Politiche educative

17 febbraio 2022

Mario Lodi e la scuola senza voti. Il nostro omaggio nel giorno del suo centenario

Quando Mario Lodi consegue la sua abilitazione all’insegnamento e viene destinato alla scuola di San Giovanni in Croce (CR) nel 1948 l’Italia inizia il suo faticoso percorso di pacificazione, unificazione e ricostruzione. Dopo gli anni di carcere e di militanza antifascista, a Mario Lodi, come ad altre migliaia di maestri di nuova formazione, è affidato il compito di rimpiazzare gli insegnanti del Ventennio e dare nuova linfa al popolo italiano, non più suddito dei Savoia ma orgogliosamente repubblicano e rappresentato dalla Costituzione.

Mario Lodi è stato uno dei primi maestri della Scuola della Costituzione, laica, antifascista, popolare. Nativo di Piadena, il suo lavoro inizia nelle campagne del cremonese-mantovano, in una terra ben predisposta alle sperimentazioni che Lodi identifica nel modello di scuola cooperativa e trasmissiva messo in piedi Oltralpe da Celestin Freinet: molto ascolto, molto coinvolgimento, molti laboratori con colori, macchina tipografica, attrezzi di lavoro, molta pazienza e restituzione di una dimensione di persona ai bambini, dopo l’inquadramento snaturante della pseudo-pedagogia fascista.

Da quella prima esperienza e dagli anni successivi, fino al pensionamento del 1978 e anche dopo, Mario Lodi ha raccontato queste sue esperienze nei suoi romanzi collettivi (da Il paese sbagliato a C’è speranza se questo accade a Vho, fino a Cipì, Il corvo, Il permesso) e nelle numerosissime esperienze sul campo, con bambini, adulti, genitori, insegnanti.

Si può non essere del tutto d’accordo con alcune sue posizioni pedagogiche, parzialmente sintetizzate dall’estratto che riproponiamo di seguito, perché fortemente legate al contesto postbellico e rurale della Pianura Padana degli anni ’50, in piena fase di ricostruzione: Mario Lodi, che pensa ad una scuola aperta e esperienziale, coglie, esasperandolo, il tema della tirannia del voto come competizione estremizzandolo fino a proporne la scomparsa. Però è innegabile che per la Scuola della Costituzione, fatta di ascolto, inclusione, tempi di apprendimento, cooperazione, crescita, il suo lavoro ed il suo pensiero sono imprescindibili.

Per ricordarlo nel giorno del suo centesimo anniversario di nascita (nato a Piadena il 17 febbraio 1922 e morto a Drizzona il 4 marzo 2014), pensiamo non ci sia nulla di meglio che rileggere le sue parole, oramai mature, consegnate alla rivista Cooperazione Educativa. Si tratta di un intervento del 1974 su un tema molto spinoso, quello della valutazione degli alunni appunto e della pagella finale, molto spesso richiamato oggi anche da alcune correnti pedagogiche diversamente strutturate: queste riflessioni aiutano - quando opportunamente rimeditate - a restituire alla valutazione un significato formativo che va al di là dell’aspetto numerico della prestazione con la quale oggi si vuole inchiodare e frenare la crescita di una persona.

Ci piace rileggerle perché possano essere stimolo per le maestre e i maestri, ma anche per gli alunni ed i genitori, di oggi.

La Valutazione

Nessun problema mi mette in difficoltà come questo. La mia incapacità a esprimere con un numero quella complessa realtà che è il bambino a scuola, ha diverse motivazioni, che voglio qui spiegare perché i genitori capiscano che non si tratta di un atteggiamento contestatore di moda, ma di un problema che coinvolge la concezione che l’educatore ha dell’uomo e della società in cui vive, e la sua stessa coscienza.

La pagella è strumento di corretta valutazione?

La pagella, così com’è oggi, uno strumento di valutazione impreciso e soggettivo. Il numero che dovrebbe essere scritto nelle caselle corrispondenti alle “materie” o a gruppi di attività, è il risultato di una strana miscela di sensazioni riguardo alle attività del bambino, che il maestro compie sulla base di un modello di sufficienza che varia da insegnante a insegnante. Non sono rari i casi di “temi” giudicati in modo diverso, a volte opposto, da maestri e professori.

È stato dimostrato perfino che lo stesso tema può essere valutato in modo diverso dallo stesso insegnante, in differenti momenti. Io stesso ho provato, anni fa, a ripetere i voti della pagella a distanza di qualche giorno: i voti non sono risultati uguali. Ciò dipende dal fatto che ogni materia racchiude diverse capacità. Un numero per la “lingua italiana” col quale sintetizzare più attività come la lettura, la scrittura, l’ortografia, la sintassi, la proprietà di linguaggio, la fantasia, la capacità di conversare ecc.

