La rivista

Dibattito pedagogico

La memoria come percorso pedagogico e impegno sociale

Abstract

L’articolo esplora il valore pedagogico della memoria come strumento di consapevolezza storica e di giustizia sociale, con un focus sulla Shoah e sul pensiero di Edith Stein e Don Lorenzo Milani. Attraverso un’analisi dell’etica dello sguardo e della responsabilità educativa, il testo evidenzia come la memoria non sia solo un esercizio commemorativo, ma un impegno attivo contro l’indifferenza e le nuove forme di esclusione. Viene sottolineata l’importanza dell’educazione alla memoria nel contrastare la diffusione dell’odio e della disumanizzazione, favorendo una riflessione critica sulle ingiustizie contemporanee, incluse le discriminazioni sistemiche e i conflitti in corso.

The article explores the pedagogical value of memory as a tool for historical awareness and social justice, with a focus on the Shoah and the thought of Edith Stein and Don Lorenzo Milani. Through an analysis of the ethics of the gaze and educational responsibility, the text highlights how memory is not just a commemorative exercise, but an active commitment against indifference and new forms of exclusion. The importance of remembrance education in countering the spread of hatred and dehumanisation is emphasised, encouraging critical reflection on contemporary injustices, including systemic discrimination and ongoing conflicts.

Il 27 gennaio rappresenta un momento cruciale per la riflessione collettiva sulla memoria storica. In questa data, nel 1945, le forze sovietiche liberarono il campo di concentramento di Auschwitz, portando alla luce gli orrori della Shoah e dell’assassinio di massa perpetrato dal regime nazista (Santerini, Sidoli, Vico, 1999). Ricordare questi eventi non significa solo preservare la memoria storica, ma anche esercitare un dovere pedagogico fondamentale: trasmettere alle nuove generazioni la consapevolezza del passato per costruire un futuro più giusto e consapevole.

Memoria e educazione

La memoria non è un mero esercizio commemorativo, ma un elemento costitutivo della coscienza pubblica. Primo Levi ci ha lasciato un monito chiaro: il dovere di ricordare non solo per testimoniare il passato, ma per impedire che simili tragedie si ripetano.

La memoria non è solo il ricordo del passato, ma un potente strumento educativo e formativo per le nuove generazioni e in questa prospettiva la pedagogia ha il compito di trasmettere consapevolezza critica, etica e sociale, affinché gli eventi traumatici del passato, come la Shoah, diventino un monito permanente contro l’ingiustizia, la discriminazione e la violenza.

Uno dei principali insegnamenti pedagogici della memoria, come afferma Franco Cambi (2007), è la responsabilità storica. Primo Levi, nelle sue opere, insiste sull’importanza di ricordare ciò che è stato, affinché le atrocità della Shoah non vengano dimenticate o relativizzate. La memoria storica, infatti, non è un semplice esercizio commemorativo, ma un atto di responsabilità collettiva, utile per formare cittadini consapevoli e impegnati nella difesa dei diritti umani. La sua trilogia – Se questo è un uomo (1947), La tregua (1963), I sommersi e i salvati (1986) – non solo narra l’orrore del Lager, ma rappresenta anche un’analisi critica sulla disumanizzazione, la resistenza e la possibilità di riscoprire l’umanità anche nelle condizioni più estreme. Questo spiega anche il suo avvicinarsi al pensiero di Hannah Arendt (1964) e al concetto di ‘banalità del male’, evidente anche ad Auschwitz, dove il male si era trasformato in un rituale, una cerimonia, una norma burocratica, privato delle sue radici ideologiche e valoriali (Bárcena, 2009; Iori, 2018). Era divenuto un meccanismo automatico, accettato come un dato di fatto ineluttabile, elevato a principio, ordine e funzione, e quindi, paradossalmente, persino a ‘valore’. Un sistema che coinvolgeva tutti, compresi i condannati stessi, nei quali veniva instillato un profondo senso di colpa, reso ancora più efficace da una rete fitta di segnali, sia materiali che simbolici, che lo consolidavano e lo rendevano operante (Browning, 2022).

