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Politiche educative

OLTRE IL VOTO: ALLA RICERCA DELL’EQUILIBRIO PEDAGOGICO

Quando nel 2020, in piena pandemia, come FLC CGIL abbiamo scoperchiato il vaso di Pandora sulla valutazione spingendo per la riforma della valutazione nella scuola primaria (col passaggio dal voto numerico al voto descrittivo), abbiamo dato il via a una operazione di riflessione pedagogica che aspettava soltanto di essere finalmente avviata: come funziona la valutazione – degli alunni e di sistema – e come conciliare la valutazione intesa come atto formativo con la fotografia numerica a cui siamo stati abituati.

La valutazione è un atto pedagogico

Quanto abbiamo provato a fare nel 2020, oggi è messo in discussione dal recente Disegno di Legge 924bis/2023 (il 924 è quello relativo alla filiera tecnico-professionale) col quale si vuole fare marcia indietro e con toni trionfalistici ritornare, in una furia restauratrice tipica di questo governo, ai voti numerici alla scuola primaria perché, si dice e lo diceva per primo l’on. Salvini, oggi Ministro delle Infrastrutture, «la valutazione con i numeri è più chiara». Di chiaro c’è soltanto l’assenza di una base pedagogica in questo DDL, come nel suo precedente (quello della “filiera” tecnico-professionale), giacché si vuole mettere una bandierina ideologica su un tema che invece dovrebbe dare vita a un provvedimento che sia di utilità formativa, prima ancora che strizzare l’occhio al consenso elettorale. In sostanza, nel 2020 abbiamo voluto ribadire che la valutazione è un atto pedagogico che deve avere una valenza formativa, dunque non può essere ridotta esclusivamente al voto numerico; che essa è una tappa fondamentale di un percorso di apprendimento, pertanto è un passaggio di verifica sia per l’insegnante sia per l’alunno; che ha senso se ha un senso il percorso che si vuole fare: cosa insegniamo/impariamo, perché e come.

Nel saggio di Cristiano Corsini, pubblicato nel libro (Ripensare la valutazione nella scuola e per la scuola, Edizioni conoscenza 2021), sintetizzando molto, possiamo dire che si dimostrano due assunti:
(a) l’inutilità pedagogica, anzi il danno pedagogico, della riduzione della valutazione a mero assunto numerico, con risvolti psicologici, ansiogeni e punitivi, spesso imposto come condanna (intervistato da Andrea Capocci per Il Manifesto, Modello Finlandia, la scuola senza voti è una scelta politica, Corsini ribadisce «la valutazione evita alcuni elementi tossici che complicano l’apprendimento come la competizione o il controllo burocratico sugli studenti».);
(b) la valutazione come parte di un processo di apprendimento, non è il fine del percorso stesso. Per questo è necessario non appiattirla sui voti numerici, ma accompagnarla con elementi dialogici-dialoganti. Su questa strada hanno preso piede posizioni anche eccessivamente estremiste ed estremizzanti, come quella della didattica in assoluto senza voti. Volendo entrare nel dettaglio, l’articolo di Capocci, al netto di alcune banalizzazioni prende spunto proprio da un recente fatto di cronaca, l’abolizione della sperimentazione finlandese in una scuola romana. La Finlandia da anni non è più in cima alle classifiche Ocse e il modello finlandese, assolutamente non replicabile altrove, non è un modello vincente. Del resto è sbagliato assolutizzare gli esiti delle prove standardizzate, in quanto fotografie dello stato in itinere di un processo dinamico non sempre paragonabile. Data come premessa che i risultati Ocse-Pisa non hanno nulla di pedagogico, ma semmai di patologico perché vogliono testimoniare a modo loro il grado di salute di un sistema scolastico, i risultati del 2022 non possono in nessun modo essere comparati con gli esiti del 2018, del 2015 e così via, almeno non possono essere comparati in modo definitivo e conclusivo. Banalmente perché gli studenti del 2022 sono diversi da quelli del 2018, 2015… Dunque non possiamo misurare eventuali progressi o regressioni, né, cosa ancora più utile, l’efficacia di un sistema scolastico giacché non si possono misurare in concreto l’efficacia di azioni correttive e/o preventive perché cambia il campione di riferimento. Lo stesso vale per il nostro Invalsi: nessun gruppo studenti (semplificando classe) è perfettamente uguale alla classe precedentemente investigata (esistono misurazioni sulla seconda e quinta primaria e seconda e quinta secondaria di II grado: ma siamo davvero sicuri che il contesto alunni / insegnanti / genitori / dirigente sia sempre rimasto lo stesso nei tre anni di intervallo fra le due somministrazioni? che senso ha allora paragonarli in modo totemico a somministrazioni precedenti?).
La strada è ancora lunga, tanti i tabù da rimuovere, per tanti motivi.

La ricerca dell’equilibrio pedagogico

La sfida pedagogica che ci attende riguarda proprio la capacità di coesistenza del voto numerico in un paradigma valutativo educativo e formativo.
Se condivido a pieno da anni l’impianto teorico-politico della recente disamina di Cristiano Corsini, per cui insegnare senza voti significa usare «la valutazione in modo più rigoroso per orientare l’apprendimento e la didattica» (quindi focalizzando l’attenzione sul percorso e non sullo strumento), ho qualche perplessità quando dice che «alla fine del quadrimestre i voti ci devono essere perché li impone la legge»: in realtà, non è soltanto un problema di legge, ma un problema pratico intrinseco alla valutazione, che deve poter definire in modo sistematico e periodico obiettivi e grado di raggiungimento degli obiettivi. Che poi questi obiettivi di apprendimento siano dei numeri o delle etichette (come nel caso dell’esperienza della scuola primaria o di quella descritta da Salvatore Salzano nel suo libro Misurare e Valutare) poco importa. Dei momenti di verifica, quantitativa, sul “dove siamo arrivati” e “dove possiamo arrivare ancora” – uso il plurale con cognizione, dal momento che nel processo di autovalutazione sono coinvolti sia gli insegnanti sia gli studenti – non rispondono a logiche di legge, ma a logiche interne della valutazione, che per essere efficace deve poter dimostrare in modo chiaro il livello di raggiungimento di alcuni risultati. Non per punire, condannare, umiliare, ma per permettere il famigerato “miglioramento continuo”, ovvero ritarare gli strumenti per raggiungere gli obiettivi. Credo che il giusto mezzo per rendere la valutazione un elemento positivo della pedagogia e uno strumento efficace della didattica risieda nell’accompagnare l’indicazione di un livello numerico-quantitativo raggiunto con l’indicazione del percorso intrapreso e da intraprendere, dei risultati acquisiti e di quelli ancora da raggiungere. La valutazione deve essere pertanto analitica e dialogante nel senso che deve indicare a che punto si è arrivati, ma anche spiegare, senza catalogare, come si è arrivati fin lì e quanto si può ancora fare.

Come sempre, un siffatto risultato è raggiungibile soltanto se il percorso si priva di pregiudizi ideologici e chiarisce, preliminarmente, come si intende procedere.
La valutazione formativa ed educante serve pertanto solo se non è pre-indirizzata verso un obiettivo, ma è essa stessa la bussola che permette di arrivare a quell’obiettivo.

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