Per la prima classe elementare, con bambini pressoché sconosciuti che si rivelano a poco a poco e che si trovano di fronte a grosse difficoltà come l’apprendimento della lingua scritta, tirar fuori un numero e collocarlo in una di quelle caselle, è per me impossibile.

Il voto in comportamento

Anche per il comportamento il voto è sempre soggettivo e discende dalla concezione che l’educatore ha della scuola e dell’uomo.

Lo stesso bambino, infatti, cambiando maestro, può cambiare voto.

Si sa che sul comportamento ci sono diversi modi di valutazione: c’è chi premia con un bel voto il bambino che sta zitto e ubbidiente (perché magari ha paura) e c’è invece chi considera buon comportamento quello del bambino che discute, dà tono alla vita della classe, magari si ribella in certi casi, per un giusto motivo.

Riguardo al comportamento il voto è quindi in relazione alla reazione del bambino a scuola, e spesso, se il bambino a scuola non si trova a suo agio, la colpa non è sua.

I bambini sono diversi

La prima scoperta che l’educatore fa nella scuola quando instaura un rapporto non autoritario con gli alunni è che essi, pur avendo raggiunto una piattaforma comune nel processo evolutivo, sono tutti diversi.

Ciò dipende dallo sviluppo più o meno regolare del corpo, dalle disposizioni naturali esercitate, dalle esperienze vissute sin dalla nascita in famiglia e fuori. L’educatore che ricerca e utilizza le diverse attitudini e capacità personali nel contesto sociale della classe, realizza attività collettive nelle quali ogni bambino, stimolato dagli altri, dà il meglio di sé: chi la fantasia, chi il disegno, chi il senso musicale o dell’umorismo, chi il ragionamento, ecc. Viene così innalzato il livello collettivo della ‘produzione scolastica’ realizzata sulla base degli interessi dei bambini e non dell’imposizione del maestro. In questo caso non è possibile valutare l’apporto individuale sia qualitativo che quantitativo, perché ogni intervento è legato agli altri: a volte una sola parola detta al momento giusto o un’idea nata in una situazione problematica, sono più importanti di lunghi elaborati. È un tipo di intervento che la pagella non considera, come non considera il lavoro collettivo.

Le cause dell’insuccesso scolastico

Il nostro lavoro è simile a quello del medico che ricerca le cause profonde del male prima di intervenire. Anzi, ora la medicina si pone il fine di prevenire le cause delle malattie cercando di eliminarle sul piano sociale, facendo conoscere i problemi a tutti per risolverli consapevolmente. Il bambino che a noi è affidato, deve essere messo nelle condizioni ideali per sviluppare in modo equilibrato il suo corpo e la sua mente, in un rapporto di collaborazione. Questo rapporto esclude, in quanto tale, giudizi e valutazioni. Accettando di dare il voto, io maestro divento il ‘giudice’ degli scolari, mentre voglio essere un loro ‘amico’, uno che insegna e impara insieme a loro, in certi casi uno che impara da loro.

Facendo il confronto dei risultati e non tenendo conto dei punti di partenza, la pagella diventa inevitabilmente strumento di selezione. Infatti in Italia i ragazzi delle famiglie più disagiate, che non possono dare ai loro figli molti stimoli culturali (libri, gite, linguaggio, ecc.) sono quelli più bocciati. 

Far le parti uguali fra disuguali 

Nel libro Lettera a una professoressa don Milani e i suoi ragazzi riportano la frase di una professoressa che si credeva imparziale: “Se un compito è da quattro, io gli do quattro”. Dice don Milani: “E non capiva, poveretta, che proprio di questo era accusata. Perché non c’è nulla che sia ingiusto come far le parti uguali fra disuguali”. Infatti nessun bambino ha voglia di prendere voti bassi, né vuole essere bocciato. Se non riesce, è perché ci sono cause che noi dobbiamo individuare per rimuoverle. E nella quasi totalità dei casi le cause, come abbiamo visto, dipendono dalle condizioni sociali della famiglia. Lo stesso problema esiste anche in una scuola dove non si fa conversazione, dove non si progettano insieme attività. In una scuola dove i bambini lavorano individualmente, l’educatore che volesse dare un voto o un giudizio “oggettivo” commetterebbe un’ingiustizia verso il bambino che presenta temporanei ritardi di sviluppo.

La mercificazione del lavoro scolastico

Un altro motivo contro il voto è che esso diventa di solito la motivazione del lavoro. Si agisce cioè in vista di una ‘ricompensa’, non si studia per il piacere di conoscere. Liberare i bambini dalla ricompensa del voto e dal timore della bocciatura significa impostare il lavoro scolastico sugli interessi dei bambini, interessi che sono sempre rivolti alla conoscenza di se stessi, dei loro problemi in famiglia, del mondo. Significa abolire il voto-paga.

