La rivista

Tempi moderni

Gli antifascisti intolleranti secondo Ricolfi. Qualche riflessione sul tema

Ci sono fatti storici, eventi accaduti che, quando documentati da più fonti, discuterci attorno è un esercizio di stile inutile. Tuttavia, dei medesimi fatti, non esiste una lettura interpretativa unica ed assoluta. Cerco di spiegare cosa intendo. La documentazione di fatti/eventi/accadimenti, di cui non si fornisce alcuna interpretazione, fermandosi alla sola lettura, è una posizione neutra ed è il lavoro tipico della ricerca documentale. Invece, in qualunque ragionamento storico, che segue la ricerca, o molto più modestamente, una semplice ricostruzione di eventi, l’oggettività si appanna. Gli strumenti di lettura, il metodo della ricerca, comportano una scelta che determina l’interpretazione, si lega ad una specifica visione del mondo ed esprime una precisa posizione intellettuale. Le chiavi interpretative hanno sempre valore politico così come la strumentazione con cui ci si approccia alla ricerca o alla ricostruzione. Quanto premesso, in modo essenziale e certamente scarno, per necessità di sintesi, ritengo non sia opinabile. È per me premessa di chiarezza per avviare una riflessione di senso. Così leggo il Commento di Luca Ricolfi pubblicato su Il Messaggero dello scorso 3 maggio. Seguendo il discorso si comprende che per Ricolfi esiste un antifascismo ortodosso e un antifascismo “normale”, un fascismo paventato come ricorrente e strisciante dal 1994 ad oggi, e, sembrerebbe sottinteso, un fascismo storico, come parentesi ventennale della storia del nostro paese e non solo. Ricolfi giudica anacronistico definirsi “antifascista”, anzi scrive che “la richiesta perentoria” di dichiararsi tale ha sempre avuto “un che di poco simpatico” e veniva avanzata da chi aveva la “presunzione di essere immacolatamente antifascista” e da quella posizione poteva “giudicare – assolvere – condannare l’interlocutore”. Si comprende anche che sin dagli albori, l’antifascismo, era patrimonio della sinistra, ma comunque il 25 aprile restava la festa di tutti, in un modo o in altro. Proprio a partire dal 1994 le cose cambiano: paventandosi una recrudescenza del fascismo si acuisce una presunta scissione tra ortodossia dell’antifascismo e “normalità” che riguarda chi di sinistra non è. Non sono certa di aver perfettamente capito le affermazioni di Ricolfi, ma, a mio parere, l’ortodossia, di cui scrive, percorre e anima la nostra Carta costituzionale. Chi si schiera per la Costituzione e la sua difesa è antifascista ortodosso e si riconosce nelle posizioni ideali e politiche che portarono i nostri padri e le nostre madri costituenti a stendere un testo, unico nel panorama europeo, di allora e di oggi, in cui miracolosamente, direi, si incontrarono e dialogarono sensibilità politiche diverse, congiunte dall’interesse comune per il nostro paese che usciva, gravemente ferito, da una dittatura sanguinaria e molto pericolosa. Questa “ortodossia” condanna l’ideologia fascista. È un fatto certo. Proprio dalla data che per Ricolfi costituisce una sorta di spartiacque, ricordo che abbiamo assistito a spinte revisionistiche fondate su interpretazioni di fatti storici molto fantasiose ed estremamente mistificatorie, a tentativi di pacificazione in nome dell’unità degli italiani, che negavano anche la realtà storica di chi fece delle scelte e di chi ne fece altre. Questo certamente ha un “che di poco simpatico”.

La nostra Costituzione resta ferma anche se le spinte verso il suo progressivo spacchettamento sono potenti. Si possono cambiare, lentamente, gli assetti senza bisogno del bagno di sangue: esistono procedure di acculturazione forzata, letture correttive della storia, mantenimento costante di uno stato di ignoranza di base con scarsissima attenzione alla promozione culturale aperta a più voci e a più realtà. Tutto questo si pratica in silenzio e senza clamori particolari. Un lavoro di fino che è costante e non lo si coglie: abbiamo strumenti di lettura e conoscenza libera spuntati, incapaci di intercettare altre voci e di convogliare nuove risorse. Certamente la lenta erosione del dettato costituzionale, in parte, può ricondursi alla Legge Costituzionale 3/2001, che inaugurava un rapporto necessario tra Stato e Regioni, ma che oggi esplode con le pressioni dell’autonomia differenziata e del premierato, si mistifica la corsa antidemocratica e l’assalto alle sue istituzioni, sbandierando la garanzia della stabilità di governo, dando in pasto a chi gli strumenti non li ha del tutto, né spuntati né sdentati, verità che non esistono ma che arrivano dritte alla pancia.

