazioni e complessità, i videogiochi, anche quelli che hanno dietro immense risorse per la produzione e raffinate Intelligenze Artificiali, sono percepiti – e in realtà, almeno dal punto di vista di questo lavoro, lo sono veramente – come più facili. Si potrebbe addirittura inferire, per rafforzare ancora di più la caratteristica antropologica di “allenamento facilitato alla vita”, che la pressoché rapida perdita progressiva di piacere del gioco sia la spia che quella micro capacità viene considerata acquisita dalla macchina vivente e pertanto, venuta meno la sua “necessità”, viene automaticamente meno anche il piacere a esso correlato. La obsolescenza dei videogiochi più semplici, in particolare quelli che non prevedono la relazione significativa con altri utenti – caratteristica che coinvolgendo un numero più elevato di altre dinamiche rende più complessa la forma di esperienza –, può essere ascritta proprio a questo meccanismo. Tipica dei videogiochi “semplici” di successo è infatti quella parabola discendente che dopo poco tempo determina la necessità di modificare molti meccanismi di gioco – nuovi livelli, nuove skin, nuove sfide, nuova realizzazione grafica, etc – in modo da trattenere quegli utenti che praticamente in massa abbandonano il gioco, determinando ovviamente anche un ingente danno economico alle società di produzione.

Il “piacere” del gioco come elemento essenziale e determinante

Inaspettatamente, soprattutto se visti da una prospettiva che lega i videogiochi all’istruzione, i vari processi di gamification colgono invece gli elementi essenziali e fondamentali, anche se poi li utilizzano per fini completamente diversi. Il concetto di gamification nasce nella seconda decade degli anni 2000, per indicare la traslazione di alcuni meccanismi specifici dei giochi digitali in altre tipologie di software, dalle app ai siti, per rendere più “attraenti” le modalità di utilizzo e la rispettiva esperienza. Punti, livelli, missioni, ricompense, sfide, distintivi riconoscibili, cioè tendenzialmente quello che viene usato, però altro non sono che la reificazione di quelle modalità di relazione antropologica che rendono lesperienza ludica così piacevole e che utilizzati in questi altri contesti vengono impiegati per governare, gestire e indurre comportamenti negli utenti, per fini spesso direttamente commerciali o di impresa.

Chauvier, in una disamina ontologica del gioco più che intelligente, nella quale mette a punto dei parametri interpretativi in un convincente quadro di dialogo a distanza con i tentativi di sistematizzazione di Huizinga, Caillois e Fink, identifica quattro diverse componenti strutturali che caratterizzano l’esistenza stessa del dispositivo ludico: la scelta strategica, l’abilità tattica, la concorrenza e la sorte (Chauvier 2007). Ma soprattutto il gioco viene visto e proposto come «una meditazione sui ritardatori, sui complicatori dell’azione, su tutto ciò che fa in modo che un’azione sia, essenzialmente, esposta all’alternativa tra la riuscita o lo scacco» (Chauvier 2007, p. 51). Il gioco ha come modalità costitutiva principale la necessità di offrire a chi gioca la possibilità di perdere, possibilità che si trova essenzialmente nelle componenti citate sopra e isolate da Chauvier.

Di solito queste modalità di gioco vengono messe direttamente in relazione con alcune forme di desideri o bisogni umani, come il credito sociale, l’accumulazione, il riconoscimento, la competizione, la vittoria, in alcuni casi addirittura la cooperazione. Caillois identificava quattro attitudini elementari che caratterizzerebbero il gioco: Agôn, Alea, Mimicry, Ilinx, “compétition, chance, simulacre, vertige”, cioè “competizione, possibilità, finzione, vertigine”, e che sono ovviamente la strutturazione operativa del piacere possibile, ma nello stesso lavoro, da una prospettiva diversa e basata sul punto di vista del soggetto che si appresta a giocare, proponeva un impressionante elenco dei bisogni che inducono a farlo:

  • il bisogno di affermarsi, l’ambizione di essere il migliore;
  • il gusto per la sfida, per il record o semplicemente per il superamento delle difficoltà;
  • l’attesa, la ricerca del favore del destino;
  • il piacere della segretezza, della finzione e del travestimento;
  • il desiderio di avere paura o di fare paura;
  • la ricerca della ripetizione e della simmetria, o, al contrario, la gioia di improvvisare, inventare e variare all’infinito le soluzioni;
  • la gioia di risolvere un mistero o un enigma;
  • la soddisfazione che deriva da tutte le arti combinatorie;
  • la voglia di misurarsi in una prova di forza, di abilità, di velocità, di resistenza, di equilibrio e d’ingegno;
  • lo sviluppo di regole e giurisprudenza, il dovere di rispettarle, la tentazione di stravolgerle;
  • infine, l’euforia e l’ebbrezza, la nostalgia dell’estasi, il desiderio di un panico voluttuoso.

