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Dibattito pedagogico

I disastri del capitalocene. Un’educazione per trattare la terra con saggezza

Fin dall’antichità, diversi autori fra cui Aristotele, Ippocrate e Plutarco hanno affrontato temi legati ai rapporti fra natura e specie viventi, animali e vegetali. Il progresso e l’innovazione segnano il miglioramento di tutta l’umanità, ma non sempre i comportamenti ad essi legati sono virtuosi per l’uomo, per l’impresa, per l’ambiente e per la società. Pur non essendo il fine della natura, infatti, l’uomo è per natura capace e non solo si è adattato all’ambiente, ma lo ha adattato a sé stesso. Un percorso che, da esigenze di difesa, lo ha condotto a estendere attraverso la tecnica il proprio dominio sul mondo circostante. Ma una sua incontrollata manipolazione della natura ha comportato, a cominciare dall’età industriale, delle ripercussioni in parte impreviste ma che mettono nuovamente a rischio l’esistenza della specie umana.

È solo nel XIX secolo che si parla di ecologia, termine che designa lo studio di questo rapporto fra gli esseri viventi e fra questi e l’ambiente circostante. Economia ed ecologia hanno la stessa radice, oikos, che significa “casa, ambiente di vita”, luogo dove si cresce, dove si è accuditi e dove si accudisce, in prospettiva globale, l’universo. Essendo l’ecologia, come anticipato, lo studio scientifico delle relazioni tra gli organismi e l’ambiente, essa racchiude l’insieme di conoscenze che riguardano l’economia della natura, primo e fondamentale fattore di sussistenza su cui si fonda qualsiasi modello di sviluppo. La natura produce beni e servizi tali per cui l’ingegno e le capacità produttive degli esseri umani appaiono insignificanti in confronto all’economia della natura (Shiva, 2006), ai “servizi gratuiti” forniti dalla natura (Baskin, 2005). La ridefinizione dei rapporti culturali fra uomo e territorio richiede un riconoscimento della soggettività vivente della natura e del territorio antropizzato.

Bevilacqua (2006) evidenzia come la natura non si presenti in forma di merce, non sia riducibile a oggetto vendibile: l’irradiazione e il calore solare, il clima, l’aria, le leggi della fisica e della chimica, i meccanismi dell’evoluzione naturale, sono senza rilievo e valore per l’economia. Tuttavia, l’attività produttiva degli uomini utilizza l’intera totalità vivente del mondo fisico, in cui nessuna realizzazione di ricchezza sarebbe possibile senza il coinvolgimento della natura. Secondo Bevilacqua è drammatico notare come l’economia, il sapere destinato a dirigere e orientare la parte più rilevante e crescente delle attività umane, quella di produzione e consumo di merci, abbia fondato le proprie basi su una riduzione aggressiva e unilaterale della complessità della natura. Lo sfruttamento a scopi di produzione di energia, del carbone, la cui sua stessa esistenza era interamente fondata sul millenario tempo di lavoro della natura, nel corso del XVIII secolo segna una svolta nella storia della violenza antropica sulla natura in cui fu possibile usare una risorsa non più soggetta ai cicli visibili di rigenerazione della natura. Questo meccanismo ha ignorato per decenni il tempo del mondo fisico, i servizi e il capitale naturale che l’ecosistema mette gratuitamente a disposizione delle attività economiche. Il tempo è dunque una risorsa necessaria e ineliminabile nel processo di produzione della ricchezza materiale e immateriale ed esso è stato sempre considerato, anche, come uno dei suoi maggiori ostacoli.