Senza voti è possibile vivere e studiare?

È inevitabile che dove ci sono i voti si fanno confronti. I voti non lasciano mai indifferenti i bambini. Il bambino che riesce bene nelle attività scolastiche, anche se non lo dice, può credersi più bravo e intelligente degli altri e diventare superbo; il bambino che non riesce può credersi meno intelligente e diventare insicuro o invidioso. La superbia, l’invidia, l’insicurezza, il pettegolezzo sono conseguenze del voto; anche se non sono evidenti e non portano a forme traumatiche (ma talora accade), influiscono negativamente sui bambini e ostacolano l’attuarsi della socialità nella quale il bambino dovrebbe sentire gli altri vicini, e proprio dagli altri dovrebbe ricevere in continuazione stimoli. Senza voti è possibile vivere e studiare, è possibile aiutarsi a vicenda. Collaborando si dona, ci si unisce, si cresce.

Due scuole

Scrive Giuseppe Fara, docente di psicologia dell’età evolutiva, in ‘Psicologia’, parlando dell’insuccesso scolastico: “La vecchia scuola pone al centro del proprio interesse l’oggetto dello studio, ciò che si deve insegnare ed imparare, i programmi, i libri di testo; e l’insegnamento, di conseguenza, è rivolto a una collettività anonima, la scolaresca; la cultura che si vuole trasmettere è la cultura del passato, come garanzia di certezza e di solidità; e i suoi contenuti sono presentati come una realtà statica e dogmatica che passivamente deve essere accolta; la maturazione dello studente deve ispirarsi al principio d’autorità e deve costruirsi sulla molla dell’individualismo e della competizione.”
In questa scuola il voto è necessario come stimolo e motivazione perché si studiano cose che non interessano.

“La scuola nuova- continua Fara- pone al centro del proprio interesse il soggetto, lo studente, con le sue personali attitudini, motivazioni, aspirazioni; ed è a lui che individualmente l’insegnamento è indirizzato; la cultura che si vuol trasmettere è ancorata ai problemi del presente e proiettata verso il futuro, come realtà da costruire con l’impegno di ognuno; e i suoi contenuti sono presentati come un prodotto della storia dell’uomo che attivamente e criticamente ha la possibilità di adoperarli per trasformare il mondo che lo circonda; la maturazione dello studente deve ispirarsi alla democrazia e deve costruirsi sulla spinta alla socialità e alla collaborazione.” In questa scuola il voto è inutile.

La collaborazione fra genitori ed educatore

I genitori hanno il diritto di seguire i loro figli durante l’esperienza scolastica e quindi la scuola autoritaria, che non permette loro di sentirsi parte sociale di essa, usa il voto come ‘informazione’. I genitori non possono ignorare i problemi dell’infanzia e devono discutere insieme agli educatori l’atteggiamento da tenere nei confronti dei bambini perché questi non vivano a casa in un modo e a scuola in un altro, con le conseguenze negative che è facile immaginare. L’educatore per intervenire in modo corretto deve conoscere la ‘storia’ del bambino in tutti i particolari illuminanti. Questa storia, dalla nascita fino ad oggi, il genitore e l’educatore la possono ricostruire soltanto insieme. In questo modo potranno seguire lo sviluppo, i problemi, le conquiste del bambino negli anni, cioè la storia della sua maturazione; il suo prepararsi ad essere uomo o donna nel contesto di una comunità che dalla scuola si estende alla famiglia e al contesto sociale.

Proposta 

A questo punto dico ai genitori: ‘Io non sono capace di giudicare vostro figlio con un numero ma mi sento capace e in dovere di capire come ha vissuto fin qui per aiutarlo a proseguire senza chiedere a lui più di quel che può dare ma anche senza trascurare nulla di ciò che lo può realizzare come persona libera e sociale’.

Il bambino di 6 anni, che arriva in prima, è il risultato di un lungo e complesso processo evolutivo. A scuola il punto di partenza è questo risultato. Se non lo si conosce non è possibile far crescere il bambino globalmente con gradualità e armonia. Solo così è possibile tentare una valutazione, descrivendo la sua storia, i suoi progressi e i suoi problemi.

È una pagella un po’ più difficile e impegnativa da scrivere, ma è una cosa seria.

Da Le pagelle, in Cooperazione Educativa, n. 5-6, 1974, Firenze, La Nuova Italia, ora in Cooperazione Educativa, vol. 63, n. 2, 2014, Trento, Erickson