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Ricerca bene comune

La scienza invisibile delle donne

La scienza non è roba da donne. Può sembrare una frase di cattivo gusto del passato, invece il rischio reale che si tratti di una radicata convinzione oggi, lo stiamo correndo. Nel 2024, in un’epoca in cui tutto è proiettato verso la crescita scientifica e tecnologica, il gender gap fra uomini e donne nell’ambito delle discipline STEM (acronimo di Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica) è ancora notevole. L’Italia risulta terzultima in Europa: solo una donna su tre sceglie di intraprendere un percorso di laurea tecnico-scientifico, un numero che è rimasto invariato rispetto a dieci anni fa. Questo divario arriva da lontano, quando le donne non potevano accedere a questo tipo di sapere, e si è concretizzato nel tempo, negli stereotipi che, ancora oggi, permeano la nostra società, dalla scuola al mondo del lavoro. Stereotipi che contribuiscono a convincere le bambine e le ragazze che le discipline scientifiche non siano materie adatte a loro e, difatti, nonostante le bambine e le ragazze siano mediamente più brave fin dalla scuola dell’obbligo, tendono poi a prediligere indirizzi di studio non solo molto lontani da quelli scientifici ma associati anche a rendimenti inferiori nel mercato del lavoro. Questi dati sono il motivo che hanno spinto la casa editrice Edizioni Conoscenza, che pubblica questa rivista, a dedicare la propria agenda del 2025 “alla scienza invisibile” raccontando la storia di donne scienziate, che hanno lottato per imporsi con la propria mente nel mondo: da Ipazia, la prima scienziata, a Katherine Johnson, la donna che ha portato l’uomo sulla luna, da Hedy Lamarr, la donna più bella del mondo ma anche Lady Bluetooth, a Margaret Mead, la pioniera degli studi di genere, da Lisa Meitner, la donna che divise l’atomo, a Ada Lovelace, la prima programmatrice. Ma anche ovviamente di Marie Curie, prima tra le donne e anche tra gli uomini, unica persona al mondo ad aver vinto due premi nobel in due discipline diverse, fisica e chimica e Rita Levi Montalcini, prima e unica donna ad aver vinto un premio nobel per la medicina, di Margherita Hack, la più famosa astrofisica italiana e Amalia Ercoli Finzi, “la donna delle comete”, di Maria Chiara Carrozza, prima donna alla guida del più grande ente di ricerca italiano, il CNR, di Fabiana Giannotti, prima donna a dirigere il CERN di Ginevra e unica persona a ricoprire il mandato due volte, di Elena Cattaneo, nota per i suoi studi sulla malattia di Huntington e per le sue ricerche sulle cellule staminali e Samantha Cristoforetti prima donna italiana negli equipaggi dell’ Agenzia Spaziale Europea e prima donna europea comandante della Stazione spaziale internazionale. Abbiamo scelto di raccontare la loro storia perché si parli dell’urgenza di cambiare un modello culturale che vede ancora, in alcuni ambiti, la donna meno capace dell’uomo, o anche peggio, che la vede meno donna se dedica i suoi interessi a lavori considerati da uomo. Un concetto antico e senza alcun fondamento.

Come siamo arrivati a questo punto? Lo abbiamo chiesto a Cristina Mangia, ricercatrice al CNR presso l’Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima di Lecce.