L’attuale era geologica, definita Antropocene, per la prima volta nella storia della Terra non è stata originata da fenomeni naturali ma da una specie vivente. Essa si manifesta come una fase della storia globale in cui le azioni degli esseri umani sono la principale ragione di modificazione degli equilibri planetari a seguito dell’impatto sul pianeta causato dalle modalità con cui l’uomo produce e consuma, si muove e organizza gli spazi urbani e rurali (Crutzen, 2005). Nell’interconnessione tra uomo e natura, l’Antropocene indica l’epoca caratterizzata dal predominio dell’azione umana sul pianeta, cioè l’epoca in cui le influenze antropiche si impongono su composizione e funzioni del sistema-Terra e delle forme di vita che lo abitano.

Tale definizione afferma in che modo le attività umane abbiano provocato e continuino a provocare alterazioni dell’equilibrio tra ecosistemi, de-ontologizzando allo stesso tempo il costrutto epistemologico della dicotomia uomo-natura.

Tuttavia, il concetto di Antropocene si trova al centro di un dibattito per cui la nuova era geologica, il cui operatore fondamentale sarebbero l’uomo e le sue attività, definisce l’anthropos come un tutto indifferenziato che impatta sulla natura, concepita allo stesso tempo come un ambiente incontaminato e innocente (la wilderness) e come un tutto indifferenziato che si oppone (nel senso del trovarsi di fronte) all’anthropos.

Moore (2017) presenta la “pericolosità” del concetto di Antropocene, quando usato a livello socioculturale e quindi al di fuori dell’ambito di definizione geologica, poiché il cambiamento climatico non è antropogenico quale risultato dell’azione umana in astratto, l’anthropos, bensì la conseguenza più evidente di secoli di dominio del capitale. Il cambiamento climatico è, per l’autore, capitalogenico: l’Antropocene, come concetto-sintomo, nega la disuguaglianza e la violenza del capitalismo, per cui il responsabile della catastrofe che potrebbe porre fine al mondo sarebbe un astratto anthropos. Moore invita a parlare di Capitalocene per riferirsi alle trasformazioni inscritte nei rapporti di capitale, proprie di un’ecologia-mondo con specifiche relazioni di potere e forme di produzione della natura. Il Capitalocene non individua un’epoca geologica, ma è un riferimento utile a chiarire la comprensione dei cambiamenti socio-ecologici in corso da alcuni secoli, ben prima della Rivoluzione industriale, la cui origine è nella rivoluzione della relazione lavoro-terra e nella supremazia della produttività del lavoro come misura della ricchezza all’interno della zona di mercificazione.

Affrontando la questione ambientale, l’alternativa proposta da Moore (2016) è pensare all’ascesa del capitalismo come un nuovo modo di organizzare la natura e quindi un nuovo modo di organizzare le relazioni tra lavoro, riproduzione e condizioni di vita: invece del capitalismo come economia-mondo, considerare il capitalismo come ecologia-mondo; il capitalismo non ha un regime ecologico, ma è un regime ecologico, cioè un modo specifico di organizzare la natura.

Il concetto di ecologia-mondo rimanda a un legame tra dinamiche sociali ed elementi naturali che compongono il modo di produzione capitalistico nel suo divenire storico, nella sua tendenza a farsi mercato mondiale. Sono i rapporti di capitale, a dovere essere chiamati in causa per comprendere questo periodo della storia del mondo e della storia umana, caratterizzato dallo sfruttamento del lavoro e dall’appropriazione del lavoro gratuito della natura umana (il lavoro di riproduzione sociale, come quello domestico realizzato solitamente dalle donne) e non umana (il petrolio, ad esempio, e le altre cosiddette risorse naturali). Il lavoro deve essere al centro delle riflessioni sulla crisi ambientale e non il tema generico del deterioramento ambientale dovuto a un’indistinta azione umana. Affrontare la cosiddetta questione ambientale significa ridefinire il lavoro e superare i rapporti di potere, costruendo una diversa, rivoluzionaria, politica della natura.