(Caillois 1958).

Si badi bene che queste dinamiche se guardate dal punto di vista dell’evoluzionismo sociale, sono esse stesse delle forme di valutazione e affermazione e di controprova delle modalità di sopravvivenza assicurate dalla collettività. Una dimostrazione e contrario dell’efficacia di questi elementi può essere dedotta da due esempi. Il primo è la centralità negli studi sugli effetti della tecnologia del tempo passato davanti allo schermo, dibattito ancora oggi attuale (cfr. Bediou, Rich & Bavelier 2020), e per fortuna meglio articolato anche in funzione dei contenuti fruiti, delle diverse soggettività coinvolte e delle forme d’interazione. Quello che però qui interessa è la capacità dei giochi – nel caso che ci interessa – di catturare completamente l’attenzione e di mantenerla per molte ore, anche a prescindere dalla incombente fatica fisica. Il secondo esempio è ancora più evidente: quegli elementi sono esattamente gli stessi che sia i produttori di videogiochi che quelli dei social media utilizzano per incrementare l’utilizzo continuo e forsennato, che spesso può degenerare in una vera e propria “dipendenza”, tanto da indurre la WHO, l’Organizzazione Sanitaria Mondiale a includere il “gaming disorder” nella sua ICD-11, la Classificazione Internazionale delle Malattie. Le potentissime e invisibili tecnologie dell’Intelligenza Artificiale, in grado di lavorare istantaneamente sui singoli comportamenti e di modificare i propri output in funzione della manipolazione delle reazioni generate, rendono la questione ancora più centrale e, tra parentesi, pericolosissima.

Quanto si sostiene qui è che il vero piacere non dipende solo dalla soddisfazione diretta di questi bisogni, bensì dal piacere derivato dall’”allenamento facilitato” di questi, dalla possibilità di soddisfarli in un ambiente protetto, gestibile con semplicità grazie al numero minimo di parametri necessari per ottenere questa soddisfazione.

Innumerevoli sono le società private che utilizzano le dinamiche della gamification per altre imprese nei contesti più disparati e diversi, ma si noti che anche soggetti pubblici hanno tentato una strada simile per cercare di estendere e rendere più efficace il proprio campo di azione, come nel caso del Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti, che ha organizzato una vera e propria campagna operativa per cercare di indurre comportamenti virtuosi nella propria utenza volti alla riduzione del consumo di energia.

I Serious Games e l’apprendimento possibile

Una delle storiche esperienze per connettere “ufficialmente” e direttamente l’istruzione con i videogiochi è stata sempre quella dei Serious Games, cioè dei giochi – nelle prime teorizzazioni vengono equiparati giochi fisici e videogiochi – nei quali la componente principale non è quella ludica ma esplicitamente quella dell’apprendimento, sebbene la dimensione del divertimento non sia del tutto esclusa.

Quando sono stati analizzati i risultati degli studenti che avevano utilizzato i serious games come forma di studio, e sono stati messi in relazione con un apprendimento di tipo tradizionale, cioè di spiegazione frontale o basato sulla lettura di testi, le performance sono risultate migliori nel confronto. Non è facile però interpretare questi dati perché bisogna tenere sempre presente che alcune distinzioni teoriche necessarie non erano probabilmente completamente chiare ai ricercatori.

Infatti, bisognerebbe meglio specificare quale forma precisa di apprendimento si sta cercando. Così, sembra ormai acclarato dalla letteratura di riferimento che l’apprendimento esperienziale, il learning by doing ispirato dai lavori di Dewey (soprattutto da Dewey 1938), in determinati ambiti sia molto più efficace. Restano però da determinare con precisione quali siano questi ambiti e quali competenze siano più facili da acquisire grazie alla metodologia diversa utilizzata per la trasmissione del sapere.