Da anni ci si interroga sulla presenza femminile nei percorsi STEM. Gli ultimi dati mostrano qualche segnale di cambiamento, anche se limitato a poche discipline. I dati di Almalaurea evidenziano come le Scienze Biologiche siano a maggioranza femminile, mentre se ci spostiamo verso corsi con un maggiore contenuto matematico e tecnologico, le percentuali di donne calano notevolmente: in Fisica scende al 30%, mentre in Ingegneria Industriale si ferma al 27%. Un’eccezione interessante è rappresentata da Ingegneria Biomedica, dove le laureate superano i laureati, suggerendo che la scelta delle ragazze potrebbe essere più legata al tipo di indirizzo ingegneristico che al settore nel suo complesso. La situazione si fa ancora più critica nell’ambito dell’Informatica e delle tecnologie ICT, dove la presenza femminile crolla al 21%, un dato che dà da pensare se si considera l’attuale rivoluzione tecnologica che rischia di essere guidata e gestita da una comunità prevalentemente maschile. Le scelte universitarie di studenti e studentesse sono influenzate da tanti fattori, tra questi c’è anche la rispondenza tra l’immagine di sé e quella del percorso di studio. Immagini che sono anche influenzate dai contesti in cui si formano. Continuano a persistere idee diffuse e stereotipate, radicate negli atteggiamenti di insegnanti e nella società in generale, che vedono le ragazze come meno adatte alla matematica e alla tecnologia. Questo messaggio, trasmesso fin dall’infanzia attraverso giochi, libri e media, finisce inevitabilmente per condizionare le scelte successive delle ragazze. Quelle che scelgono di intraprendere percorsi come Ingegneria lo fanno spesso solo se si percepiscono particolarmente capaci e con risultati scolastici eccellenti, mentre i ragazzi si sentono più liberi di iscriversi anche con voti medio-bassi. Un altro aspetto non trascurabile è l’immaginario associato a discipline come Fisica e Informatica, spesso legate alla figura del “genio eccentrico” alla Einstein o allo stereotipo del “nerd”. Modelli che, non solo non riflettono la realtà, ma possono risultare anche poco attraenti per la maggior parte delle ragazze, che non li sentono affini all’immagine del futuro che desiderano per sé stesse. Inoltre, queste discipline vengono spesso presentate come aride e prive di una dimensione valoriale, un elemento che invece ha un peso significativo nelle scelte femminili, come evidenziato proprio dai dati del rapporto Almalaurea 2022 sulle aspettative lavorative. Mentre i ragazzi tendono a ricercare prestigio e opportunità di carriera, le ragazze danno priorità alla stabilità e alla corrispondenza con i propri ideali e valori. Dimensione valoriale che poi ritroviamo in alcune scelte delle donne nei percorsi di carriera successivi.

Qual è la reale situazione delle carriere uomini e donne nei nostri enti di ricerca italiani?

La situazione delle carriere continua a presentare una dinamica cosiddetta a "forbice". Al Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), a livello complessivo, la composizione di genere tra il personale di ricerca strutturato mostra una situazione di quasi parità tra uomini e donne a livello base e una forte predominanza maschile nelle posizioni dirigenziali. A ogni avanzamento di carriera assistiamo ad una diminuzione progressiva delle percentuali femminili, fino a una rappresentanza di appena il 20% nelle posizioni apicali. Questo fenomeno si riscontra sia in dipartimenti a prevalenza maschile, come l’ICT o le Scienze Fisiche, sia in quelli a prevalenza femminile, come il dipartimento di Scienze Biomediche, dove ci si aspetterebbe una maggiore presenza di donne nei ruoli di vertice. All’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) si parte da una base con prevalenza maschile tra il personale tecnologo e di ricerca, per poi osservare una progressiva perdita percentuale di presenza femminile nei livelli. apicali. Uno scenario analogo si osserva nelle Università italiane e in altri Paesi europei, seppure con alcune differenze. Anche sul fronte del precariato le differenze di genere sono notevoli: nelle Università, ad esempio, si registra quasi una parità di genere tra gli assegnisti di ricerca, mentre i contratti a tempo determinato, che offrono maggiori garanzie rispetto agli assegni, sono a maggiore presenza maschile.

Il Focus Gender Gap 2024 del consorzio interuniversitario Almalaurea ci dice che se è vero che le donne iscritte alle facoltà tecnico-scientifiche sono molto meno degli uomini, è anche vero che sono le donne a ottenere prestazioni accademiche superiori sia nel voto medio di laurea (104,7 su 110 contro 102,8 degli uomini) sia nella durata del percorso (il 58,6% delle donne conclude gli studi nei tempi previsti rispetto al 54,2% degli uomini). Tuttavia queste migliori prestazioni universitarie non si traducono in un vantaggio nel mondo del lavoro: il gender gap infatti investe anche l’aspetto retributivo e il posizionamento nei ruoli apicali. Perché?