Sul piano pedagogico, la memoria assume anche una funzione etica e antropologica (Bertin, Contini, 2004; Riva, 2004). Levi mostra come la Shoah abbia rappresentato il punto più basso della disumanizzazione, ma al tempo stesso sottolinea come, anche nei contesti più bui, esistano forme di resistenza morale e relazioni di solidarietà capaci di salvaguardare l’essenza dell’uomo. Questo concetto è essenziale nella formazione educativa: educare alla memoria significa sviluppare nei giovani la capacità di riconoscere l’altro, comprendere le conseguenze dell’odio e impegnarsi attivamente per una società più giusta (Vaccarelli, 2023).

La sua testimonianza non è un atto d’accusa, ma un’indagine sui meccanismi dell’animo umano, sulle dinamiche di potere e sulle forme della violenza sistemica. La persecuzione degli ebrei, dei dissidenti politici, degli omosessuali, delle persone con disabilità e di altri gruppi considerati “indesiderabili” non è stata un evento isolato, ma il culmine di processi di discriminazione e intolleranza protratti nel tempo.

Educare alla memoria significa dunque investire nella conoscenza storica e nel pensiero critico, fornendo strumenti per comprendere le radici della discriminazione e dell’intolleranza (Santerini, 2021; Bravi, Oliviero, 2024). La scuola e l’università non devono essere solo luoghi di trasmissione di nozioni, ma spazi di elaborazione critica, dove si sviluppi una cultura della solidarietà e della giustizia sociale. Oggi, il panorama globale è segnato da nuovi conflitti, violazioni dei diritti umani e fenomeni di marginalizzazione. Il razzismo, la xenofobia e la violenza sistemica non appartengono solo al passato: sono realtà con cui dobbiamo confrontarci quotidianamente. La resistenza dei popoli oppressi, la lotta per i diritti umani e la necessità di una riflessione pedagogica sui fenomeni di esclusione (Wildemeersch, Koulaouzides, 2023; Stillo, 2023) sono temi centrali per un’educazione civica responsabile e in questa prospettiva l’educazione interculturale deve essere al centro dei processi formativi, superando modelli trasmissivi e favorendo il dialogo tra saperi. Solo attraverso una formazione autenticamente trasformativa (Mannese, 2023) è possibile costruire una società inclusiva, capace di riconoscere la dignità di ogni individuo e rispondere alle sfide contemporanee con responsabilità e umanità (Nanni, 2012; Baldacci, 2020).

L’etica dello sguardo e la pedagogia della memoria

Per comprendere appieno il valore educativo della memoria e il suo ruolo nella formazione delle coscienze, è necessario riflettere su quelle figure che hanno saputo coniugare conoscenza, responsabilità e impegno civile. La memoria, infatti, non è solo un archivio di fatti passati, ma un’eredità attiva che richiede di essere elaborata e trasformata in azione. In questo senso, l’educazione alla memoria non può prescindere da un’etica dello sguardo capace di superare l’indifferenza e stimolare una coscienza critica.

Responsabilità e cura sono concetti che si rimandano reciprocamente e si fondano entrambi su un requisito indispensabile: l’etica dello sguardo. Chi non si prende cura dell’Altro, getta uno sguardo indifferente o distratto, e “passa oltre”, mosso da altri obiettivi e interessi, poiché si muove in quel “prendersi cura incurante” (Heidegger, 1976, p. 39) che si esprime nell’indifferenza o nel cinismo. L’etica dello sguardo si opacizza allora nel disinteresse e nell’indifferenza dominanti. Perché vedere significa corrispondere attraverso scelte di giustizia e di rispetto dei diritti umani. Proprio su questo si fondano alcune delle prospettive pedagogiche di due figure emblematiche: Edith Stein e Don Lorenzo Milani, il cui contributo educativo si è posto come antidoto alla spersonalizzazione e alla passività di fronte alle ingiustizie.

