La rivista

Politiche educative

Celebrare e rilanciare la scuola democratica

Il 31 maggio 1974 vengono promulgati i Decreti Delegati che riformano profondamente il funzionamento e l’organizzazione della scuola italiana; tuttavia il mondo della scuola di allora non può permettersi di festeggiarne l’entrata in vigore perché ancora scosso dal dolore e dal lutto che l’hanno colpito pochi giorni prima, il 28 maggio, in Piazza della Loggia a Brescia. Nell’attentato terroristico di matrice nera persero la vita, oltre ad un ex partigiano da poco in pensione, Euplio Natali, e a due operai, Bartolomeo Talenti e Vittorio Zambarda, cinque giovani insegnanti iscritti alla CGIL Scuola: Giulietta Benzi Bartoli, Livia Bottardi Milani, Clementina Calzari Trebeschi, Luigi Pinto, Alberto Trebeschi. Cinque insegnanti nel pieno della giovinezza e della carriera che non vedranno mai lo sviluppo della scuola democratica iniziato con la Costituzione del 1948 ma fino ad allora in larga parte disatteso. Rileggere le vicende che portarono alla promulgazione dei Decreti Delegati del 1974, analizzarne il significato profondo e l’influenza che hanno avuto sugli sviluppi successivi del sistema formativo italiano, vuole innanzi tutto essere un atto di riconoscenza per le colleghe e i colleghi che persero la vita per manifestare in nome della libertà di pensiero.

Le prospettive di studio: un approccio eccentrico

I Decreti Delegati del 1974 non si limitano ad introdurre nuove norme inerenti al funzionamento della scuola. Essi, sebbene al netto di un impianto di fondo moderato e compromissorio teso a salvaguardare la primazia dell’azione ministeriale su quella locale, veicolano una nuova idea di scuola che era maturata nel corso del trentennio successivo alla caduta del regime fascista e che per la prima volta si poneva in netta discontinuità nei confronti delle due grandi leggi scolastiche che avevano fino ad allora regolato il sistema formativo italiano; la Legge Casati del 1859 e la Riforma Gentile del 1923. Queste due leggi, più in continuità tra di loro che in contrapposizione[1], legittimarono un’idea di scuola selettiva, classista e sessista, impregnata di una filosofia dell’educazione borghese e conservatrice, che rispecchiava l’ideologia politica dei governi che le promulgarono. La Costituzione prima e i Decreti Delegati poi, rifiutano questa impostazione e propongono una visione alternativa dei processi formativi istituzionali, mettendo al centro il successo formativo di tutti gli alunni e di tutte le alunne, la libertà di insegnamento dei docenti, la collegialità dell’azione didattica, la gestione sociale della scuola e molto altro ancora.

Si tratta dunque di un fenomeno culturale, politico, pedagogico molto complesso, che per essere letto in profondità necessita di plurime prospettive di indagine: quelle storico-educativa e pedagogico-didattica per comprendere il significato educativo delle riforme introdotte; quella giuridico-politica per coglierne il senso normativo; quella sociologico-culturale per apprezzarne il nesso con la cultura dell’epoca e le risonanze, i legami, le influenze ma anche le differenze con quella contemporanea. Nel corso del presente contributo adotteremo tali prospettive di indagine senza ovviamente voler esaurire l’argomento, che per sua natura mal si presta ad una trattazione sintetica e veloce. Adotteremo un approccio eccentrico rispetto al tema principale che vogliamo analizzare, partendo da piste apparentemente molto lontane dai nostri Decreti Delegati, lontane anche dalla riflessione pedagogica-scolastica, per poi ritornarci sopra con nuovi strumenti interpretativi. Il fatto educativo, questo è l’assunto metodologico di fondo, non può mai essere disgiunto dal contesto sociale dal quale scaturisce, altrimenti se ne perde il senso, il significato, la genesi e la direzione.

In particolare, la tesi che si vuole sostenere è quella che vede nella filosofia politica, sociale e pedagogica dei Decreti Delegati l’espressione di una cultura che proprio in quegli anni si stava esaurendo e forse questo ne determinerà il parziale insuccesso già a partire dagli anni Ottanta. Ma il seme, seppure in ritardo, era stato gettato, e oggi, così vicini, cinquant’anni sono pochissimi, ma così lontani, viviamo in un altro mondo rispetto a quello degli anni Settanta del Novecento, possiamo ancora cogliere i frutti di quella stagione e innestarli nel presente perché la scuola democratica non si raggiunge mai una volta per tutte ma si costruisce nel tempo, passo dopo passo.

Lo sfondo geopolitico: fine del trentennio d’oro del capitalismo, distensione bipolare USA-URSS, avvio del neoliberismo

Gli anni Settanta del Novecento rappresentano un periodo particolarmente significativo nell’evoluzione della cultura e della società occidentali. Dal punto di vista della politica internazionale siamo ancora in piena Guerra Fredda ma proprio durante gli anni Settanta viene raggiunto l’apice della strategia della distensione tra le due superpotenze allora dominanti, gli USA e l’URSS, che avviano relazioni diplomatiche finalizzate a regolamentare la loro contrapposizione, in primo luogo quella relativa all’uso delle armi nucleari, e le rispettive zone di influenza, rappresentate rispettivamente dai Paesi aderenti alla NATO e da quelli inclusi nel Patto di Varsavia. È la politica dell’equilibrio di potenza elaborata dal Presidente americano R. Nixon (che proprio nel 1974 si dimise a causa dello scandalo Watergate) e dal Segretario di Stato H. Kissinger, che nel 1972 incontrarono Mao Zedong e nel 1973 Leonid Breznev, al centro degli incontri la guerra del Vietnam che si concluse solo nel 1975 con la ritirata degli Stati Uniti.