Recentemente, sull’onda delle riflessioni sulla crisi indotta dal capitalismo, oltre al Capitalocene sono state proposte altre alternative al termine Antropocene, capaci di evolvere le riflessioni sul tema da più angolazioni e qualificare più precise responsabilità di una parte degli agenti umani, quali il Wasteocene, “era degli scarti”, che intende mettere in luce le conseguenze epocali della produzione capitalistica di merci, e dunque di scarti, in termini di impatto ambientale, economico, sociale e, in senso più generale, antropologico (Armierio, 2021) e il Growthocene, “era della crescita”, che esprime la propensione a conseguire una crescita perpetua, contando, erroneamente, sul flusso crescente di materia e di energia, sull’accumulo di capitale e sul produttivismo in generale (Chertkovskaya, Paulsson, 2016).

Dalla trattazione fin qui condotta, si evince come il rapporto fra la crescita economica e l’ambiente, naturale e antropico, sia stato interpretato negli ultimi decenni in maniera fortemente diversificata. Alla fine degli anni Ottanta, dopo diversi episodi di disastri ambientali, il pensiero degli studiosi ha maturato proposte anche per le governance. È in questo periodo che viene definito il concetto di “sviluppo sostenibile”, con l’intento di porsi come elemento dal carattere programmatico, multidimensionale e sistemico, nella gestione del complesso rapporto fra uomo e ambiente; la sostenibilità, infatti, implica un benessere (ambientale, sociale, economico), preferibilmente crescente, che necessita di un modello educativo e di riflessione pedagogica alla luce delle evidenze sempre più marcate di inconciliabilità tra il bisogno di futuro e il futuro che il sistema attuale è in grado di offrire. Educare allo sviluppo sostenibile, attualmente, significa educare i cittadini di domani al compromesso, attraverso un processo di coscientizzazione che contribuisca all’emergere di un nuovo modo di pensare che faccia da sfondo a un agire ispirato dal principio di abitare con saggezza la Terra (Mortari, 2018).

IA, capitalismo, allucinazioni e crisi climatica

In un articolo pubblicato su "The Guardian" e tradotto in giugno di quest’anno per "Internazionale", la giornalista, scrittrice e attivista canadese Naomi Klein prende in considerazione e analizza quelle che chiama le “allucinazioni del capitalismo” in riferimento al tema – che è, in questo periodo, al tempo stesso di gran moda e decisamente urgente – dell’intelligenza artificiale, e più nello specifico dell’intelligenza artificiale generativa (quell’IA che è in grado di rispondere, con testi, immagini o altri media, a richieste e domande: l’esempio più famoso è il chatbot ChatGPT di OpenAI). Perché “allucinazioni del capitalismo”? Perché il sistema sociale, politico ed economico dal quale difficilmente ormai riusciamo a immaginarci slegati e liberi (per riprendere Mark Fisher) vede nell’intelligenza artificiale la possibile e “ragionevole” soluzione di diversi problemi che affliggono l’umanità, una soluzione in grado di migliorare la vita delle persone e del pianeta. La prima allucinazione riguarda proprio la crisi climatica. Scrive Klein:

Quasi invariabilmente, in cima alla lista dei vantaggi dell’IA c’è l’affermazione che risolverà in qualche modo la crisi climatica. Lo abbiamo sentito ripetere un po’ da tutti, dal World Economic Forum al centro studi statunitense Council on Foreign Relations fino al Boston Consulting Group, una multinazionale della consulenza gestionale. Quest’ultimo spiega che l’IA “può essere usata per favorire un approccio più informato e basato sui dati nella lotta alle emissioni di anidride carbonica e nella costruzione di una società più verde. […]”. Eric Schmidt, ex amministratore delegato di Google, ha sintetizzato questa tesi spiegando al mensile statunitense "The Atlantic" che vale la pena di correre i rischi legati all’IA, perché “se pensiamo alle grandi questioni del mondo, sono tutte molto complicate: il cambiamento climatico, le organizzazioni umane e così via. Ecco perché vorrei sempre che le persone fossero più intelligenti”. Secondo Schmidt, quindi, l’incapacità di risolvere grandi problemi come la crisi climatica è dovuta a un deficit d’intelligenza (Klein, 2023, pp. 48-50).