Infatti, uno degli aspetti più rilevanti nell’educazione alla memoria è il recupero dell’etica dello sguardo, un concetto fondamentale nel pensiero di Edith Stein (1998). Allieva di Edmund Husserl e figura di spicco della fenomenologia[1], Edith Stein elaborò una filosofia dell’educazione che poneva al centro la capacità di riconoscere l’altro, sottraendolo all’indifferenza e all’omologazione. La sua pedagogia dell’empatia non si limita a una dimensione affettiva, ma si configura come un metodo per comprendere la realtà e affrontare la complessità dell’essere umano. Stein identificava l’empatia (Fabbri, 2008) come strumento necessario per la costruzione di un’etica della responsabilità: riconoscere la sofferenza dell’altro non solo come un fenomeno astratto, ma come un impegno concreto per la trasformazione della società. La sua visione si opponeva a ogni forma di totalitarismo, mirando a restituire alla persona umana il suo valore intrinseco, un valore che la brutalità nazista aveva tentato di annullare (Ubbiali, 2010).

Stein aveva anche un forte legame con la dimensione spirituale della conoscenza. La sua adesione al cattolicesimo e la successiva scelta della vita monastica nel Carmelo di Echt si inserirono in una concezione pedagogica in cui la formazione dell’individuo avveniva attraverso l’introspezione e il dialogo interiore. Questa prospettiva, tuttavia, non si traduceva in una fuga dalla realtà, ma in un impegno ancora più intenso nella ricerca della verità e della giustizia. Proprio questo approccio fa sì che la sua filosofia educativa sia ancora oggi attuale, soprattutto in un’epoca in cui le nuove generazioni sono spesso disorientate da un eccesso di stimoli e da una crisi di riferimenti valoriali.

Parallelamente, la lezione di Don Lorenzo Milani si inserisce perfettamente in questa prospettiva pedagogica. Il motto I Care, esposto nella scuola di Barbiana, sintetizza il cuore della sua proposta educativa: prendersi cura degli altri, lottare contro l’ingiustizia, fare della scuola un luogo di emancipazione (Bocci, Crescenza, Mariani, 2024). Per Don Milani, l’educazione non poteva essere neutrale né asettica: essa era un atto politico e morale, uno strumento per dare voce agli ultimi e per combattere le disuguaglianze. Egli considerava la scuola non solo un luogo di apprendimento, ma un laboratorio di cittadinanza attiva, in cui gli studenti imparavano a prendere posizione, a non essere complici del sistema di oppressione e diseguaglianza. La scuola di Barbiana, con il suo modello di insegnamento collettivo e partecipato, mirava a fornire ai ragazzi strumenti critici per interpretare la realtà e trasformarla. Infatti, Milani sosteneva che la scuola dovesse essere uno spazio di crescita per tutti, indipendentemente dalla condizione economica e sociale. La sua battaglia per un’educazione inclusiva si scontrò spesso con le istituzioni scolastiche del tempo, che tendevano a riprodurre le disuguaglianze sociali (Zizioli, Stillo, Franchi, 2024). La sua opera più significativa, Lettera a una professoressa (1967), rappresenta una denuncia esplicita del sistema scolastico classista, criticandone l’approccio selettivo che penalizzava i più deboli invece di sostenerli.

In tal senso, unendo le prospettive di Stein e Milani, riusciamo a cogliere come il processo educativo non possa limitarsi alla trasmissione di conoscenze, ma debba trasformarsi in un’esperienza di consapevolezza e impegno sociale. Così, l’odio, la violenza e l’indifferenza possono essere contrastati solo attraverso la cultura e l’istruzione. In un’epoca segnata dalla rapidità della comunicazione digitale e dalla frammentazione dell’informazione, è fondamentale coltivare la capacità di pensare criticamente e di distinguere i fatti dalle opinioni (Granata, Pasta, 2022). Gli ambienti digitali diventano infatti, un ulteriore terreno di analisi per comprendere le dinamiche degli hate speech e la loro diffusione incontrollata (Santerini, 2021; Crescenza, 2024). L’educazione deve sviluppare strumenti adeguati per insegnare a individuare e decostruire queste narrazioni, che spesso alimentano nuove forme di discriminazione e intolleranza (Fiorucci, 2019).

