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Voci dalla scuola

ESAMI DI STATO 2025: MI AVVALGO DELLA FACOLTÀ DI NON RISPONDERE!

Durante gli ultimi Esami di Stato ha suscitato scalpore la notizia che almeno quattro studenti abbiano rifiutato di sostenere il colloquio orale, ritenendo di avere già raggiunto, grazie ai crediti e alle prime due prove, una valutazione sufficiente per la promozione.

La vicenda ha generato reazioni contrastanti su giornali, TV e social. Alcune opinioni erano sensate, altre superficiali o dettate da pregiudizi. Ritengo però che l’episodio meriti un’analisi accurata, perché segnala un malessere diffuso e una crisi del sistema scolastico che non può essere ignorata. Cominciamo dalle critiche al gesto dei quattro studenti.

La legittimità del gesto e la presunta “furbata”

Molti hanno parlato di comportamento illegittimo. Non è così. La Costituzione, all’art. 33, prevede un esame di fine ciclo, ma le modalità sono stabilite dalla legge. Oggi la normativa richiede un punteggio minimo di 60 su 100, ottenuto sommando prove scritte, colloquio e crediti triennali. Non è obbligatorio sostenere tutte le prove: se il punteggio è già sufficiente, lo studente risulta promosso. Dunque la scelta dei ragazzi è perfettamente legittima. In futuro la legge cambierà (ne parleremo nei prossimi numeri), ma allo stato attuale il quadro normativo è chiaro. Si è detto inoltre che gli studenti abbiano cercato di superare l’esame senza fatica. L’accusa non regge. Pur non essendo eccellenti, avevano un percorso dignitoso e avevano già superato i 60 punti. Se avessero sostenuto l’orale, anche con un colloquio mediocre avrebbero raggiunto punteggi ben più alti, tra 70 e 80. Rinunciando, si sono accontentati di valutazioni inferiori. Se davvero avessero voluto “fare i furbi”, sarebbe stato più conveniente presentarsi, esporre l’elaborato preparato e, in caso di difficoltà, cavarsela con frasi evasive, fingere del panico, appellarsi alla clemenza della commissione. Il colloquio infatti non è più una vera interrogazione, ma un’esposizione programmata di contenuti spesso concordati e slides preparate a casa.

La loro scelta non è stata una scorciatoia, ma un atto di protesta.

Il tema del rispetto e il peso reale dell’episodio

Un’altra accusa ha riguardato la presunta mancanza di rispetto verso docenti e commissioni. Ma rispetto non significa obbedienza cieca: significa piuttosto esprimere dissenso in modo civile. Dai resoconti emerge che gli studenti hanno spiegato le loro ragioni senza scherno né atteggiamenti offensivi.

Criticare utilizzando gli strumenti offerti dalla democrazia non è mancanza di rispetto, bensì esercizio di un diritto. È inquietante che una critica pacifica abbia suscitato reazioni così viscerali. Ciò, oggi in Italia, si inserisce in un clima più ampio, segnato da provvedimenti che tendono a limitare le manifestazioni di dissenso non solo studentesco, ma anche sociale e politico. Una tendenza che rivela un arretramento democratico. I recenti decreti sicurezza ne sono un chiaro esempio.

Gli studenti coinvolti sono solo quattro su circa 500.000 candidati: una percentuale minima. Tuttavia, la vicenda ha avuto enorme risalto mediatico, molto più di un caso simile avvenuto nel 2024, quando tre studentesse del liceo Foscarini di Venezia rifiutarono l’orale. Allora la protesta passò quasi inosservata, nonostante stesso ministro e stesse regole.

La differenza è nel contenuto della protesta. Nel 2024 le studentesse contestarono il voto nella seconda prova. Questa protesta si focalizzò sulla esattezza di una valutazione, senza però mettere in discussione il fatto che la valutazione fosse costruita secondo quei meccanismi. Restò interna ad un contesto di accettazione della logica con cui è gestita la valutazione nella scuola e nell’esame conclusivo.

