Attualità

01 settembre 2021

Afghanistan: si vive il terrore nelle università e nei centri di ricerca

L’articolo è stato pubblicato dalla rivista Nature e porta la firma di Smriti Mallapaty. Ha per titolo Afghanistan’s terrified scientists predict huge research losses, ovvero gli scienziati terrorizzati dell’Afghanistan predicono perdite ingenti per la ricerca. Per 20 anni la scienza ha fatto enormi progressi in Afghanistan. Oggi, molti ricercatori stanno fuggendo e coloro che restano affrontano perdite di risorse e la minaccia di ritorsioni. L’articolo ha un incipit: “domenica 15 agosto, il geologo Hamidullah Waizy stava intervistando i candidati per un lavoro presso il Ministero delle miniere e del petrolio a Kabul quando gli venne detto che i talebani erano entrati in città e che avrebbe dovuto essere evacuato. Il mattino successivo egli vide soldati armati per le strade. Waizy, ricercatore presso il Politecnico di Kabul appena nominato direttore generale per le prospezioni e le esplorazioni delle miniere, rimase fortemente sorpreso dalla rapida caduta della città. Da quel momento vive in un limbo, per lo più protetto dalla relativa sicurezza di casa sua”. In tutta Kabul, la maggior parte di università e uffici pubblici sono chiusi, e i talebani sostengono che il personale e i funzionari potrebbero continuare a lavorarvi ma non si sa bene come. Il futuro è davvero incerto, afferma Waizy a Nature. Il gruppo fondamentalista islamico aveva già preso il potere tra il 1996 e il 2001 e aveva instaurato una versione assai conservatrice della Sharia, caratterizzata da violazioni dei diritti delle donne e dalla soppressione della libertà di espressione. E dopo essere stati cacciati via nel 2001, arrivarono finalmente i finanziamenti internazionali e le università come i centri di ricerca ebbero modo di riaprire e di rilanciarsi. Oggi gli accademici temono per la loro sicurezza. E sono preoccupati che le loro ricerche possano interrompersi per mancanza di risorse e di libertà personali, e soprattutto perché la gente più istruita scappa via dall’Afghanistan. Alcuni temono di essere perseguiti per essere stati coinvolti in collaborazioni internazionali o a causa del campo d’azione delle loro ricerche o della loro etnìa.