Nel suo recente libro, Ilenia Picardi utilizza la metafora dei “Labirinti di cristallo” per descrivere le barriere che limitano l’avanzamento delle donne verso ruoli apicali nelle carriere scientifiche. Ostacoli invisibili che si estendono lungo tutto il percorso professionale e sono radicati nelle strutture organizzative, nelle norme culturali, nei meccanismi di valutazione che, nonostante si dichiarino meritocratici e neutri, spesso avvantaggiano implicitamente gli uomini. Un aspetto cruciale, sicuramente, è quello del “tempo,” considerato un criterio fondamentale nella valutazione e che, oggi, è sempre più accelerato. La rapidità di carriera è spesso associata all’eccellenza, tanto che ad esempio esistono dei limiti di età per accedere ad alcuni finanziamenti. Ovviamente un sistema che premia modelli di produttività basati sulla disponibilità totale è spesso incompatibile con la vita delle donne, e non solo di loro. È un sistema che ignora i percorsi non lineari delle donne, spesso segnati da maternità, responsabilità di cura o magari da un’attenzione alla dimensione valoriale segnalata dall’indagine di Almalaurea. In questo disegno di carriere, le interruzioni legate alla maternità posso penalizzare le donne con figli: il ritorno dopo il congedo, il mantenimento del ritmo nelle pubblicazioni, la mobilità all’estero, la responsabilità di laboratori o di progetti di ricerca sono tutti elementi cruciali per avanzare, che risultano spesso difficili da gestire. Ma le disuguaglianze non si limitano solo alla conciliazione tra vita e lavoro. Nonostante si parli di meritocrazia nel mondo scientifico, numerosi studi evidenziano come i processi di selezione e i bias inconsci tendano a favorire gli uomini. Un esperimento emblematico ha mostrato come lo stesso curriculum ricevesse valutazioni peggiori se presentato con un nome femminile rispetto a uno maschile, da revisori sia uomini che donne, rivelando un doppio standard che penalizza le donne, anche inconsciamente. Un altro aspetto importante nella pratica di ricerca che fa avanzare nella carriera è l’appartenenza a gruppi e network accademici che, per lo più sono a prevalenza di uomini, tendono a riprodurre sé stessi e limitare le donne nello sviluppare autonomia, ottenere visibilità o accedere a collaborazioni influenti. Stereotipi di genere giocano un ruolo chiave anche in ambito di leadership dove spesso posizioni decisionali o incarichi rilevanti vengono più frequentemente affidati agli uomini, anche quando le competenze e i ruoli sono equivalenti. Ovviamente, una struttura a “vertice maschile” tende ad autoconservare il sistema limitando le opportunità di trasformazione verso un ambiente più aperto.

Un altro divario assodato riguarda il numero di pubblicazioni scientifiche e di brevetti a opera delle ricercatrici rispetto a quello, significativamente più elevato, delle loro controparti maschili. Secondo un recente studio di Nature i contributi delle donne alla ricerca sarebbero semplicemente sottovalutati, facendo molta più fatica a essere riconosciuti.