Nell’Europa occidentale e mediterranea si estinguono le ultime dittature totalitarie, quelle di Grecia, Spagna e Portogallo, e si affermano quasi ovunque forme di democrazia parlamentare basate sul suffragio universale e sulla dialettica tra partiti politici progressisti e conservatori. Dal punto di vista economico gli anni Settanta vedono la conclusione di un ciclo produttivo espansivo seguito alla fine della Seconda guerra mondiale, il trentennio d’oro del capitalismo industriale (1945/1975), un periodo caratterizzato da una lunga fase di crescita economica e di piena occupazione per molti Paesi occidentali, caratterizzato dalla diffusione dell’industria di prodotti destinati al consumo di massa, secondo quello che viene definito modello scientifico dell’organizzazione del lavoro, il modello taylorista e/o fordista[2]. Questo trentennio genera in occidente, e particolarmente in Europa, nuove soggettività, in particolare i lavoratori salariati e dipendenti, ovvero la classe operaia e la classe media impiegatizia, e i loro rappresentanti, partiti di massa e sindacati. Soggettività già presenti nel Novecento e anche prima ma che adesso trovano un ruolo e una collocazione politica più strutturati ed entrano a pieno titolo all’interno delle dinamiche democratiche dei governi nazionali[3]. Grazie all’azione di queste soggettività si avvia, soprattutto in Europa occidentale e mediterranea, una terza via di governo alternativa sia al capitalismo industriale liberista sia al capitalismo di stato comunista, basata su un nuovo patto tra reddito da lavoro salariale e redditi da capitale. Il lavoro deve essere tutelato e protetto e il reddito da lavoro deve poter crescere progressivamente a seguito della crescita dei profitti da capitale. Inoltre, lo Stato si impegna a garantire la formazione di tutta una serie di protezioni sociali, in larga misura gratuite o comunque a basso costo e universali, in grado di sostenere le famiglie nella loro vita quotidiana: sanità, istruzione, pensioni, abitazione, mobilità, ecc. Ma proprio nel 1973 si verifica la prima battuta di arresto di questo processo economico-produttivo, la prima crisi petrolifera che semina il panico tra i Paesi industrializzati dell’Occidente e in particolare in Italia, totalmente dipendente per il suo vertiginoso sviluppo industriale dalle importazioni di greggio. È una spia che si accende ma che in pochi colgono nel suo reale significato, l’illusione di un capitalismo industriale in continua ascesa e immobile nella sua struttura di fondo stava svanendo, si trattava invece di una forma storicamente determinata di capitalismo giunta al capolinea proprio nella metà degli anni Settanta. Da lì in poi inizia un altro mondo, il nostro: delocalizzazione, finanziarizzazione, rivoluzione digitale, globalizzazione, capitalismo cognitivo, società dell’informazione, ecc., sono tutte espressioni che rappresentano il cambio di passo nelle politiche economiche e produttive che si verifica nella seconda metà degli anni Settanta e che preparano la strada a quelle degli anni Ottanta, impersonate dalle figure di Ronald Reagan e Margaret Tatcher presto seguite anche da molti governanti del Vecchio Continente[4]. Le politiche economiche redistributive e la formazione di uno stato sociale protettivo si interrompono più o meno bruscamente in buona parte dell’Europa, tutto diventa mercato e tutto può essere monetizzato, emerge una nuova soggettività, quella del consumatore. Poi arriva, a sorpresa, il 1989 e niente sarà come prima, il bipolarismo cede il passo all’approccio multipolare, nuove potenze si affacciano sullo scacchiere internazionale, Cina e India in primis, il resto è storia dei giorni nostri: la faglia apertasi nel 1989 non si è ancora assestata e la guerra in Ucraina né è la prova tangibile.

La cultura pop, le nuove generazioni culturali tra conformismo e ricerca di nuove identità, la rivoluzione digitale

Difficile cogliere in questo complesso movimento storico, qui solo presentato di sfuggita, la differenza di ruolo tra struttura e sovrastruttura nella diffusione di nuovi modelli culturali che segnano il passaggio verso lo scenario contemporaneo. Quando M. Horkheimer e T.W. Adorno emigrano in America per sfuggire al nazismo, restano colpiti dalla potenza della cultura di massa che proprio allora si stava diffondendo negli Stati Uniti e che poi avrebbe invaso l’Europa ed è all’interno del loro volume Dialettica dell’Illuminismo che compare l’espressione industria culturale, forse la più pertinente per spiegare il fenomeno del consumo culturale che arriva fino ai giorni nostri[5]. Alla logica dello studio e della riflessione come strumenti per impossessarsi criticamente della cultura subentra quella del divertimento e del consumo (di tempo, di beni, di relazioni) come mezzi per l’affermazione individuale e per lo sviluppo del senso di appartenenza a precisi gruppi di riferimento. Esce proprio nel 1974 negli USA una serie televisiva destinata ad avere un enorme successo anche in Europa e in particolare in Italia: Happy Days. La serie presenta le vicende di una tipica famiglia americana a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento (in questa collocazione nel passato c’è già un sentore del sentimento della nostalgia oggi così radicato nella cultura contemporanea), casa di proprietà, automobili, moto, pub, scuola, feste, musica, insomma tutto l’armamentario ideologico del sogno americano presentato sotto la luce rassicurante delle relazioni parentali e amicali; è un primo assaggio della cultura seriale televisiva che oggi spopola nelle piattaforme on-demand e anche nei palinsesti delle tv generalistiche. Ma non c’è solo e sempre conformismo nei prodotti dell’industria culturale; prima di Happy Days, dal 1970 al 1977, sempre negli Stati Uniti, viene prodotta un’altra sit-com destinata ad avere molto successo, Mary Tayler Moore, che racconta la vita quotidiana di una giovane donna single e indipendente, impiegata come giornalista televisiva in una piccola emittente locale; dal 1971 al 1979 viene messa in onda All in the family, in Italia trasmessa con il titolo Arcibaldo, all’interno della quale vengono trattati temi scottanti della cultura contemporanea senza mai cedere al politicamente corretto, dall’omosessualità all’alcolismo, dal razzismo al femminismo, ecc.[6] Non meno rilevante la rivoluzione musicale, sempre nel 1974 esce Waterloo il secondo album degli Abba, un gruppo pop svedese che proprio con quell’album raggiunge una fama mondiale, si apre una nuova stagione per la musica pop, che diventa musica dance ormai del tutto sganciata da qualsiasi forma di relazione con il contesto sociale dal quale scaturisce ma in fondo in continuità con le esperienze primigenie dei Beatles e delle Supremes degli anni Sessanta[7]. È una musica prodotta per essere consumata in quello che sta per diventare il nuovo tempio della cultura musicale di massa: la discoteca, celebrata nel film del 1977 La febbre del sabato sera, vero e proprio manifesto degli anni Ottanta del Novecento e, a uno sguardo più attento, ancora assolutamente attuale nei contenuti di fondo[8].