“I progressi raggiunti nel corso di 20 anni sono tutti a rischio gravissimo”, afferma Attaullah Ahmadi, scienziato specializzato in salute pubblica presso la Kateb University di Kabul. Secondo nuovi rapporti, miliardi di dollari di provenienza internazionale per il governo dell’Afghanistan sono stati congelati. Non è chiaro se e quando le risorse potranno essere disponibili, e come saranno messe a disposizione delle università e dei ricercatori, dal momento che non ricevono più i salari. Kenneth Holland, rettore della O.P. Jindal Global University a Sonipat, India, svolgeva le funzioni di presidente dell’Università americana di Kabul tra il 2017 e il 2019. Sostiene che quando vi arrivò nel 2005 trovò “quasi nessun ricercatore e alcuna cultura della ricerca”. Eppure, dal 2004 la Banca Mondiale, l’agenzia americana per lo sviluppo internazionale e altre organizzazioni hanno inviato centinaia di milioni dollari alle università per sostenere la didattica, l’addestramento universitario e alcune ricerche, afferma l’ex rettore.  Quasi tre dozzine di università pubbliche sono state istituite o ricostruite dal 2010, e decine o più di università private sono state aperte. Le università pubbliche sono finanziate dal Ministero dell’Alta Istruzione, alle quali giungono risorse da donatori internazionali. Le università private sopravvivono grazie alle tasse di iscrizione. La popolazione studentesca nelle università pubbliche è cresciuta dagli 8 mila studenti del 2011 ai 170mila del 2018, un quarto dei quali sono donne. E sebbene il contributo dell’Afghanistan alle riviste scientifiche internazionali sia scarso, il numero di paper registrati annualmente nel database Scopus è cresciuto dai 71 del 2011 ai 285 del 2019. Shakardokht Jafari, medico presso l’Università del Surrey, Gran Bretagna, e afghana di origine, ha visto un enorme progresso dal 2001, dall’aumento delle iscrizioni delle studentesse ai progressi nella lotta al cancro e in geologia. Ma ora ella teme “che vi sarà una stagnazione della scienza e del progresso della ricerca”. Per lungo tempo gli scienziati hanno considerato l’Afghanistan come una specie di buco nero, afferma Najibullah Kakar, geologo presso il Centro di ricerca tedesco per le Geoscienze di Potsdam. È uno dei tanti afghani che fuggirono all’estero per laurearsi, e col sogno di tornare nel loro Paese d’origine per impiantare le conoscenze, al fine di contribuire a ricostruire la nazione. Nel 2014 contribuì a installare in Afghanistan la prima rete sismica per lo studio della faglia tettonica. Continuò quel lavoro fino al 2019, quando i conflitti resero difficile viaggiare in aree remote. Egli e il suo team progettarono di istituire un controllo dell’attività sismica e un centro di ricerche in Afghanistan per dare l’allarme in caso di eventi disastrosi. Ma dalla caduta di Kabul, versano in uno stato di panico, e Kakar, il quale dice di non riuscire a dormire da giorni, sta cercando disperatamente di aiutare i suoi colleghi a fuggire. Proprio questi ultimi sono tra coloro che si sono trovati nell’onda dei ricercatori in cerca di asilo all’estero. Rose Anderson, dirigente presso l’organizzazione umanitaria Scholars at Risk a New York, la cui missione è quella di scoprire gli studiosi minacciati nelle università, afferma che solo in agosto ha ricevuto più di 500 domande di asilo da afghani. Alcuni studiosi di diritto temono rappresaglie se il loro campo di studio contraddice l’interpretazione talebana della Sharia. Molte donne temono di essere bersagli a causa del genere, e dell’attivismo per i diritti delle donne; alcuni temono di essere puniti a causa dell’insegnamento alle donne. Altri sono preoccupati del fatto di essere inseriti nelle liste nere dei talebani per aver studiato all’estero o per avere legami internazionali. E quasi tutti hanno testimoniato di avere paura “di essere bersagli solo perché sono a favore dell’indagine scientifica libera e critica e per nutrire gli ideali del rispetto per i diritti umani e per i diritti delle donne”, dice Anderson. Molti sono riusciti a nascondersi o pensano di trovare rifugi sicuri nelle campagne circostanti. Per queste ragioni, afferma Anderson, 164 istituzioni a livello globale hanno accettato di ospitare gli studiosi afghani, e la Sar ha fatto appello ai governi americano ed europei di rilasciare subito i visti per l’estero e di proseguire nei voli per l’evacuazione.  Ma portar fuori le persone è una missione difficile, le ambasciate sono chiuse, e l’aeroporto di Kabul è pericoloso. Molti ricercatori e accademici a rischio restano in Afghanistan.

Gli scienziati sono preoccupati anche per il futuro della ricerca scientifica. Joya teme che i talebani non abbiano alcun interesse per la ricerca, né ne riconoscano il valore, e non sa in che modo le università potranno sopravvivere senza l’aiuto internazionale. Uno studioso di Kabul e membro dell’Accademia delle scienze dell’Afghanistan afferma che questa è la terza volta che lui e la sua famiglia, come molti, hanno perso tutto. “È una situazione difficile per un essere umano”, afferma, “si nasce in una guerra, si cresce in una guerra e ora si morirà in una guerra”. E a proposito dei laureati già fuggiti dall’Afghanistan, afferma che “è un’enorme catastrofe per il futuro dell’Afghanistan. Non i saranno più persone istruite”. 

Non è chiaro se la comunità internazionale riconoscerà il nuovo governo e continuerà a sostenere con risorse le università. I ricercatori sperano di non essere abbandonati. “Abbiamo speso tutto il denaro, il tempo, le energie in Afghanistan per costruire un futuro più luminoso per noi e per i nostri figli. Ma con questo ritiro hanno distrutto le nostre vite, le nostre speranze e le nostre ambizioni”, conclude Joya.

L'autore

Pino Salerno