In questo senso, l’educazione alla memoria non si limita a un esercizio intellettuale o a una celebrazione simbolica, ma implica una trasformazione del modo di guardare e di agire nel mondo. Si tratta di un processo che sollecita una presa di coscienza collettiva, capace di riconoscere le responsabilità individuali e istituzionali nel mantenimento o nel superamento delle ingiustizie. Il riconoscimento dell’altro, dunque, non è solo un atto morale, ma una pratica educativa che incide sulle relazioni sociali e sulle dinamiche di inclusione e di esclusione (Giusti, 2020).

Alla luce di queste riflessioni, il contributo di Edith Stein e Don Milani diventa particolarmente significativo nel contesto contemporaneo, in cui emergono nuove forme di discriminazione e di marginalizzazione. L’insegnamento di entrambi ci invita a ripensare il ruolo della scuola e dell’educazione come strumenti di resistenza alla disumanizzazione, riaffermando la necessità di un sapere critico e di un impegno concreto per la giustizia sociale.

Se la memoria deve essere un antidoto all’indifferenza, allora è fondamentale che essa venga trasmessa non solo come conoscenza, ma come responsabilità attiva, affinché le generazioni future possano farsi carico della costruzione di una società più equa e consapevole.

La memoria, come antidoto all’oblio della ragione, assume un ruolo centrale nella costruzione di una società più equa e consapevole. Non si tratta, come si è detto, di un semplice esercizio commemorativo, ma di un impegno collettivo che deve tradursi in azione, in una presa di posizione di fronte alle ingiustizie del presente. Solo attraverso un’educazione attenta e critica sarà possibile preservare la dignità di ogni essere umano, contrastando ogni forma di oppressione e discriminazione. Il passato, infatti, non è un territorio separato dal presente: le dinamiche di esclusione, di violenza istituzionalizzata e di deumanizzazione continuano a ripetersi sotto nuove forme, richiedendo una vigilanza costante e un’assunzione di responsabilità da parte di chi educa e di chi apprende.

L’esempio di Edith Stein e Don Milani ci insegna che la conoscenza e la consapevolezza storica non sono mai fini a sé stesse, ma strumenti essenziali per comprendere il presente e costruire un futuro in cui il rispetto della dignità umana sia il principio cardine della convivenza sociale. Le loro suggestioni sulla pedagogia dell’empatia e dell’impegno civile dimostrano come la memoria non possa essere disgiunta da un’etica della responsabilità e da un’educazione che sappia contrastare ogni forma di sopraffazione e di indifferenza. L’insegnamento che ci lasciano è che il sapere autentico è sempre un sapere incarnato, capace di incidere sulla realtà, di trasformarla, di opporsi a ogni forma di rassegnazione e di fatalismo.

Un impegno attivo contro l’indifferenza e le nuove oppressioni

Se la memoria deve essere un antidoto all’indifferenza e uno strumento di giustizia, essa non può rimanere confinata nel passato, ma deve interrogare il presente e le sue contraddizioni. Il ricordo delle tragedie storiche non è sufficiente se non ci spinge a riconoscere le ingiustizie attuali e a contrastarle con la stessa determinazione con cui analizziamo il passato. In un mondo ancora segnato da conflitti, discriminazioni e oppressioni sistemiche, l’educazione alla memoria deve tradursi in una pratica di resistenza e di impegno civile. È proprio in questa prospettiva che si inserisce la riflessione sulle testimonianze dei sopravvissuti e sul loro monito a non voltarsi dall’altra parte di fronte alle nuove forme di disumanizzazione.