Nel 2025, invece, i quattro studenti hanno messo in discussione l’intero meccanismo di valutazione. Non è stata una lamentela interna al sistema, ma un atto politico, anche se non possiamo sapere quanto consapevole, che ne criticava le fondamenta. Ed è forse per questo che il ministro ha reagito con tanta durezza, annunciando persino modifiche legislative per evitare nuovi episodi.

La contestazione del sistema di valutazione

Gli studenti che quest’anno hanno rifiutato di sostenere l’orale hanno motivato chiaramente la loro scelta. Maddalena Bianchi, in particolare, ha spiegato come la scuola italiana non utilizzi la valutazione come strumento di crescita personale: non è un feedback costruttivo, ma un meccanismo competitivo che premia il voto più che l’apprendimento. È una scuola che prepara a una società individualista e competitiva, non a una comunità collaborativa.

In sintesi, questi studenti hanno contestato l’intero sistema di valutazione. Una differenza sostanziale rispetto alla protesta del 2024, e che non a caso è stata colta a livello ministeriale e mediatico. Hanno toccato un pilastro considerato intoccabile: la scuola come strumento di selezione, comparazione e certificazione di standard.

Questa idea di scuola è ben diversa da ciò che la scuola dovrebbe essere. La scuola non dovrebbe essere un’arena competitiva, bensì un luogo che forma cittadini autonomi, con solide conoscenze di base e spirito critico, capaci di contribuire al bene comune. Dovrebbe insegnare che nessuno deve essere lasciato indietro e che ogni impegno sincero merita riconoscimento, proporzionato alla sua qualità e intensità. Solo così si crescono persone collaborative, pronte a lavorare per il benessere collettivo, anziché individui intenti a massimizzare il proprio interesse a scapito degli altri.

Individualismo e valutazione

L’attuale mentalità competitiva ha radici profonde. È la stessa che giustifica l’evasione fiscale o la riduzione dello Stato sociale in nome della supremazia del “libero mercato”.

A scuola tutto ciò si manifesta nell’adolescente che copia la verifica dal compagno di banco o da qualche “app sullo smartphone”, che si sottrae all’interrogazione, che contesta il voto senza preoccuparsi di imparare. È l’esasperazione dell’“io” contrapposto al “noi”, una visione che mette i diritti individuali davanti a quelli della società.

Questa logica è alimentata da un sistema di valutazione che premia solo il risultato puntuale e ignora il percorso. Capita spesso di sentire nei consigli di classe frasi come: “si è impegnato, ma ha la media del 5,25 e quindi non posso promuoverlo”. Oppure: “non ha le capacità per affrontare questa scuola”, dedotto da pochi voti in una o due materie. Ma è davvero possibile giudicare la capacità di uno studente sulla base di così pochi dati, senza considerare la persona nella sua globalità?

Il sistema di valutazione attuale, soprattutto nella secondaria di secondo grado, è un “buco nero”: riduce lo studente a una media aritmetica, ignorando elementi fondamentali come la partecipazione, il lavoro di gruppo, il contributo in classe. Questi aspetti, previsti anche dalla legge, finiscono relegati a segnetti marginali sul registro, senza entrare più di tanto nella valutazione tradizionalmente intesa.

Valutazione non significa “niente voti”

Mettere in discussione questo modello non significa auspicare una scuola senza valutazioni. Valutare è necessario, in ogni ambito della vita: serve a capire se si sta andando nella giusta direzione. Il punto è che la valutazione deve essere coerente con gli obiettivi, e quindi i metodi e gli strumenti utilizzati diventano sostanza e non forma.

Se si vuole misurare la conoscenza nozionistica, si chiede una data o un titolo; se si vuole valutare la capacità critica, si propone un testo da discutere. Entrambe sono competenze importanti, ma non comparabili, e ridurle entrambe a un numero da 1 a 10, per poi “farne la media” è metodologicamente sbagliato. Ancora più grave è che aspetti come la collaborazione e la partecipazione non vengano affatto tradotti in valutazioni concrete.