Ancora oggi, il quadro delle disuguaglianze di genere nella produttività scientifica rimane poco chiaro e variabile a seconda dei settori disciplinari. È evidente, però, che la minore presenza delle ricercatrici nei ruoli apicali influisce sulla disponibilità di risorse economiche e di collaborazioni, con inevitabili ripercussioni sulla produttività. Anche la maternità e la necessità di conciliare vita e lavoro hanno un impatto significativo, specialmente per le giovani ricercatrici, considerando che i primi anni della carriera accademica coincidono spesso con quelli dedicati alla maternità. A smentire, però, l’idea che una minore produttività sia la causa principale del divario di carriera ci sono diversi studi tra cui quello recente di Giovanni Abramo, pubblicato sul Journal of Informetrics, che mostra che, anche a parità di produttività scientifica, le donne trovano comunque più ostacoli nel raggiungere le posizioni di vertice. Al di là comunque delle differenze di genere, è forse, però, il momento di riflettere su questa logica sempre più produttivistica che domina il mondo della ricerca, in cui la quantità di pubblicazioni è privilegiata rispetto alla qualità. Questo sistema, che premia chi riesce a pubblicare a ritmi frenetici, non solo marginalizza chi non riesce a sostenere questa pressione, indipendentemente dal genere, ma ha portato notevoli distorsioni nel mondo della ricerca come l’emergere di riviste predatorie e comportamenti opportunistici che minano la qualità della scienza disincentivando la ricerca riflessiva e critica. Sull’aspetto della sottovalutazione dei contributi delle donne, la storia della scienza è ricca di esempi dall’immagine della doppia elica di Rosalind Franklin fino al ruolo di Jocelyn Bell nella scoperta delle pulsar, da Elisabeth Blackburn che ha scoperto l’enzima telomerasi a June Almeida, “la donna del coronavirus”. Sebbene oggi la situazione in certi casi sia migliorata, la tendenza a minimizzare l’importanza di alcuni contributi femminili persiste, così come la scarsa considerazione per studi che riguardano le donne. Basti pensare agli studi sulla medicina di genere, che faticano ancora a essere integrati nella pratica medica mainstream. In pandemia questo gap si è allargato: a causa del Covid 19 più donne hanno perso il lavoro rispetto agli uomini. Eppure proprio durante la pandemia le donne ricercatrici hanno affermato il loro ruolo nelle diverse fasi della lotta contro il coronavirus, dall’avanzamento delle conoscenze sul virus, allo sviluppo di tecniche di test e, infine, alla creazione del vaccino: è stata una ricreatrice italiana, Maria Elena Bottazzi, a inventare il vaccino anticovid 19 Corbevax, che ha scelto di lasciare libero da brevetti, una scelta che l’ha portata alla nomination per il premio nobel per la pace nel 2022.

Lei ha scritto di recente insieme alla collega Sabrina Presto Scienziate visionarie. 10 storie di impegno per l’ambiente e la salute un libro che mette in luce il contributo delle donne nella ricerca ambientale e sanitaria, proponendo nuovi modelli di pensiero e azioni concrete per cambiare le cose. Ce ne vuole parlare?

Io e Sabrina Presto siamo due ricercatrici presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche ed entrambe ci occupiamo di ambiente. Io di inquinamento atmosferico e impatto sulla salute e sul clima, Sabrina di nuovi materiali per l’energia. Il progetto “Scienziate visionarie”, che è sia un libro sia uno spettacolo teatrale, nasce da un nostro sentimento di urgenza di fare qualcosa rispetto alle crisi climatica e le altre emergenze socio-ambientali. La nostra idea è stata allora quella di raccontare queste crisi e delle possibili prospettive per venirne fuori attraverso le storie di scienziate che si sono occupate di ambiente e salute, proponendo nuove “visioni” del pianeta e del ruolo della scienza. Le protagoniste sono biologhe, fisiche, chimiche, mediche, ecologhe vissute in epoche in epoche diverse e in vari angoli del mondo, che sebbene, relegate ai margini in quanto donne, hanno trasformato le loro discipline. Tra queste c’è Alice Hamilton che con una grande spinta etica ha rivoluzionato la medicina occupazionale negli Stati Uniti dei primi del Novecento con i suoi studi di tossicologia industriale, influenzando la legislazione sulla sicurezza sul lavoro e migliorando le condizioni nelle fabbriche di tutto il mondo. Un campo, quello della salute occupazionale, da sempre trascurato e oggi quasi assente dal dibattito sulla sostenibilità e sulla transizione ecologica. Un’altra figura è Suzanne Simard che con le sue ricerche sul sottosuolo ha cambiato per sempre il modo in cui comprendiamo le relazioni tra gli alberi spostando il paradigma della competizione verso quello della cooperazione. O anche Donella Meadows, prima autrice del famoso rapporto I limiti dello sviluppo degli anni ’70, che ha spinto la comunità scientifica a guardare oltre i numeri, lasciandosi guidare nel proprio lavoro da una visione di un mondo sostenibile.  A legare tutte le storie la convinzione di un pianeta interconnesso sul piano ambientale e sociale. È quindi, un libro che racconta in modo accessibile i “fatti” scientifici, ma anche le passioni, gli interessi e i “valori” e le spinte etiche dietro la pratica scientifica. L’obiettivo è smontare stereotipi di genere, mettere in discussione l’idea che la scienza e la tecnologia siano oggettive e neutrali, ma anche un invito a impegnarsi per il mondo più sostenibile che tutti vogliamo.

