Politiche educative

25 gennaio 2022

Il vanverismo pedagogico dominante: una legge pericolosa per favorire l’insegnamento delle competenze non cognitive (seconda parte)

Nel testo passato alla Camera lo scorso 11 gennaio, nonostante la riscrittura mediata in commissione attraverso un artificioso gioco di parole (“Al fine di promuovere la cultura della competenza, di integrare i saperi disciplinari e le relative abilità fondamentali e di migliorare il successo formativo prevenendo analfabetismi funzionali, povertà educativa e dispersione scolastica, il Ministero dell’istruzione, a partire dall’anno scolastico 2022/2023, favorisce lo sviluppo delle competenze non cognitive nelle attività educative e didattiche delle istituzioni scolastiche statali e paritarie di ogni ordine e grado”) resta nella proposta di legge AC 2372 un’idea logia pseudo-pedagogica sottesa che ancora genera diverse incongruenze: quest’incursione della legge negli aspetti ordinamentali dell’insegnamento è un intervento, scomposto e ignorante (in senso etimologico), sul metodo didattico.

Leggi la prima parte 

Nell’intenzione del legislatore questo intervento si renderebbe necessario per combattere “analfabetismi funzionali, povertà educativa e dispersione scolastica”, più di ogni tipo di investimento in tempo scuola e quindi organici, più di ogni tipo di intervento per diminuire il numero di alunni per classe e rendere la didattica più personalizzabile, più di ogni tipo di intervento per i locali scolastici, per la costruzione di atelier didattici e di laboratori.

In realtà è un veicolo per limitare l’autonomia didattica degli organi collegiali e sulla libertà di insegnamento.

Appare invece chiaro come qui si compia il primo tassello del paradigma della Scuola “affettuosa”, non “empatica”, ma “affettuosa”, con risvolti culturali molto più ampi perché minano anche altri diritti sanciti dalla Costituzione, come il diritto al lavoro, attraverso l’imposizione di un modello etico.

L’impressione che si ha dalla lettura dei pochi articoli è la stessa ricevuta in occasione del varo dell’insegnamento dell’educazione civica come materia curricolare: un appesantimento burocratico-normativo che ignora, anzi disprezza, dall’inizio alla fine, il lavoro degli insegnanti e del personale scolastico tutto, incentrato sulla formazione della persona, attraverso i saperi e lo spirito critico, la capacità di confronto, attraverso le relazioni.

In realtà questi temi, spacciati per competenze ed individuati invece come attitudini già dalle Indicazioni Nazionali del 2018, sono il sale di ogni tipo di pedagogia che pone alla base di ogni apprendimento la predisposizione al benessere scolastico, alla relazione umana, al confronto.

Nei presupposti della buona pedagogia e della buona didattica, la scuola è l'apprendimento che determina la formazione di una persona, anche in termini di socializzazione e crescita tra pari.

Per queste ragioni non è proposta pedagogica, ma ideologica e politica, che nasconde dietro fantomatiche teorie salvifiche delle competenze l’incapacità della politica di parlare davvero di Scuola, per la Scuola.

Del resto il tutto si sostanzia sull’ennesima forzatura e curvatura del lessico pedagogico a fini ideologici e politici: competenza (capacità di mettere a frutto le conoscenze acquisite per gestire in modo critico un problema e risolverlo) appartiene alla famiglia linguistica di competere (latino cum- petĕre) di cui oggi, accantonato il significato originario di “andare (petĕre) insieme (cum)” prevale quello di “essere in competizione, primeggiare sugli altri”. Esistono purtroppo due modelli di scuola: quella ideologica e politica dei voti e delle misurazioni che spinge verso la competizione, il capitale umano e quello psicologico, ed il modello pedagogico della scuola come luogo di apprendimento, formale ed informale, luogo di confronto e scontro, di conflitto fra pari e con gli insegnanti, luogo senza spazio e tempo, nel quale si compie un percorso, pedagogico, didattico ed umano, ‘insieme ai propri compagni ed ai propri insegnanti’.

E non è una riforma pedagogica, ma ideologica e politica, perché si intravede in filigrana un progetto più ambizioso e pericoloso, quello di determinazione di uno Stato Etico che vuole plasmare lo studente sulla base de “l’amicalità, la coscienziosità, la stabilità emotiva e l’apertura mentale”, attitudini da insegnare nelle scuole per poi poterle sfruttare in ambito lavorativo. È chiaro che non è una riforma o un aggiustamento ordinamentale, ma il tentativo di insinuare l’azzeramento di ogni tipo di spirito critico nei docenti e nel capitale umano: plasmare degli studenti che transitino nel mondo del lavoro pronti ad accettare ‘amicalmente’ il lavoro come dono e non come diritto sancito dalla Costituzione; si vuole instillare un metodo didattico che abbandoni l’idea che esista un diritto al lavoro e che possa esistere il ‘conflitto’ sul posto di lavoro fra lavoratore e datore di lavoro, a cui ci si relaziona in modo ‘amicale, coscienzioso e emotivamente stabile’.

Se ci si aggiunge l’ennesima incursione sugli organi collegiali e sulla libertà di insegnamento, accompagnata dalla campagna di svalutazione del lavoro del personale scolastico, il quadro ideologico, e politico, è chiaro.

Per fortuna c’è ancora tempo per rimediare: dalla discussione in Senato, dalla saggezza dei senatori, dovrebbe emergere più forte una riscrittura con un richiamo alla Costituzione, al diritto al lavoro ed al diritto allo studio, al diritto alla libertà di insegnamento, alla scuola laica, luogo dove far maturare gli strumenti per leggere la realtà, generare e risolvere il conflitto, crescere.

Diversamente, l’auspicio è che questa legge sia archiviata per sempre.