Nella cultura pop cinematografica, televisiva, musicale che si sviluppa negli anni Settanta e che è alla base di quella contemporanea, c’è dunque anche spazio per la rivendicazione di diritti e nuove appartenenze, si pensi a quelle relative alle identità di genere veicolate dal divismo dance; la protesta è ammessa purché sia in grado di generare profitti. Non vogliamo affrontare in questa sede un fenomeno così complesso[9], quello che vogliamo sottolineare è il passaggio, anzi la migrazione, dei processi formativi dell’identità culturale del soggetto, dalle istituzioni classiche, famiglia, scuola, chiese, ai prodotti e ai processi dell’industria culturale e dei consumi di massa. Bambini e bambine, ragazzi e ragazze iniziano a formarsi a seguito dell’esposizione precoce, intensa e prolungata ai prodotti e alle tecnologie dell’industria culturale e dei consumi di massa: televisione, radio, cinema, riviste, ecc.[10]

Questo fenomeno investe in pieno quella che viene denominata Generazione X, ovvero i nati tra il 1965 e il 1979 (l’unica in grado di ricapitolare nella e con la propria esistenza tutte le rivoluzioni culturali successive agli anni ’60 del Novecento, una sorta di generazione ponte tra i due secoli e proprio per questo destinata ad essere esclusa da entrambi); lambisce solo in parte gli ultimi Baby Boomers, i nati tra il 1946 e il 1964, mentre diventa un fenomeno strutturale per i Millennials, nati tra il 1980 e il 1996 che raggiungono la maturità nel nuovo millennio, per la Generazione Z, i nati tra il 1996 e il 2009 nell’era di internet, e per la Generazione Alpha, tutti nati nel nuovo secolo, dal 2010 ai giorni nostri, in piena rivoluzione digitale, circondati da computer, tablet, cellulari. La migrazione dei processi formativi iniziata con la Generazione X, i nativi televisivi, è ormai compiuta, gli spazi e i tempi della formazione sono completamente disintermediati e dematerializzati dalle tecnologie digitali[11].

Oggi in una scuola qualunque troviamo riunite tutte queste generazioni culturali, che spesso sembrano formate da individui appartenenti a specie diverse, tanto sono differenti i paradigmi culturali che li hanno forgiati, eppure, a ben guardare, ci sono elementi di continuità; tutte esprimono, sebbene con gradazioni diverse, la rivoluzione culturale e scientifica del Novecento, quella inaugurata dai due saggi di A. Einstein del 1905 e del 1915, i due pilastri sui quali si fonda la contemporaneità. Mentre le generazioni precedenti al 1965, compresi i Baby Boomers, nascono e crescono ancora all’interno del paradigma euclideo, galileiano e newtoniano, secondo il quale lo spazio è un contenitore e il tempo una freccia che corre sempre alla stessa velocità e in un’unica direzione, quelle successive nascono e crescono in un ambiente culturale dominato da tecnologie postnewtoniane, basate su una nuova fisica, quella di Einstein, e non solo la sua, per le quali lo spazio e il tempo non sono più valori assoluti, ma relativi, e proprio queste nuove tecnologie permettono al soggetto contemporaneo di vivere l’esperienza dell’ubiquità, del viaggio nel tempo, dell’eternità e dell’infinito, trasformando il soggetto stesso in informazione digitale. È un nuovo modo di vivere il mondo, le relazioni con gli altri e con se stesse/i[12].

Le vicende italiane ovvero la terza via interrotta

Forse rischiando di degradare verso un certo provincialismo nostrano, possiamo sostenere che l’Italia degli anni Settanta riesce ad esprimere in modo esemplare buona parte di quei mutamenti culturali prima appena accennati; quasi un caso di studio classico per comprendere le dinamiche politiche, sociali, culturali dell’epoca. Con una particolarità ben precisa: verso la fine della prima metà degli anni Settanta, due politici italiani, Enrico Berlinguer e Aldo Moro, leaders dei due maggiori partiti del Paese, il Partito Comunista Italiano e la Democrazia Cristiana, iniziano a pensare ad un progetto politico di lunga durata basato sul dialogo e sulla concertazione tra tutte le parti interessate, purché disposte ad accettare i vincoli della democrazia parlamentare, e soprattutto in autonomia rispetto alle cancellerie degli Stati vincitori della Seconda guerra mondiale, in particolare di quelle statunitensi, britanniche e sovietiche. Un progetto troppo visionario, troppo autentico, troppo slegato da interessi economici e politici particolari per essere accettato dal consesso internazionale e anche da buona parte del sistema politico nazionale[13].

I due politici avevano iniziato a frequentarsi regolarmente spinti dalla volontà di comprendere e governare la transizione economica e politica ormai evidente nei primi anni Settanta, la fine del ciclo espansivo del Boom economico poteva essere rischiosa se non veniva opportunamente mediata dal sistema politico e anche il bipolarismo tra USA e URSS ormai sembrava del tutto inadeguato per interpretare un mondo che andava sempre più allargando i propri confini sia verso il Sud del Pianeta che verso l’Est. Il capitalismo si stava internazionalizzando e sorgevano nuovi monopoli che guardavo ben oltre le appartenenze nazionali e proprio l’Italia aveva già iniziato a pagare il conto della nuova organizzazione economico-politica. I casi ENI e Olivetti sono a tal proposito esemplari. L’ENI degli anni Sessanta guidata da Enrico Mattei osa sfidare le Sette Sorelle petrolifere, sigla in autonomia accordi economici con i Paesi produttori di petrolio, perfino con l’Unione Sovietica, ai quali assicura il 75% dei ricavi totali. Enrico Mattei muore il 27 ottobre 1962 in quello che oggi sappiamo non essere stato un incidente; indagini condotte con le nuove tecnologie hanno dimostrato la presenza di materiale esplosivo all’interno dell’areo su cui viaggiava[14]. L’Olivetti presenta nel 1965 la Programma 101, definita da molti il primo esempio di Desktop Computer, che si sviluppò poi nel 1975 in due nuovi personal computer uno dei quali dotato per la prima volta di floppy disk. Tuttavia, già nel 1964, i nuovi azionisti del gruppo industriale, decisero di vendere alla General Electric la Divisone Elettronica dell’azienda, segnando così il destino di un’esperienza che comunque riuscì a sopravvivere ancora un ventennio circa grazie all’ideazione di molti prodotti di successo ma che non poteva più competere con i colossi americani dell’industria elettronica[15].