Abbiamo parlato di quanto sia importante il ruolo delle donne nella scienza e soprattutto la necessità di prospettive diverse nella scienza. Da dove partiamo per colmare questo divario ingiustificato, allora?

Io penso che il primo passo sia riconoscere e svelare i processi culturali e strutturali di esclusione e segregazione di genere. A livello di formazione è necessario lavorare per svelare e rimuovere gli stereotipi sul genere e sulla scienza a tutti i livelli scolastici. È necessario superare il cliché dell’essere più o meno portati per le materie scientifiche per promuovere approcci che valorizzino il potenziale di tutti e tutte, indipendentemente dal genere, riconoscendo le capacità come qualità sviluppabili piuttosto che innate. Le aspettative di insegnanti ed educatori/rici possono diventare “profezie autoavveranti” e influenzare le scelte delle studentesse, limitando o meno il loro interesse per la scienza e la tecnologia. È anche essenziale ripensare l’immaginario legato alla scienza fatta troppo spesso solo di leggi e formule e mostrarne anche l’aspetto umano e sociale, il valore etico e quello emozionale. Ci vorrebbero più esperienze laboratoriali che mettano al centro il soggetto che si interroga e così facendo ricrea il processo di scoperta. E a questo affiancare storie di scienziate, non per forza e non solo eccezionali, che possono ampliare l’immaginazione delle ragazze, aiutandole a visualizzare nuove possibilità di percorsi professionali e aiutare i ragazzi a liberarsi da stereotipi nei confronti delle coetanee e delle donne in generale. Se ci spostiamo al mondo della ricerca, lì è necessario agire nella rimozione delle barriere culturali e strutturali che limitano l’accesso delle donne a ruoli apicali. Anche qui bisogna partire dallo svelare stereotipi e pregiudizi. Mi ha molto colpito l'iniziativa dell'8 marzo 2024 della Facoltà di Fisica alla Sapienza di Roma, in cui sono state raccolte frasi sessiste che le studentesse hanno ricevuto da docenti e/o compagni di corso. Manifesti pieni di post-it a raccontarci di un mondo che si pensa sia appannaggio del passato. Pregiudizi che poi ritroviamo in modo più o meno subdolo a influenzare la valutazione dei curriculum e la distribuzione degli incarichi, e a volte danno vita a vere e proprie discriminazioni. Ben vengano iniziative come il video del CNR “Rumore di fondo”, che prova a far emergere gli stereotipi che si hanno durante una valutazione. Sulla questione conciliazione vita–lavoro dovrebbero essere incentivate politiche di welfare a 360 gradi e nel mondo della ricerca ci vorrebbero programmi di reinserimento post-congedo di maternità e politiche che contrastino le discriminazioni di genere a tutti i livelli. Al di là di queste azioni, penso che l’orizzonte verso il quale tendere debba essere il più ampio possibile, ripensare sicuramente questo modello di società e questa logica ancora strutturata su una suddivisione del lavoro in cui la cura della famiglia è “roba” da donne e verso una scienza più aperta, magari più lenta, ma più attenta alle sfide che abbiamo di fronte.

Nota redazionale

Cristina Mangia è una ricercatrice del CNR. Si occupa di inquinamento atmosferico e salute. È stata presidente dell’Associazione Donne e Scienza e ha ricevuto il premio “Wangari Maathai. Donne Pace e Ambiente”. In un suo recente libro, scritto con la collega Sabrina Presto, Scienziate visionarie. 10 storie di impegno per l’ambiente e la salute, racconta la storia di dieci donne che hanno abbracciato “nuove visioni” ridefinendo il panorama scientifico, portando la ricerca fuori dai laboratori e andando ostinatamente controcorrente.

L'autore

Elisa Spadaro

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