Torniamo all’anacronismo della definizione antifascista, la patente antipatica, per parafrasare Ricolfi. Chi giura sulla Costituzione sa che deve seguirne i principi, praticarne, nella sostanza, i suoi dettami, se poi si ricoprono cariche istituzionali, l’obbligatorietà e il vincolo sono fortissimi. Siccome la Costituzione è antifascista, chi vi giura fedeltà dovrebbe esserlo. Ovviamente un giuramento, ipso facto, non tramuta chi ha storia e provenienza diversa, in un antifascista. Né “ortodosso” né “normale”. Ricolfi sostiene che l’ortodossia ha delle vestali nella sinistra; cita Eco e Canfora, non so se ne abbia letto i testi con la dovuta attenzione, ma diamo per buono che l’abbia fatto. Come scrivevo in premessa la lente della ricerca, così come quella della lettura, è pur sempre graduata: vedo ciò che riesco a vedere e lo classifico con quelle categorie culturali costruite nel tempo che implicano conoscenza e discernimento, in questo caso degli eventi storici e della cronaca. Meno si conosce e studia la Storia, sia pure quella generale, politica, eurocentrica, meno si legge il mondo che ci circonda. Meglio: non si riesce a mettere i tasselli in modo tale da capire il puzzle che via via si costruisce attorno a noi e in cui la partecipazione dei più è ridotta a lumicino, per cause e condizioni che qui non possono essere affrontate, non per scarsa rilevanza ma perché si andrebbe troppo oltre una semplice riflessione. Chiedere a chi ci governa, democraticamente eletto, di dichiararsi antifascista significa, in pratica, chiedere ciò che di fatto dovrebbe essere, visto che parliamo di tutori della Costituzione. Ma non è “ovvio” che lo sia. Non mi pare che tale pronunciamento sia inutile orpello, se le parole hanno un significato ed esprimono pensieri e azioni. Il termine “antifascista” ha un portato di agire politico preciso. Sarebbe importante che chi sta al governo del paese facesse mente locale sulla svolta di Fiuggi del 1995 in cui la “rinuncia” del Fascismo permise alla destra, di allora, di dichiararsi antifascista e di candidarsi al governo del nostro paese. Non sono neanche 30 anni eppure, oggi, appare inappropriato, scomodo, anacronistico, addirittura ovvio. Meglio praticare lo sport del piede in più staffe anche per non deludere lo zoccolo duro delle destre destre che esiste e vive, e che proprio negli ultimi anni ha preso maggior vigore. Il che non è casuale, a mio parere. E se esiste e ha preso maggior vigore, e Ricolfi certamente ne è ben informato anche perché i fatti sono di domino pubblico, la richiesta non è né anacronistica né formale.

Gli allarmi degli anni Novanta

Sempre dal 1994, ricordato da Ricolfi, qualcosa è cambiato. Il new deal politico, inaugurato dalla libertà individualistica e dal self made man, i cui epigoni resistono a tutte le intemperie finendo oggi, per essere visti quasi come un’ancora della Costituzione, chiaramente con gli ondeggiamenti che la realpolitik impone, proprio quel periodo, dicevo, ha aperto una stagione in cui le preoccupazioni di una recrudescenza fascista si imposero. Mi pare che adesso sia molto ben visibile la fondatezza di quei preallarmi. Non so se le “vestali dell’ortodossia” siano di sinistra così come intesa da Ricolfi. Parlare oggi di un tracciato chiaro tra forze politiche è quasi un’impresa. Forse possiamo distinguere tra progressisti e destra. Più semplice e più realistico. Parlare di conservatori lo riterrei improprio, il conservatorismo non va in panico se gli si mostra la bandiera nazionale e non reagisce come la curva nord dello stadio, non spaccia il premierato come garanzia della stabilità di governo, né, tanto meno, sostiene la divisione federale (e il giudizio è assai generoso) del paese che ha tanto faticato per essere unito, pagando anche col sangue. Se Ricolfi vuole attribuire all’ortodossia antifascista (di sinistra) l’incapacità del dialogo democratico, portando esempi di contestazione, che stanno nell’ordine delle cose, occorrerebbe che ricordasse un po’ di più del nostro recente passato quando un regime totalitario, nonostante la mistificazione leggendaria delle bonifiche o degli aiuti al popolo, negava qualunque possibilità di dissentire. Magari serve, come servirebbe guardare alla rinascita e all’imporsi in buona parte dei paesi europei di destre estreme, a cui i nostri governanti fanno l’occhiolino, così come sarebbe molto istruttivo soffermarsi su alcuni eventi nel nostro paese che si snodano a suon di “presente” e sulle kermesse cariche di fasci littori e svastiche, talvolta anche lietamente animate da motivetti presi dal repertorio del miglior nazismo ed antisemitismo. Certo non trattasi di uomini e donne di governo (o quasi!) ma, da chi ha giurato fedeltà alla Costituzione, una condanna netta di queste manifestazioni sarebbe il minimo. Il silenzio, la riduzione di fatti gravi ad atti di goliardia, di sicuro non lo è. Potrei immaginare la più facile delle obiezioni: questo governo è espressione di un voto democratico di parte del paese che, tuttavia, sarebbe bene ricordare che a votare ci va assai poco, con idee abbastanza confuse e tante chiacchiere in testa. Altra facile obiezione: molti giovani votano a destra. Su questo aprirei un capitolo a parte, chiedendomi e documentando, cosa sanno le nuove generazioni della realtà in cui vivono, per non parlare di quella del recente passato. Ci vorrebbe un capitolo a sé stante che parte dall’insegnamento della Storia passando dall’inefficacia e dalla svalutazione dell’educazione civica per approdare alle attuali politiche scolastiche in cui, per esempio, eventi storici vengono commemorati, a forza, fuori dai loro contesti, si stravolgono programmi e modalità di valutazione frutto di anni di studio, riflessioni didattiche e metodologiche attente, che hanno prodotto buoni risultati e cercato di assicurare l’agire democratico nelle scuole.

L’elenco potrebbe continuare e così l’analisi ma, come detto, per far questo necessita un altro capitolo.

L'autore

Eliana Romano