Cultura

02 febbraio 2022

Ulisse, il viaggio dell’eroe, nel tempo e nella mente

Il 2 febbraio 1922 viene pubblicato a Parigi il monumentale Ulysses (Ulisse) di James Joyce, autore irlandese, giramondo, scapestrato e sempre squattrinato. Ha fatto molti mestieri, dall’insegnante all’impiegato di banca, ha perfino provato la carriera da tenore; ha vissuto fra Dublino, Trieste, Roma, Parigi, Zurigo, venendo a contatto con tutte le avanguardie letterarie e culturali dell’epoca. Da tutte ha tratto uno spunto, tutte le ha subordinate alla sua idea di scrittura. Ulysses è il romanzo che avrebbe cambiato profondamente il modo di scrivere, di raccontare, del ‘900, imponendo definitivamente un punto di vista interiore indisponibile a disciplinarsi alle regole della ragione e della morale. Un romanzo fiume, capace di far emergere particolari e dettagli, di riscoprire in tutto un simbolo, un’idea, una visione.

Joyce morirà giovane, ad appena 59 anni, dopo una vita trascorsa lontano dall’Irlanda.

Abbiamo voluto comunque intervistarlo, per celebrare con lui i 100 anni del suo capolavoro rivoluzionario.

Domanda (D) - Allora professore …

Risposta (R) - Perché mi chiama professore?

D- Beh, per la sua esperienza di insegnante in Italia…

R- Guardi, in Italia ci sono arrivato per caso: avevo firmato un contratto con un istituto di Zurigo, la Berlitz School. Avevo bisogno di lasciare Dublino, dopo una lite selvaggia a causa di uno sguardo di troppo lanciato verso la ragazza sbagliata. Buffo, non me ne dovetti andare per i miei scritti sull’autonomia dell’Irlanda dal Regno Unito: eravamo sotto gli inglesi, e questo faceva comodo a molti dei miei fratelli irlandesi, venduti all’oppressore conquistatore. Dovetti scrivere io, a soli 9 anni, un pamphlet, che mio padre, bontà sua, pubblicò a sue spese e diffuse. Ma non fui cacciato per questo, dovetti scappare per aver guardato una ragazza! Per questo mi serviva un lavoro e quindi scrissi alla Berlitz School di Zurigo, ma mi ingannarono e mi ritrovai a Pola, fino al 1905. Quando finalmente si liberò un posto a Trieste riuscii ad arrivare in Italia, ma all’inizio non era certo lì che volevo andare e neanche mi interessava fare l’insegnante. In famiglia di insegnanti veri ce n’è uno solo, mio fratello Stanislaus che mi raggiunse a Trieste e rimase come insegnante per ben 33 anni.

D- Insomma, signor Joyce, l’Ulisse compie 100 anni, è contento?

R- Molti dimenticano che il 2 febbraio è anche il mio compleanno, non solo quello di Ulisse. Quel 2 febbraio del 1922 festeggiai i miei quarant’anni con un bel regalo che la mia amica, Sylvia Beach, mi fece accogliendo la versione integrale del mio romanzo. Stava uscendo a puntate negli Stati Uniti, grazie ad un aiuto che Ezra Pound, allora molto loquace, conosciuto a Trieste, appunto, ma me lo censuravano. Ezra allora mi invitò a Parigi dove conobbi per caso Sylvia Beach, la proprietaria della magnifica libreria Shakespeare & Company: attenzione, quella che oggi vedete al numero 37 di rue de la Bûcherie, vicino Place St.Michel, non è la libreria di Sylvia, ma un omaggio all’originale. La libreria di Sylvia, che pure pubblicò Hemingway, era al numero 12 di rue de l’Odéon e divenne il punto di riferimento di tutta la letteratura anglofona a Parigi, fino a quando nel 1941 fu costretta a chiudere.

Ezra è stato una figura splendida per noi giovani ed innovativi scrittori: pensate che nello stesso anno, ma qualche mese più tardi, verso ottobre, dopo una lunga opera di revisione, sponsorizzò la pubblicazione di The Waste Land, la Terra Desolata, di Thomas Stearns Eliot. Non male direi, no? Se poi ci mettiamo che il 1922 fu anche l’anno della pubblicazione del quarto tomo delle Recherche di Marcel Proust e del terzo romanzo di Virginia Woolf direi che il 1922 è stata un’annata speciale.

Non posso che dirmi soddisfatto della pubblicazione dell’Ulisse, anche se in vita non mi portò mai successo in denari. Mi serviva però trovare questa strada comunicativa. Credo inoltre, e non con immodestia, che abbia segnato molto il modo di scrivere del XX secolo, indirizzandolo verso quello che già alcuni chiamavano il flusso di coscienza. Lo sa che non è comunque opera mia? È vero, l’amicizia con Ettore, ah già, lo chiamate Italo Svevo, e la vicinanza alla culla degli esperimenti psicanalitici di Sigmund Freud, fanno pensare che sia stato io a inventarlo. In realtà ho potuto apprezzarlo leggendo un romanzo di un autore francese, Le lauriers sont coupés, di Eduard Dujardin: che belli quei monologhi interiori, come sono vivi, come potevano essere esplosivi di fronte alla fissità della finzione narrativa.

D- D’accordo, ma perché le hanno censurato l’Ulisse?

R- Ma l’ha letto?

D- Insomma, non è proprio una lettura agile. Diciamo che è più un oggetto da esposizione nella libreria di casa che un romanzetto da mettere sul comodino…

R- Ebbene, come poteva non essere censurato un romanzo che segue il viaggio mentale di una persona per un’intera giornata? Ha presente quante cose sconce passano nella testa di un uomo e di una donna (Ah, la mia Molly!) in 24 ore?