Le assunzioni alla base di questa allucinazione sono quindi le seguenti: per poter risolvere una questione importante come la crisi climatica (i) ci mancano dati e (ii) ci manca l’“intelligenza” adatta a collegare questi dati per individuare la soluzione al problema. Peccato però che le soluzioni già ci siano e siano molto chiare. È sufficiente leggere i report dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (cfr., ad esempio, il più recente report di sintesi: IPCC, 2023). Infatti, scrive Klein, «[l]a crisi climatica non è un mistero o un enigma che non abbiamo risolto per mancanza di dati abbastanza solidi. Sappiamo benissimo cosa dobbiamo fare, ma purtroppo non è un rimedio rapido: è un cambio di paradigma» (ivi, p. 50). Qualcuno potrebbe dire, quindi: «va bene, abbiamo i dati, ma ancora non abbiamo individuato una soluzione ottimale; tutte le soluzioni che abbiamo a disposizione sono all’insegna della rinuncia, della privazione di elementi fondativi del capitalismo». Ma la crisi climatica è una conseguenza diretta e inevitabile di un capitalismo su larga scala. Non vogliamo essere dipendenti dalla nicotina ma vogliamo comunque fumare… Per non cambiare paradigma, possiamo provare a fumare poco, possiamo provare a essere poco capitalisti oppure a essere pochi capitalisti (quest’ultima temo sarà la naturale implosione del nostro sistema se non ci sarà un’esplosione, e comunque sarà a scapito di molti).

Ma proviamo a fingere per un momento che effettivamente per risolvere la crisi climatica ci manchino i dati e ci manchi l’intelligenza per individuare una soluzione a partire da questi dati. E che un’intelligenza artificiale ci proponga una soluzione inedita a questo problema. Una soluzione realistica, però, quindi un cambio di paradigma. Lo stato di allucinazione nel quale ci troviamo non ci permette di rilevare due ulteriori problemi: l’acrasia e la malafede. Nel primo caso, sappiamo quello che dobbiamo fare ma non lo facciamo perché siamo deboli di volontà; nel secondo caso, sappiamo quello che dobbiamo fare ma non lo facciamo perché siamo malvagi (e siamo malvagi perché quello che dovremmo fare va contro i nostri interessi). Nel secondo caso è in gioco il potere, quello stesso potere che si aggrappa all’intelligenza artificiale per una soluzione della crisi climatica, sperando forse, anche se non ci credo molto, nella soluzione indolore, e comunque consapevole fin dall’inizio che non accetterà una soluzione radicale, perché questa va contro i propri interessi di potere. L’acratico in qualche modo ci spera, ma per lui di fatto non fa molta differenza che la soluzione sia proposta da un’intelligenza artificiale invece che da un’intelligenza umana; per lui, sperare in qualcosa di nuovo, a venire, in una soluzione inedita, in una nuova intelligenza sono tutti espedienti per differire il problema, per spostare avanti nel tempo il momento dell’azione ecologica, che, ora come ora, è inevitabilmente un’azione radicale, di rottura, non routinaria. Anche il potente in malafede ha bisogno di prendere tempo. Per lui, credere (o, meglio, far credere di credere) in una soluzione che arrivi da lontano significa mascherare di sostenibilità lo slogan di Margaret Thatcher “There is no alternative”.

Ma, come insegna Mark Fisher (2009), una alternativa c’è; anche se si tratta di una strada difficilmente percorribile, c’è ancora una qualche possibilità (forse ancora non per molto). L’ecologia – che, come la pedagogia, è una disciplina normativa (Colicchi, 2001), una teoria per la prassi – ci mostra qual è questa possibilità, quali sono le soluzioni percorribili e come possono essere percorse. L’educazione, se possibile, ha un compito ancora più arduo: quello di mostrare che si può e si deve perturbare il sistema. In questo senso, l’educazione è radicale; e pericolosa, sostiene Jerome Bruner: «L’educazione è pericolosa, perché alimenta il senso della possibilità» (Bruner, 1997, pp. 55-56).