In questo complesso panorama economico e politico si inseriscono E. Berlinguer e A. Moro. Il primo scrive tre articoli nel 1973 sulla rivista Rinascita per commentare il golpe reazionario che, con l’aiuto degli Stati Uniti, ha rovesciato il governo di S. Allende e, temendo un analogo sviluppo in Italia peraltro già tentato dal golpe Borghese del 1970, propone il cosiddetto compromesso storico tra i due più grandi partiti italiani (PCI e DC); il secondo, che aveva guidato i primi governi di centrosinistra degli anni Sessanta che però prevedevano la sola collaborazione con il PSI e l’esclusione del PCI, promuove la cosiddetta strategia dell’attenzione verso la proposta di un governo con il PCI e ottiene l’astensione dei comunisti per la formazione del Governo Andreotti VII (1976) con l’impegno di concordare preventivamente l’azione di governo[16].

Il progetto politico di Berlinguer e di Moro incontrò fortissime resistenze sia all’interno che all’esterno del Paese; la strategia della tensione provocata dagli attentati portati a termine da formazioni neofasciste, tra i quali quello di Brescia citato in apertura e poco dopo quello ancora più cruento dell’agosto 1974 sul treno Italicus, e il terrorismo delle brigate rosse, che portò al rapimento e all’uccisione di Aldo Moro, ne decretarono l’archiviazione definitiva. La terza via italiana di governo democratico dei processi produttivi, economici e culturali era stata definitivamente interrotta, con grande sollievo di alcune cancellerie internazionali.

I Decreti Delegati del 1974: verso una scuola democratica?

Nei paragrafi precedenti abbiamo tentato, velocemente e sommariamente, citando solo alcuni episodi e questioni tra i tanti dell’epoca, di rappresentare alcuni tratti culturali del periodo storico in cui vennero promulgati i Decreti Delegati del 1974, che tanta influenza ebbero e hanno tuttora nel funzionamento del sistema scolastico italiano. La Legge Delega del 1973 e i rispettivi Decreti Delegati del 1974 furono emanati durante due governi presieduti da Mariano Rumor, con Aldo Moro ministro degli esteri, gli ultimi governi di centrosinistra formati da DC, PSI, PSDI e PRI. Governi deboli e di poca durata che però si inseriscono all’interno di un processo di riformismo sociale finalizzato a riprendere e realizzare il progetto politico attivato dalla Costituzione del 1948 e che proprio negli anni Settanta si concretizza in importanti innovazioni normative: lo Statuto dei lavoratori (1970), le prime elezioni regionali (1970), la legge sulla legittimità del divorzio approvata nel 1970 e confermata da un referendum popolare nel 1974, il riconoscimento dell’obiezione di coscienza al servizio militare (1972), la legge di riforma della RAI (1975), l’abbassamento della maggiore età a 18 anni (1975), la legge sui trattamenti sanitari volontari e obbligatori detta Legge Basaglia (1978), l’istituzione del Servizio sanitario nazionale (1978), la legalizzazione e depenalizzazione dell’aborto (1978) e molti altri interventi normativi che modificarono profondamente lo Stato e la società italiani. E la scuola?

Anch’essa come la maggior parte delle altre istituzioni statali pagava gli esiti dell’egemonia centrista degli anni Cinquanta e dei primi anni Sessanta, che videro l’esclusione dei partiti di sinistra dal governo del Paese. I Programmi del 1955 per la scuola elementare ben rappresentano tale egemonia: riportano la religione cattolica a fondamento e coronamento dell’istruzione elementare, propongono un’idea di fanciullo tutto intuizione e fantasia, una didattica vagamente attivista che elimina qualsiasi riferimento a forme di autogoverno degli alunni, una concezione classista della scuola con al centro la figura del maestro[17]. Nel 1962 viene finalmente istituita la scuola media unica, senza il latino, gratuita e obbligatoria, ma i programmi didattici adeguati al nuovo ordinamento arriveranno solo nel 1979; nel 1968 tocca alla scuola materna statale, nel 1971 esce una legge sulla possibilità di istituire scuole a tempo pieno[18]. In tutto questo lento procedere verso la costituzione del sistema formativo italiano, manca un progetto culturale e pedagogico preciso, inoltre buona parte del sistema è ancora regolato da normative emanate durante il regime fascista o addirittura liberale; in particolare manca una chiara regolazione dello statuto giuridico degli insegnanti e la scuola secondaria, compresa la formazione dei professori, è ancora del tutto legata al modello gentiliano. Non dimentichiamo poi che all’interno di questo periodo si assiste a livello internazionale alla nascita del movimento studentesco (1968) che proprio del rinnovamento scolastico e accademico farà la propria bandiera; un movimento complesso e variegato che in questa sede non possiamo analizzare ma le cui istanze[19], in particolare quella relativa alla partecipazione diretta dei cittadini al funzionamento delle istituzioni pubbliche, sebbene fortemente filtrate dal sistema politico e dagli apparati del ministero per la pubblica istruzione, si possono intravedere all’interno dei Decreti Delegati del 1974.

All’immobilismo legislativo che si traduce in un lento, prudente e poco coordinato riformismo ministeriale del sistema scolastico si contrappone a livello di ricerca pedagogica e didattica un vivace dibattito. È il periodo d’oro della pedagogia italiana, che vede i principali atenei italiani, tra i quali spicca la Facoltà di Magistero di Firenze, che attraverso la casa editrice La Nuova Italia traduce e pubblica buona parte delle opere di J. Dewey[20], impegnati nel rinnovamento della ricerca filosofico-educativa, storico-pedagogica, didattico-metodologica, per recuperare il tempo perduto durante il ventennio fascista. Ma non è solo il mondo accademico a rilanciare il dibattito pedagogico e didattico, un ruolo fondamentale viene svolto anche dai cosiddetti maestri o pedagogisti non togati, che animano dalla base il rinnovamento della scuola italiana: don Lorenzo Milani, Bruno Ciari, Loris Malaguzzi, Mario Lodi e molti altri tra i quali spiccano nomi del calibro di Gianni Rodari e Italo Calvino. Questo insieme variegato di docenti, scrittori, pedagogisti, ecc., è animato dalla volontà di realizzare in pieno quel modello di scuola democratica prefigurato dalla Costituzione italiana nel 1948 e ancora non del tutto realizzato negli anni Settanta[21].