Un’intera giornata nella testa di uomini e donne: ci pensa quanto può essere spudorato come racconto? E tra l’altro neanche un giorno a caso: il 16 giugno del 1904, il giorno del mio primo appuntamento con Nora, la mia compagna di vita.

Nel mio scritto ho provato a dare voce e sostanza a quei pensieri, che non sono fatti per questo di aria, ma di carne. I miei protagonisti, Dedalus e Leopold, Telemaco e Ulisse, viaggiano fra i bordelli di Dublino, e vivono le avances della vita.

D- Molly, appunto. Il suo romanzo fu ben visto dalle donne, anche se Molly tradisce il marito, con il suo beneplacito.

R- Giovanotto, dovrebbe sapere che non era facile a quei tempi accettare che una donna tradisse il marito. Cioè, lui, Leopold nella fattispecie, poteva farlo spudoratamente. Perché allora non poteva farlo anche Molly? Leopold sa e accetta. Io non ci trovo nulla di male. E poi era ora di farla finita con l’ipocrisia della società vittoriana: sapeva troppo d’Ottocento, sapeva troppo di borghesia. Era necessario darci un taglio, era necessario cominciare a parlare dell’individuo e della sua frantumazione, del caos che abbiamo dentro, della fatica che facciamo nel non disunirci: era necessario dare voce ai suoni ed alle immagini che ci compongono.

D- Signor Joyce, cosa succede dopo l’Ulisse?

R- Ulisse è stato un parto molto difficile. Trascorrevo intere giornate a cercare le parole per rendere nel modo più concreto possibile il racconto della storia di un padre che cerca un figlio e di un figlio che cerca un padre: senza saperlo. Un romanzo lineare che per molti è invece contorto solo perché segue le pieghe del pensiero senza alcun filtro; non tutti l’hanno capito fino in fondo, anzi alcuni non l’hanno affatto capito o comunque hanno finto di capirlo. Pensi che Virginia Woolf, quella strega, l’ha sempre bistrattato e considerato come un’opera di un illetterato. Ha cambiato il suo giudizio un pomeriggio: era ospite di John Middleton Murry e Katherine Mansfield, vide il mio Ulisse sul tavolino ed azzardò una critica che dovette rimangiarsi dopo aver saputo dall’amica che Tom (e si tratta di T. S. Eliot) lo considerava un vero capolavoro. Dopo quell’episodio sono seguite delle timide recensioni positive. Ma la capisco: non è affatto facile percorrere le pagine di Ulisse perché significa percorrere le pieghe del nostro cervello: non sempre è piacevole e soprattutto non sempre è comprensibile. E nel cervello, nei nostri pensieri, ci sono anche i sogni, per questo dopo Ulisse mi sono imbattuto a quel punto nei Finnegans’ Wake, un work in progress molto più caotico che porta il linguaggio ed il pensiero ad una dimensione a-grammaticale, apparentemente a-logica: c’è voluto il resto della mia vita per portarlo a termine. Trascorrevo le giornate ricurvo sulla scrivania – potevo farlo perché una benevola suffragetta, Harriet Weaver, sosteneva economicamente i miei lavori – intento a scrivere le parole, ma soprattutto a metterle in ordine: in una giornata riuscivo a scriverne anche 7, 8 … il problema era capire poi come farle stare insieme. Ecco, gli ultimi anni della mia vita li ho dedicati a mettere insieme le parole con i loro significati più oscuri. Fino a quando la neve non è scesa riappacificandomi con tutto l’universo, con i vivi e con i morti.

Post scriptum di Pino Salerno

Quel romanzo, l’Ulisse, di cui ci parla Joyce nell’intervista immaginaria, annunciava la nuova epoca della modernità nell’arte, con la frammentazione del soggetto e la denuncia dell’ipocrisia della morale borghese. Esso vede la luce nel 1922, quando l’Europa, uscita dalle macerie del primo conflitto mondiale, non è più la stessa, sia sul piano geografico che su quello politico. Finiscono gli imperi, subentrano nuove nazioni, e sale il pericolo di nuovi totalitarismi. Pochi mesi dopo, l’Italia subirà la marcia fascista su Roma. In Germania, la Repubblica di Weimar mostra vistose crepe, dopo la sconfitta. In Russia è ancora vivo Lenin (colpito da trombosi a maggio dello stesso anno), ma ad aprile Stalin assume la carica di segretario generale del Partito comunista dell’Unione Sovietica. Insomma, quel che lo storico Eric Hobsbawm definì “il secolo breve” ha inizio proprio con gli eventi del 1922. La letteratura, le arti pittoriche, la musica, risentono fortemente di questo nuovo clima geopolitico, e lo restituiscono in opere d’arte controverse ma fortemente innovative. Di fatto, la scomposizione del soggetto ottocentesco apre la strada all’abisso, da guardare e analizzare (come aveva preconizzato Nietzsche qualche anno prima). Per la prima volta nella storia della letteratura, gli interrogativi abituali della trama vengono sostituiti dalla passione per il pensiero e per la mente, ormai calata nelle viscere, senza più distinzione tra ragione e sentimento. Insomma, un vero e proprio cataclisma nel paradigma letterario, di cui l’Ulisse è il grande artefice. Si può dire che esso democratizza la forma del romanzo, anche se rende la lettura più difficile e più stimolante. L’influenza dell’Ulisse la si riscontra nelle opere di Gabriel Garcia Marquez, in poeti come Dereck Walcott, nella Dalloway di Virginia Woolf, ma soprattutto in quello straordinario capolavoro di Eliot che è La terra desolata. Parafrasando le parole del biografo di Joyce, Richard Ellmann, stiamo ancora imparando – a cent’anni di distanza – come essere suoi contemporanei.

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Pino Salerno