Di conseguenza, gli studenti imparano presto a concentrarsi solo su ciò che incide sul voto, trascurando tutto il resto. È diventata prassi, ad esempio, assentarsi prima di una verifica per prepararsi meglio, anche a scapito delle lezioni. Secondo l’attuale impostazione della valutazione, non ha senso seguire quotidianamente le lezioni, se basta memorizzare alcune nozioni la sera prima per ottenere un buon voto. È un comportamento deprecabile ma razionale, indotto da un sistema che premia il risultato immediato più che il percorso.

Alcuni docenti, me compreso, cercano di opporsi: niente interrogazioni programmate, verifiche senza lungo preavviso.

Ma questo non basta, occorre rendere la valutazione in itinere qualcosa che restituisca una immagine dello studente più veritiera e completa e, contemporaneamente, cessi di essere un “giudizio di vita o di morte” e torni ad essere quello che dovrebbe essere: una tappa di un percorso formativo in cui serenamente si fa il punto sul lavoro che stiamo conducendo, insieme, con, gli studenti. Uno per uno. Per poi poterli serenamente valutare a fine anno, con la coscienza di aver raccolto su di loro, con loro, tutti gli elementi di valutazione necessari per un giudizio sereno, negativo o positivo che sia.

Se saremo capaci, come scuola, di sganciare la valutazione in itinere da un implacabile (e poco significativo) numeretto, e trovare un diverso modo di documentare l’attività dello studente, allora non avremo più studenti che si rifiutano di sostenere un esame con le (giuste, a mio parere) motivazioni addotte da Maddalena Bianchi e dagli altri.

Verso un’altra valutazione

Le proposte non mancano. La pedagogia italiana, a partire da Visalberghi, ha sempre sottolineato l’importanza di giudizi oggettivi che cogliessero i tratti più importanti dello studente.

Non sto qui a citare a tutta la letteratura in questione. Mi permetto solo di evidenziare un punto fermo che il professor Corsini ricorda spesso: l’adozione di giudizi quanto più descrittivi e significativi possibile.

Questo può apparire molto complesso e non immediatamente applicabile nella vita quotidiana in classe. In realtà ci sono molti modi di declinare nella pratica questo giusto concetto ideale.

Una strada è quella di registrare gli obiettivi raggiunti utilizzando una scala ordinale con pochi e chiaramente distinguibili livelli, applicata a obiettivi di volta in volta specifici. Questo può portare alla creazione di griglie di osservazione, diari della valutazione e altri strumenti atti a raccogliere elementi senza eccessive lungaggini e interruzioni del lavoro in classe. L’uso di scale ordinali è sintetizzabile in modo statisticamente valido sia con strumenti come moda e mediana che con tecniche di rappresentazione grafica che consentano al docente di mettere in ordine gli elementi disponibili e giungere ad una valutazione finale. Un valido tentativo in tal senso è stato effettivamente messo in atto negli scorsi anni nella scuola primaria, con l’introduzione nel 2020 della valutazione su quattro livelli, frutto del lavoro, fra gli altri, della professoressa Nigris.

Personalmente adotto da sei anni una tecnica di valutazione molto simile, basata su principi simili, frutto di una mia personale sperimentazione che dura da oltre dieci anni, che mi consente di raccogliere con semplicità moltissimi elementi descrittivi per ciascuno studente e di sintetizzarli in modo agevole, ovviamente lasciando a me, docente, e non ad un algoritmo, la responsabilità di tradurre il tutto in un voto finale in decimi da mettere “in pagella”.

Purtroppo, la riforma della primaria non ha avuto tempo di consolidarsi: il nuovo governo l’ha subito smantellata, reintroducendo sotto altre forme i voti numerici e rafforzando parallelamente il piano disciplinare, con i provvedimenti sul voto di condotta.

E torniamo quindi alla domanda iniziale: perché tanto scalpore per il gesto di soli quattro studenti? Forse perché nella scuola, sulla scuola, si gioca una battaglia ideologica fra chi crede in una società collaborativa, composta da individui emancipati, formati ai principi della collaborazione e dell’impegno, e chi crede in una società ipercompetitiva e individualista, dove la scuola non educa ma seleziona, e dove il motto dominante diventa: “qui si lavora, non si fa politica”.