È in questo quadro generale che prendono forma la Legge delega 477 del 30 luglio 1973 e i relativi Decreti Delegati del 1974 ( n. 416, gli organi collegiali nelle scuole di ogni ordine e grado, n. 417, lo stato giuridico del personale docente, direttivo e ispettivo, n. 418, il compenso per il lavoro straordinario del personale scolastico, n. 419, sperimentazione, ricerca educativa e aggiornamento professionale, 420, stato giuridico del personale non docente); a questo punto possiamo passare ad analizzarne i principi di fondo e i contenuti essenziali.

Comunità educante, partecipazione, gestione sociale, collegialità

I principi alla base del complesso di norme previste dai Decreti Delegati sono pochi ma netti nella loro formulazione. L’intento è quello di realizzare una comunità educante allargata, che coinvolge la scuola, la famiglia, le imprese e, in generale, tutta la società civile. Si tratta di un notevole passo in avanti rispetto alla pedagogia ministeriale degli anni del centrismo che vedeva nella famiglia l’interlocutore privilegiato della scuola e in definitiva il luogo principale ed esclusivo della formazione di ragazzi e ragazze. Ma che cos’è la comunità educante? Negli anni Settanta inizia a prendere forma l’idea di sistema formativo integrato che tanta fortuna avrà nei decenni successivi soprattutto grazie alle ricerche di un luminare della pedagogia laica italiana, il compianto Prof. Franco Frabboni[22], ovvero di un sistema formativo all’interno del quale scuola, famiglia, imprese, società civile, associazionismo, collaborano per realizzare la piena formazione di alunne e alunni e il loro inserimento attivo nella società. La scuola inizia a perdere il primato assoluto nella formazione e nell’istruzione degli alunni, per avviarsi verso la stagione del policentrismo formativo, in cui si affiancano alla scuola, e alla famiglia, nuovi attori formativi. Per raggiungere questo obiettivo è necessario abbattere quei muri che da sempre circondano e isolano le istituzioni scolastiche, rendendole spazi isolati dal resto della comunità e in larga misura autoreferenziali.

La scuola deve aprirsi per fare entrare la società al suo interno, garantendo forme di partecipazione attiva di genitori, associazioni, imprese, ecc. al governo della scuola; si parla pertanto di gestione sociale delle istituzioni scolastiche proprio per ribadire questa forma mista di governo delle istituzioni[23].

Le regole della comunità educante, ovvero la partecipazione attiva dei tanti attori coinvolti attraverso un sistema di organi e regole democratici che traggono la loro ispirazione profonda dal dettato costituzionale repubblicano, valgono anche per il funzionamento organizzativo, pedagogico e didattico delle scuole. L’attività didattica non è più vista come il risultato di una prestazione personale di ogni singolo docente ma come il frutto dell’azione collegiale di tutti i docenti che trova nel collegio dei docenti, presieduto dal capo di istituto, il luogo principe per deliberare in merito al funzionamento didattico della scuola. Inoltre l’organizzazione e l’azione didattica vengono orientati anche dal supporto, dai pareri e dai contributi provenienti da altri organi collegiali in cui sono presenti componenti esterne al corpo dei docenti: il consiglio di classe (di interclasse e di intersezione nella scuola primaria e in quella dell’infanzia) in cui troviamo i rappresentanti dei genitori eletti da e tra tutti i genitori di classe e, nelle scuole secondarie, anche i rappresentanti degli studenti; il consiglio di circolo o di istituto, presieduto da un genitore e formato da rappresentanti di tutti gli attori coinvolti nel processo educativo compreso il personale non docente e gli organi collegiali locali distrettuali e provinciali, nei quali trovano posto anche i rappresentanti della società civile e professionale.

In questa prospettiva gli organi collegiali sembrano assumere il ruolo di momenti e spazi di intermediazione politica tra il centro e la periferia, tra il vertice e la base, tra scuola ed extrascuola, ma anche quello di concertazione professionale interna alle singole istituzioni scolastiche. Questo ruolo di intermediazione politica, che ricalca in parte quello dei partiti politici e dei sindacati previsto dalla Costituzione del 1948, viene realizzato attraverso forme di democrazia diretta, come nel caso del collegio dei docenti che è composto da tutti i docenti in servizio nella scuola e dal capo di istituto, e da forme di democrazia rappresentativa negli altri organi collegiali, all’interno dei quali i rappresentanti di genitori, studenti, imprese, enti locali, ecc., esprimono la delega ricevuta tramite libere elezioni.

Programmazione, valutazione, sperimentazione, aggiornamento, professionalità del personale docente, direttivo, ispettivo

I Decreti Delegati non intervengono solo nell’organizzazione politica e amministrativa delle scuole, essi rinnovano profondamente anche alcuni importanti aspetti professionali, pedagogici e didattici, che erano rimasti inalterati per buona parte della storia della scuola italiana[24].

In primo luogo, viene introdotta la pratica della programmazione educativa e didattica, ovvero della pianificazione nel tempo e nello spazio dell’insegnamento; una pianificazione che non si esaurisce più nella sola elencazione dei contenuti di insegnamento, il vecchio piano di lavoro che elaborava ogni singolo docente, ma nella stesura di una sequenza di obiettivi, metodologie e forme di valutazione che hanno lo scopo di prefigurare lo svolgimento dell’azione didattica. In questa sequenza la valutazione, che si estende anche ai momenti iniziali e centrali dell’azione didattica, perde la funzione di selezione che aveva sempre ricoperto per acquisire quella formativa, ovvero promuovere il processo formativo di ogni alunno e alunna, e regolativa, ovvero favorire l’autocorrezione delle attività didattiche in base ai risultati delle prove di valutazione. Il tutto, come abbiamo già detto, all’interno di un processo collegiale e democratico, coinvolgendo tutti gli attori e i destinatari dell’azione didattica.