Le testimonianze dei sopravvissuti riflettono sentimenti di solidarietà, indignazione e impotenza di fronte a un’ingiustizia che sembra non avere fine (Pascale, 2019). Molti sottolineano la necessità di non abbassare la guardia di fronte al ritorno di ideologie autoritarie, di un fascismo moderno che oggi si manifesta senza più maschere, in forme nuove e meno riconoscibili ma altrettanto pericolose. Ad esempio, la lotta per la libertà palestinese, in questo contesto, non è solo una battaglia per un popolo, ma una questione universale che riguarda il futuro della democrazia e dei diritti umani (Traverso, 2024). Per queste ragioni, non possiamo ridurre la memoria a una narrazione chiusa, incapace di riconoscere le oppressioni attuali: essa deve restare uno strumento critico, capace di individuare le ingiustizie e di smascherare i meccanismi di esclusione che ancora oggi condannano intere comunità all’invisibilità e alla sofferenza.

Questo scenario non è isolato: in tutto il Mediterraneo, le popolazioni più vulnerabili – migranti, rifugiati, minoranze etniche e politiche – affrontano condizioni di marginalizzazione sistemica, respinti da politiche di chiusura dei confini e da una crescente normalizzazione della discriminazione (Raisz, 2024). Il silenzio della comunità internazionale e l’impunità con cui vengono perpetrate queste violenze rappresentano una frattura etica profonda, che richiede una riflessione pedagogica e politica urgente, perché ogni emergenza ha anche una dimensione educativa. Se la memoria ha un senso, è quello di renderci capaci di leggere i segni del nostro tempo e di agire affinché le tragedie del passato non trovino nuove forme di espressione.

La resistenza palestinese, così come ogni altra lotta per il riconoscimento dei diritti fondamentali, ci interroga sulla nostra responsabilità collettiva. Cosa significa essere complici dell’ingiustizia con il nostro silenzio? Quali strumenti educativi ed etici possiamo adottare per decostruire la retorica dell’odio e della sopraffazione? L’educazione alla memoria non può limitarsi alla rievocazione del passato, ma deve diventare uno strumento per comprendere e trasformare il presente (Bevilacqua, 2004). È necessario quindi dotare le nuove generazioni di una coscienza critica, capace di opporsi alle narrazioni tossiche della paura e della discriminazione, e di una responsabilità civile che le renda protagoniste del cambiamento.

In questo senso, la Giornata della Memoria del 27 gennaio non è solo un momento di ricordo, ma un’occasione per interrogarsi sul presente e sulle forme di violenza che ancora oggi minacciano la dignità umana. È significativo concludere con il ricordo di Sami Modiano, nato Samuel, superstite dell’Olocausto, sopravvissuto al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau e testimone attivo della Shoah. Aveva 13 anni quando fu deportato in quello che definisce “l’ultimo gradino dell’inferno”, dove i suoi sessanta familiari furono sterminati dai nazisti perché colpevoli di essere di “religione ebraica”. Modiano sostiene che spiegare un simile degrado dell’uomo non è possibile, ma raccontarlo sì. Perché la memoria e la conoscenza sono il miglior antidoto contro il virus del razzismo e dell’odio. Non si tratta solo di tramandare un passato di dolore, ma di accrescere il nostro spazio emotivo, affinché il ricordo non resti sterile, ma generi un ascolto autentico e una presa di posizione chiara di fronte alle ingiustizie che ancora oggi si consumano sotto i nostri occhi.

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[1] Per la pedagogia italiana il riferimento allo statuto epistemico della fenomenologia è Piero Bertolini (Cfr. P. Bertolini, 1988, L’esistere pedagogico. Ragioni e limiti di una pedagogia come scienza fenomenologicamente fondata, Firenze: La Nuova Italia). L’interesse fenomenologico attraversa l’intero percorso pedagogico di Bertolini, sino alla fondazione e direzione della rivista “Encyclopaideia”, nel 1995, che ha raccolto attorno a sé un folto gruppo di collaboratori e allievi, come Marco Dallari, Roberto Farné, Vanna lori, Antonio Erbetta, Elena Mandrussan, Letizia Caronia e Daniele Bruzzone solo per citarne alcuni. 

L'autore

Giorgio Crescenza

Università della Tuscia