Politiche educative

17 marzo 2022

L'istruzione per competenze, un fallimento dei tempi moderni

Le competenze di base irruppero come un cavallo di Troia nel mondo dell’istruzione formale grazie al patrocinio della Banca Mondiale prima e dell’Ocse in seguito, all’inizio di questo secolo, e così permangono, potenziate e articolate in modo trasversale nell’asse dei nuovi curriculum, cambiando veste solo superficialmente legge dopo legge, e tuttavia mantenendo fermi i loro principi. Seguirono in ogni caso le raccomandazioni dell’Unione Europea, accolte con scetticismo e rassegnazione da una parte importante della classe docente di tutti gli ordini, che ancora una volta criticò quel curriculo nel quale i contenuti trasformati in apprendimenti erano gli assi della mobilitazione.

Sebbene il termine “competenza” nella definizione della Real Academia Española (RAE) restituisce a priori un’accezione più asettica e meno compromessa per il mondo della scuola - come sinonimo di disputa, opposizione o rivalità - l’introduzione nell’istruzione “della competenza” ha cercato di alimentarsi di una letteratura pedagogica ben più ambigua, orientata all’atteggiamento o alla idoneità di una persona capace di cavarsela in un certo contesto. In un modo o nell’altro, le competenze chiave, di base, o come vogliamo chiamarle, non sono riuscite, per ora, a fiorire nel sistema educativo, che sopravvive afferrandosi a qualche ancòra di salvezza in modo tale da non aderire ad un modello nel quale non si crede.

La pianificazione del processo di insegnamento-apprendimento mediante la logica delle competenze sembra rispecchiare una sorta di eterno ritorno, dinanzi agli squilibri di un’istruzione che, nelle aule scolastiche, chiede invece un ritorno all’umanesimo e al rigore scientifico. La classe docente dinanzi a questo modello si mostra come quell’operaio metallurgico protagonista di Tempi moderni di Charlie Chaplin che svolge la sua funzione nell’ingranaggio ma finisce per perdere il controllo dei suoi atti, della sua capacità didattica, per smarrirsi in una teoria che fatica a comprendere, in una scuola tormentata dai bisogni cognitivi.

Ciò accade perché, come altri cambiamenti, le competenze sono state imposte, incastonate nella molteplicità dei processi valutativi, ed ora si vorrebbero infilare nella prova di accesso all’università. Sono d’accordo con Antonio Bolívar quando nel volume Políticas actuales de mejora y liderazgo educativo (2012) scrive che: “ciò che deve cambiare non lo si può prescrivere, dal momento che i cambiamenti nella prassi dipendono da ciò che pensano i docenti”. Tuttavia, nel caso dell’insegnamento per competenze, il peggio è che non si può decidere in modo convincente su ciò che è già stato validato unicamente dai principi gerarchici che disegnano l’istruzione. Con le competenze si è introdotto un senso di inappropriatezza, di estraneità, una sorta di impostura ideologica che proviene dalla mercantilizzazione continua alla quale siamo sottoposti e che Charlie Chaplin criticò nel film citato.

Le competenze, nate dal mito dell’occupabilità nel contesto socioeconomico neoliberale, falliscono nel loro intento ciclico di indirizzare la scuola, proprio perché non furono concepite per essa. Non germinarono né la costruzione collettiva della conoscenza né i valori umani, che è ciò che il sistema educativo rappresenta. Restano immobilizzate nella corsa utilitaristica che divora l’umanità, quella stessa corsa che considera la scuola come una sorta di stadio dove gareggiano i vincitori e i vinti in uno scontro, e in una disuguaglianza, che nessuno può risolvere e che non ha fine.

Il fallimento dell’istruzione per competenze condivide la storia di un altro fallimento, che è sociale: quello del senso di ciò che facciamo e del perché lo facciamo, del piacere non trovato e del fine non raggiunto o del desiderio frustrato di apprendere ciò che non si è appreso. Questo senso, questo piacere, questo fine o questo desiderio di scoprire nell’apprendimento qualcosa di nuovo che ci porti all’emancipazione si scontra con il fallimento dell’istruzione per competenze. E ciò accade perché abbiamo ceduto alle narrazioni in cui si sostiene che il fine dell’istruzione è la pratica, l’efficienza, la redditività. Come il Faust che vende l’anima al diavolo dinanzi a un desiderio per dare un senso all’esistenza. Tuttavia, le risposte sono all’interno, in una istruzione umanista difesa con tutte le forze nel documento Unesco del 2005, Riformare l’istruzione. Verso un bene comune mondiale?, anche se ora si è eclissata e non riesce più a riconoscersi nello specchio.

La nuova legge spagnola, ciononostante, apre uno spiraglio alla speranza. Mantiene nella sua premessa un senso universalistico, inclusivo e garantista che si blinda a partire dal concetto di istruzione come bene comune a salvaguardia dello Stato democratico. Tuttavia, se crediamo che ciò debba fruttificare, deve essere restituito credito alla comunità docente, alla ricerca mediante l’evidenza scientifica, alla riforma pedagogica, senza assumere una visione uniforme e acritica dell’istruzione, distante dalle inquietudini della società contemporanea. Occorre dunque assumere la storia del fallimento delle competenze come una sorta di eredità di quella “educazione bancaria” di cui parlava Paulo Freire in Pedagogia degli oppressi, pubblicato per la prima volta nel 1968. È un’istruzione asfissiata da un modello che non è educativo e che ci trascina, in una evidente sconfitta, nella storia di quell’operaio di Tempi moderni, stritolato in un ingranaggio sociale che agisce come barriera al desiderio di una vita prospera.

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L'autore

Alonso Albano

Filologo e docente di Letteratura spagnola. Editorialista del quotidiano El Paìs sui temi dell’Istruzione e della filosofia dell’educazione.