Un rinnovamento di tale portata dell’organizzazione didattica e pedagogica della scuola richiede un’azione continua di aggiornamento dei docenti e di tutto il personale scolastico, un rapporto strutturale con la ricerca e la sperimentazione educativa, un nuovo profilo professionale del personale docente, direttivo e ispettivo.

Per questo motivo i Decreti Delegati prevedono la formazione universitaria per i docenti di tutti gli ordini di scuola, norma a lungo disattesa, inoltre valorizzano la formazione e l’aggiornamento continui dei docenti attraverso la creazione di appositi istituti regionali (IRRSAE, Istituti Regionali di Ricerca Sperimentazione Aggiornamento Educativi), all’interno dei quali troviamo personale docente, direttivo e ispettivo appositamente distaccato per svolgere attività di promozione e coordinamento dell’aggiornamento professionale e della sperimentazione educativa. Quest’ultima viene concepita come un’attività che nasce dall’interno della scuola, non calata dall’alto, per rispondere a esigenze di adattamento e rinnovamento dell’organizzazione scolastica e dell’azione didattica.

Cambiano, in questo quadro generale, anche le diverse professionalità del personale scolastico. I docenti non vengono più considerati esclusivamente come dei trasmettitori di conoscenze, ma anche e soprattutto come degli attori culturali, in grado cioè di coinvolgere alunni, alunne e famiglie nel processo di elaborazione della cultura. Inizia a farsi strada l’idea di un profilo professionale dei docenti organizzato intorno a precise competenze, che tanta fortuna avrà nei successivi Contratti di lavoro nazionale del comparto scuola: le competenze contenutistiche o epistemologiche, tradizionalmente ritenute quelle esclusive e tipiche dei docenti, le competenze psicopedagogiche, collegate agli sviluppi della ricerca psicoevolutiva successiva al secondo dopoguerra (si pensi a Piaget), le competenze metodologiche e didattiche, che vanno ben oltre la capacità di realizzare lezioni frontali e che prevedono un variegato repertorio di strumenti e tecniche didattici elaborato in particolare all’interno del paradigma della scuole nuove e di quelle attive (Dewey, Freinet, Cousinet, Montessori, Decroly, ecc.), le competenze relazionali e organizzative, che riguardano la gestione delle relazioni interne al gruppo classe e di quelle con le famiglie di alunne e alunni nonché l’organizzazione dei tempi, degli spazi e delle risorse dell’azione educativa[25].

Non meno rilevante il rinnovamento del profilo professionale di direttori didattici, presidi e ispettori. Nell’architettura organizzativa ministeriale disegnata dalla Legge Casati (1859) e dalla Riforma Gentile (1923), capi di istituto e ispettori svolgevano un ruolo fondamentale per garantire l’applicazione delle norme stabilite in sede ministeriale. I loro erano soprattutto compiti di vigilanza e controllo e se da una parte erano del tutto subordinati al potere ministeriale, dall’altra esercitavano un potere quasi assoluto nei confronti di docenti e alunni/e. In particolare, i direttori didattici e i presidi potevano intervenire sulla progressione economica dei docenti grazie alle note di qualifica che redigevano annualmente su ognuno di loro; inoltre potevano stabilirne arbitrariamente il trasferimento d’ufficio in altre sedi. Come appare evidente il modello di riferimento al quale si erano rivolti i politici responsabili delle norme scolastiche in età liberale e fascista era quello della caserma militare, che prevedeva l’istituzione di una serrata gerarchia tra i vari attori dell’istruzione scolastica, a partire dal ministro fino ad arrivare al singolo alunno.

I Decreti Delegati modificano radicalmente questa impostazione; presidi e direttori didattici vengono caratterizzati da compiti di coordinamento e raccordo dell’azione pedagogica e didattica, essi devono ora coordinare i lavori dei vari organi collegiali per garantire l’unitarietà e l’efficacia dell’azione didattica. Il controllo sull’operato degli insegnanti, ora chiamato valutazione del servizio, viene affidato a precisi organi collegiali quali il comitato per la valutazione del servizio dei docenti, presieduto dal capo di istituto e formato da rappresentanti dei docenti e dei genitori, tra i suoi compiti c’è anche quello di valutare l’anno di prova dei docenti neoassunti con la possibilità di confermarne o meno l’entrata in ruolo. Gli ispettori assumono invece un ruolo particolare nelle attività di aggiornamento e sperimentazione educative, spetta a loro promuovere la diffusione delle riforme scolastiche ministeriali ma anche la partecipazione da parte dei docenti alla loro elaborazione, attraverso il coordinamento dei piani di formazione del personale scolastico e dei progetti di sperimentazione metodologica e didattica. Come si vede da questi pochi cenni, si tratta di una vera rivoluzione copernicana se si prendono come paragone il ruolo e le attribuzioni tradizionalmente associate a docenti, dirigenti e ispettori dalla normativa antecedente ai Decreti Delegati. 

Elementi per una valutazione critica della genesi, dei contenuti, degli effetti e dell’attualità dei Decreti Delegati del 1974

A questo punto della trattazione possiamo avanzare alcune ipotesi interpretative e valutative sull’intero impianto politico, pedagogico e didattico dei Decreti Delegati anche in relazione alla loro attualità, considerando che buona parte delle loro innovazioni normative sono ancora vigenti.