Nel momento in cui infatti si devono apprendere delle competenze “tecniche” che devono essere applicate in un ambito preciso, l’utilizzo delle simulazioni digitali rappresenta uno strumento pressoché impareggiabile, con il quale ci si può “allenare” continuamente, senza danni e consumi materiali, senza rischi effettivi, in un ambiente circoscritto, sicuro e con un numero definito di parametri da tenere sotto controllo, infinitamente minore di quello che si dovrebbe affrontare in una modalità reale. A maggior ragione, quando l’ambiente di azione per il quale si devono apprendere e sviluppare le competenze sia eminentemente digitale, si ottiene un training perfetto. Senza scomodare – come pure è stato fatto, non raramente – i giochi strategici, in ambito militare si è spesso ricorso negli ultimi decenni a addestramenti basati sulle simulazioni digitali (che pure andrebbero meglio distinte dal nostro punto di vista). Se si guarda alle tipologie generali, per esempio, viene ritenuto ormai acclarato un incremento sensibile dello sviluppo delle capacità di attenzione nei giocatori di videogiochi d’azione, rilevato attraverso decine di indagini sperimentali. Se si guarda invece a giochi specifici, il caso più interessante è quello di Minecraft, che nasceva come un gioco di sopravvivenza individuale, per poi passare su piattaforma, in modo essere giocato da qualsiasi device. Allo scopo iniziale, via via si sono aggiunti le forme di collaborazione collettiva su design e costruzione, in una atmosfera completamente immersiva. L’efficacia formativa di questo videogioco viene riconosciuta oggi non solo da educatori informali, ma addirittura dal World Economic Found che lo considera esplicitamente come un modo per sviluppare le competenze tecnologiche, per le sue caratteristiche in grado di insegnare a apprendere in autonomia e ad agire e pensare in un sistema di interazione sociale proficua.

Va però sottolineato che, proprio a causa dell’uso ormai diffuso della digitalizzazione, soprattutto in ambito lavorativo, spesso le situazioni apprese sono esattamente quelle che si possono poi presentare successivamente nella vita reale, come per esempio nei programmi di apprendimento del pilotaggio aereo o nell’uso di dispositivi elettronici di puntamento di armi, rendendo così la dimensione del training digitale un vero e proprio “apprendimento tecnico”. Non a caso in alcune storiche analisi di psicologia sperimentale si osservavano proprio gli sviluppi possibili dell’acquisizione di competenze e delle regole di comportamento durante il gioco stesso, senza che esse venissero fornite precedentemente. L’ambito “reale” permette un apprendimento efficace perché è costituito dalle possibili esercitazioni in un ambiente interamente digitale, con la realizzazione di piccoli compiti progressivi o di compiti più complessi ma dove è possibile sbagliare e ricominciare, soprattutto in campi dove la cattiva riuscita in ambito non digitale – come per esempio la chirurgia effettuata attraverso una strumentazione robotica – può causare danni non accettabili. La peculiarità in questi casi, infatti, è data dal fatto che queste tecniche di apprendimento, in realtà, non ripropongono in versione digitale quelle azioni che poi dovranno essere effettuate nella dimensione materiale, bensì esattamente la situazione di gestione digitalizzata di azioni da effettuare poi nel mondo reale e materiale.

Se invece si pensa alla trasmissione di saperi teorici e complessi, la questione è completamente differente, ma anche in questo caso si deve tenere conto delle dimensioni tecnologiche coinvolte. Si tenga infatti presente un dato, a metà tra lo storico e l’antropologico: al momento – e circa da qualche centinaio di anni – la tecnologia attraverso la quale passa l’approfondimento maggiore è la lettura, grazie ai processi gnoseologici che nel corso dei secoli si sono strutturati, e, correlata a questa, la scrittura. Dal Medioevo in poi, anche senza segnare un anno preciso come ha tentato di fare Illich, la lettura silenziosa, quella che avviene nella mente, permette una vera e propria temporalizzazione differente, molto più rapida e istantanea. La trasmissione di saperi più profondi può essere una sempre differente mistura di spiegazione orale, di approfondimento legato alla dimensione situazionale, di esercizio, di media visuali e sonori, di ipertesti digitali, etc.; questi però, ancora oggi, non sono in grado, se presi isolatamente, di assicurare una efficacia istruttiva e una profondità intensa e effettiva paragonabile a quella che si ottiene con la lettura.