In primo luogo, abbiamo la questione del ruolo di intermediazione politica e culturale che i vari organi collegiali avrebbero dovuto svolgere, e in parte hanno svolto e stanno svolgendo, tra scuola, ministero, famiglie, società. In particolare, essi avrebbero dovuto rappresentare una sorta di contraltare del potere ministeriale, soprattutto attraverso il Consiglio nazionale della pubblica istruzione, organo collegiale di livello nazionale, un momento di raccordo con il mondo del lavoro e della società civile attraverso gli organi di livello distrettuale e provinciale, e uno strumento per garantire la gestione democratica della scuola negli organi collegiali di istituto, dal collegio dei docenti al consiglio di circolo e di istituto. Queste tre funzioni sono state solo in parte realizzate perché di fatto molti degli organi collegiali hanno solo una funzione consultiva e non deliberativa, è questo il caso del Consiglio nazionale della pubblica istruzione, oppure si occupano solo di alcuni aspetti dell’offerta formativa, come l’orientamento, le attività extrascolastiche, il rapporto con gli enti locali, come nel caso dei consigli scolastici provinciali e distrettuali e in parte anche in quello dei consigli di circolo e di istituto. Infine per quanto riguarda la questione centrale del funzionamento dell’azione didattica ovvero la partecipazione attiva di alunni/e e famiglie, non dobbiamo dimenticare che l’assemblea degli studenti (nelle scuole secondarie di secondo grado) e l’assemblea dei genitori (di classe o di scuola), istituite per la prima volta nella storia della scuola italiana proprio dai Decreti Delegati e che rappresentavano la richiesta prioritaria avanzata dalla componente studentesca e dalle famiglie già dalla fine degli anni Sessanta, non hanno alcun potere deliberativo, limitandosi a formulare pareri e proposte.

Da queste poche riflessioni emerge chiaramente la prudenza e la moderazione dell’operato del ministero di allora. Dovendo scegliere tra forme di democrazia diretta, cioè caratterizzate dalla presenza di organi collegiali di cui fanno parte di diritto tutti gli attori interessati e dotati di potere deliberativo espresso tramite la partecipazione attiva e democratica, e forme di democrazia rappresentativa con funzioni prevalentemente consultive, in cui attraverso l’istituto della delega alcuni rappresentanti assumono il compito di rappresentare gli interessi delle componenti cui appartengono e che li hanno democraticamente eletti, il sistema politico e ministeriale di allora ha scelto la seconda ipotesi, con tutte le conseguenze del caso: burocratizzazione e ritualizzazione dei processi di partecipazione, esclusione dai processi di elezione e rappresentanza delle componenti più resistenti al coinvolgimento attivo nella vita della scuola, disincanto nei confronti delle possibilità di poter intervenire realmente sul funzionamento della scuola, ecc.

Eppure, nonostante questi limiti, non bisogna sottovalutare l’impatto che i Decreti Delegati hanno avuto ed hanno sul funzionamento della scuola. È vero che non hanno abbattuto il muro che da sempre circonda la scuola italiana, tuttavia hanno aperto un breccia importante dalla quale sono transitate importanti riforme successive. Nel 1977 con la legge 517 la programmazione e la valutazione educativa e didattica, nell’ottica introdotta dai Decreti Delegati e l’integrazione degli studenti con disabilità, anche questa in una certa misura prefigurata dai Decreti Delegati (al collegio dei docenti e al consiglio di classe viene infatti riconosciuta la possibilità di intervenire sui casi di difficoltà di apprendimento e comportamento anche facendo ricorso a specialisti socio-sanitari), vengono definitivamente introdotte nel sistema formativo italiano; i Programmi del 1979 per la scuola media insistono sulla necessità di applicare la pratica della programmazione didattica per superare un approccio puramente disciplinaristico alla didattica; i Programmi del 1985 per la scuola primaria e la riforma di tale ordine di scuola nel 1990, confermano la struttura collegiale dell’organizzazione scolastica e stabiliscono la contitolarità di più insegnanti su una stessa classe infine, nel 1988 viene istituita la Commissione Brocca, dal nome del sottosegretario che la coordinò e che per la prima volta sperimentò, anche grazie agli spazi aperti dai Decreti Delegati, nuovi modelli di istruzione secondaria di secondo grado che poi influenzarono le riforme degli anni Dieci del nuovo secolo; l’istituzione del corso di laurea in Scienze della formazione primaria nell’a.a. 1998/1999 per la formazione universitaria dei docenti di scuola primaria e dell’infanzia che finalmente realizza il principio della formazione universitaria per tutti i docenti previsto dai Decreti Delegati, il Regolamento sull’autonomia scolastica del 1999, che conferma e amplia il processo di decentralizzazione avviato dai Decreti Delegati e apre la stagione delle Indicazioni nazionali.

Possiamo dunque affermate che senza i Decreti Delegati del 1974 la stagione del riformismo pedagogico e didattico degli anni Ottanta e Novanta, che tanto peso ha avuto sulla struttura attuale del sistema scolastico italiano, probabilmente non si sarebbe avviata o quantomeno avrebbe avuto una minore intensità.

C’è poi un altro dato da considerare, di tipo più culturale e dunque più profondo rispetto alle vicende normative. Intere generazioni di insegnanti e di dirigenti scolastici, a partire da quelle entrate in ruolo negli anni Ottanta e Novanta del Novecento, sono letteralmente cresciute nella prospettiva culturale e pedagogica dei Decreti Delegati del 1974. La loro conoscenza, quasi letterale, era e ancora in parte è, requisito imprescindibile per superare i concorsi di accesso ai ruoli del personale docente e direttivo della scuola. Inoltre, una volta entrati in ruolo, subito si entra nel vivo dell’azione collegiale, del rapporto con le famiglie, della programmazione concertata e coordinata dell’offerta formativa, tutte esperienze impossibili prima del 1974, che danno l’imprinting e forgiano l’atteggiamento professionale dei docenti, in netta discontinuità con quello promosso dalle normative precedenti. Certo si sarebbe potuto fare di meglio e di più, non si vogliono assolutamente nascondere i limiti e le attuali difficoltà, in certi casi addirittura la mancata applicazione di quanto previsto dai Decreti Delegati, ma dobbiamo anche chiederci: che scuola sarebbe stata se questi non fossero stati promulgati? Sicuramente una scuola meno democratica, ancora persa nei meandri di un’organizzazione autoritaria del servizio educativo del tutto sorda a quelle istanze di rinnovamento democratico richieste a gran voce e in modo non violento da buona parte della società italiana degli anni Settanta, compresi i colleghi e le colleghe che il 28 maggio 1974 persero la vita in Piazza della Loggia a Brescia ai quali e alle quali dedichiamo queste riflessioni e il nostro impegno quotidiano per non dimenticare il loro martirio.

  

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[1] Sulla continuità tra stato liberale e stato fascista anche nell’ambito dell’istruzione si veda L. Borghi, Educazione e autorità nell’Italia moderna, La Nuova Italia, Firenze 1999 e T. Tomasi, La scuola italiana dalla dittatura alla Repubblica, Editori Riuniti, Roma 1976.

[2] Cfr., A. Zannini, Storia minima d’Europa. Dal Neolitico a oggi, il Mulino, Bologna 2015, pp. 285/300.

[3] Si tratta della nascita del cittadino-lavoratore come soggettività politica; cfr., A. Schiavone, Eguaglianza. Una nuova visione sul filo della storia, Einaudi, Torino 2019, pp. 243/257.

[4] Sull’evoluzione del capitalismo contemporaneo cfr., C. Vercellone (a cura di), Capitalismo cognitivo. Conoscenza e finanza nell’epoca postfordista, manifestolibri, Roma 2006.

[5] M. Horkeimer, T.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1944, in particolare pp. 126/182; inoltre sempre sullo stesso argomento si veda la recente ristampa di E. Morin, Lo spirito del tempo, Meltemi, Milano 2017, pubblicato nel 1962 e all’interno del quale troviamo un capitolo intitolato L’industria culturale, pp. 57/65.

[6] Sul fenomeno delle Sit-com e sulla loro diffusione nel contesto italiano, cfr., L. Barra, La sitcom. Genere, evoluzione, prospettive, Carocci, Roma 2020 e L. Barra, Risate in scatola. Storia, mediazioni e percorsi distributivi della situation comedy americana in Italia, Vita e Pensiero, Milano 2012.

[7] Per farsi un’idea dei volumi della cultura pop, in particolare di quella musicale, si veda D. Sasson, La cultura degli europei. Dal 1800 ad oggi, BUR, Milano 2011, in particolare il cap. 62, L’esplosione del pop, pp. 1515/1553. 

[8] Sulla diffusione delle discoteche e della musica dance in Italia, cfr., C. Antonelli, F. De Luca, Disco inferno. Storia del ballo in Italia 1946/2006, ISBN, Milano 2006.

[9] Sull’argomento si veda Byung-Chul Han, Sano intrattenimento. Una decostruzione della passione al cuore dell’Occidente, nottetempo, Milano 2011.

[10] Cfr., G. Franceschini, Postformazione. L’eclisse dei sistemi formativi nell’era dell’industria culturale e dei consumi di massa, libreriauniversitaria.it, Padova 2008.

[11] Sulla classificazione delle generazioni e sulle loro particolarità cfr., G. Roberti, Vite da Millenials. Culture e pratiche comunicative della Generazione Y, Guerini, Milano 2017 e G. Berona (a cura di) Millenials Effect. HR & Nuove Generazioni, Franco Angeli, Milano 2018.

[12] Sull’argomento cfr., A. Gefter, Due intrusi nel mondo di Einstein. Un padre, sua figlia, il significato del nulla e l’inizio di tutto, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014 e P. Halpen, I dadi di Einstein e il gatto di Schrodinger. Due menti geniali alle prese con gli enigmi della fisica contemporanea, Raffaello Cortina Editore, Milano 2016.

[13] Per una ricostruzione aggiornata del dialogo Berlinguer-Moro e delle vicende politiche nazionali e internazionali di quegli anni cfr., M. Gotor, L’Italia nel Novecento. Dalla sconfitta di Adua alla vittoria di Amazon, Einaudi, Torino 2019, pp. 275/285.

[14] Ibidem, pp. 212/215.

[15] Ibidem, pp. 215.

[16] Sul complesso passaggio politico dal centrismo al centro-sinistra alla solidarietà nazionale cfr., M. Salvadori, La storia d’Italia, UTET, Torino 2005, voll. 22/23.

[17] Cfr., E. Catarsi, Storia dei programmi della scuola elementare (1860-1985), La Nuova Italia, Firenze 1990, pp. 143/164.

[18] Cfr., F. Dal Passo, A. Laurenti, La scuola italiana. Le riforme del sistema giuridico dal 1848 ad oggi, Novalogos, Aprilia 2017, in particolare pp. 38/62.

[19] Per una analisi del movimento del 1968 rimandiamo a M. Salvadori (a cura di), La storia d’Italia, UTET, op. cit., in particolare vol. 22, Dal centrismo all’esperienza del centro-sinistra, pp. 713/793.

[20] Per quanto riguarda il nostro discorso, risultano fondamentali due opere di J. Dewey che ebbero una notevole risonanza nel dibattito pedagogico e didattico dell’epoca e ancora oggi punti di riferimento ineludibili per l’analisi del ruolo della scuola nella società democratica: Scuola e società (1915), Edizioni Conoscenza, Roma 2018; Democrazia e educazione (1916), Sansoni, Padova 2008.

[21] Per un’analisi approfondita di questa stagione pedagogica cfr., F. Frabboni, F. Pinto Minerva, Manuale di pedagogia generale, Laterza, Roma-Bari 1994, in particolare il cap. 1, Trent’anni di pedagogia tra ideologia, scienza e utopia, pp. 5/56.

[22] Ibidem, pp. 423/488.

[23] Questo modello di scuola viene realizzato dai coniugi Codignola nel 1945 nella Scuola Città Pestalozzi di Firenze, che ancora oggi funziona in modo sperimentale con un’organizzazione curricolare molto diversa da quella delle scuole comuni; cfr., A. Mariani (a cura di), La comunità professionale: motore per il cambiamento della scuola, Anicia, Roma 2020.

[24] Cfr., A. Canevaro, G. Cives, F. Frabboni, E. Frauenfelder, R. Laporta, F. Pinto Minerva, Fondamenti di pedagogia e di didattica, Laterza, Roma-Bari 1993, in particolare il cap. 3, Ordinamenti della scuola elementare e decreti delegati, pp. 211/263.

[25] Sul profilo professionale dei docenti, cfr., G. Franceschini, Insegnanti consapevoli. Saperi e competenze per i docenti di scuola dell’infanzia e di scuola primaria, Clueb, Bologna 2012; M.G. Riva (a cura di), L’insegnante professionista dell’educazione e della formazione, ETS, Pisa 2008.

L'autore

Giuliano Franceschini

Docente di Didattica e pedagogia speciale all'Università degli Studi di Firenze