Cosa manca allora ai serious game per riuscire a essere efficaci? Proprio quegli elementi che caratterizzano il bisogno del gioco, una forma diversa di allenamento alla nuova sopravvivenza che spesso si modifica in funzione dell’età anagrafica e del proprio rapporto con il mondo interno e con quello esterno. In parte, questi meccanismi, in versione ipersemplificata, sono quelli che venivano mutuati nel processo di Gamification e che di solito, per altro, non vengono bene utilizzati e quindi, non attivando i meccanismi del piacere, depauperano l’esperienza ludico/istruttiva esattamente degli elementi essenziali di quell’esperienza, rendendola quindi completamente inefficace. È possibile ipotizzare che un’eventuale architettura per includerli e mantenere allo stesso tempo la dimensione pedagogica sia semplicemente risultata troppo complessa per i processi di produzione, almeno dal punto di vista delle risorse economiche e umane impiegate per la progettazione.

I digital games come forma di apprendimento delle tecnologie di base

Come si è visto, il videogioco viene utilizzato per il piacere ad esso connesso e questo avviene, oggi, sin dai primi anni di vita. Senza toccare per niente il vastissimo e controverso dibattito pedagogico sui possibili effetti positivi o negativi dell’esposizione precoce all’immersione digitale dei bambini, si deve qui tenere in conto che essenzialmente l’apprendimento delle tecniche di funzionamento è un reale autoapprendimento, fatto per tentativi. Così vengono oggi sviluppate le prime competenze digitali, che saranno poi le basi sulle quali si svilupperanno tutte quelle che sono poi diventate conoscenze necessarie per la pratica quotidiana delle esperienze scolastiche e della cittadinanza.

Dalle ricerche a casa, passando per le presentazioni digitali e finendo all’uso consapevole e programmato delle intelligenze artificiali come Chat GPT, passando per i libri digitali con gli esercizi annessi, senza citare l’eventuale didattica a distanza, le competenze digitali nell’attuale sistema scolastico sono essenziali per tutte le attività quotidiane, paragonabili solo alle capacità di leggere e di fare di conto. Senza tenere conto che bisogna assolutamente padroneggiare anche l’intero ecosistema generale di funzionamento, dai sistemi operativi, alle installazioni, dagli aggiornamenti alle conoscenze tecniche dei software o delle app (cioè dei software in forma ridotta), fino all’utilizzo del cloud, etc.

L’intera gamma di queste competenze necessarie, nel corso dell’infanzia viene praticamente sviluppata attraverso l’uso dei videogiochi, senza che ci sia invece una vera programmazione, pubblica e collettiva, di governo di questo sviluppo, sia per implementarlo con correttezza, profondità e senso, sia per eliminare e superare eventuali ineguaglianze o carenze.

Si aggiunga poi che al giorno d’oggi molte forme di esercizio di una cittadinanza attiva si svolgono o si effettuano esclusivamente attraverso modalità digitali, dalle certificazioni pubbliche ai rapporti con le amministrazioni e gli istituti di previdenza come l’INPS, l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, che, per non fare che un semplice e solo esempio, hanno iniziato a fare dell’accessibilità digitale dei singoli cittadini addirittura un vanto, senza rendersi conto del baratro tecnologico nel quale vive la popolazione più avanti negli anni. È sinceramente imbarazzante, infatti, che l’uso delle tecnologie digitali, che è una delle competenze indispensabili nella realtà contemporanea – non solo in quella lavorativa ma in quella quotidiana – si apprenda semplicemente attraverso un “prova, riprova e passaparola”, senza che lo Stato e la collettività si occupino di costruire le condizioni necessarie per questo apprendimento.

I videogiochi sono diventati nel corso degli anni un vero e proprio esercizio per la sopravvivenza, allora, attraverso il quale si apprendono, in un ambiente delimitato e più semplice da gestire della realtà fisica esterna, quelle competenze che storicamente si esercitano e costruiscono attraverso il semplice gioco. Per una imprevedibile eterogenesi dei fini invece essi sono oggi lo strumento attraverso il quale si sviluppano, autonomamente, delle competenze specifiche che poi saranno necessarie nel lungo percorso dell’istruzione, nella vita lavorativa e nell’esercizio di diritti e doveri della cittadinanza.

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L'autore

Claudio Franchi