Una domanda tante risposte

Arrivati a questo punto, potremmo scendere in strada, darci al sabotaggio, far saltare un oleodotto (cfr. Malm, 2022), oppure decidere di leggere ancora un paragrafo, fumare una sigaretta, rimandare qualche questione importante e prendere tempo.

Abbiamo posto la seguente domanda a ChatGPT-3.5: “Quali sono le soluzioni alla crisi climatica?” Quella che segue è la risposta.

La crisi climatica è un problema globale che richiede una serie di soluzioni coordinate e sforzi da parte di individui, governi, aziende e organizzazioni internazionali. Ecco alcune delle principali soluzioni alla crisi climatica:

1. Riduzione delle emissioni di gas serra:

  • Transizione verso fonti di energia rinnovabile: investire in energia solare, eolica, idroelettrica e altre fonti di energia pulita per sostituire i combustibili fossili.
  •  Efficienza energetica: migliorare l’efficienza energetica in edifici, trasporti e industrie per ridurre il consumo di energia.
  • Elettrificazione: sostituire i veicoli a combustione interna con veicoli elettrici e promuovere l’uso dell'energia elettrica per riscaldamento e processi industriali.

2. Conservazione e uso sostenibile delle risorse:

  • Protezione delle foreste: conservare le foreste tropicali e altre aree boschive, che assorbono il carbonio dall’atmosfera.
  • Agricoltura sostenibile: promuovere pratiche agricole che riducano le emissioni di gas serra, come l’agricoltura biologica e la riduzione dello spreco alimentare.

3. Ricerca e sviluppo:

  • Investimenti nella ricerca: sostenere la ricerca e lo sviluppo di tecnologie a basse emissioni di carbonio, come le tecnologie di cattura e stoccaggio del carbonio (CCS) e la fusione nucleare.
  • Innovazione tecnologica: promuovere l’innovazione nelle energie rinnovabili, nei trasporti puliti e in altre soluzioni climatiche.

4. Politiche pubbliche:

  • Imposte sul carbonio: implementare imposte sul carbonio o sistemi di scambio delle emissioni per incentivare la riduzione delle emissioni.
  • Normative ambientali: imporre normative più rigorose per limitare le emissioni di gas serra e promuovere l’adozione di tecnologie pulite.

5. Consapevolezza pubblica ed educazione:

  • Educazione ambientale: promuovere la consapevolezza pubblica sul cambiamento climatico e l’importanza delle azioni individuali.
  • Comportamenti sostenibili: incentivare comportamenti più sostenibili, come il riciclaggio, il trasporto pubblico e la riduzione del consumo di carne.

6. Cooperazione internazionale:

  • Accordi globali: partecipare agli accordi internazionali sul clima, come l’Accordo di Parigi, e collaborare a livello globale per affrontare il problema.

7. Adattamento ai cambiamenti climatici:

  • Pianificazione per il futuro: prepararsi agli effetti inevitabili dei cambiamenti climatici attraverso la pianificazione urbanistica resiliente e la gestione delle risorse idriche.

È importante notare che la risoluzione della crisi climatica richiederà uno sforzo collettivo su scala globale e l’adozione di una vasta gamma di soluzioni. È anche urgente agire ora per evitare danni climatici irreversibili.

Bibliografia

Armiero M. (2021). L’era degli scarti. Cronache dal Wasteocene, la discarica globale. Torino: Einaudi.

Baskin Y. (2005). Il pasto gratis. La complessità della natura come chiave dello sviluppo umano. Torino: Instar Libri.

Bevilacqua P. (2006). La terra è finita. Breve storia dell'ambiente, Roma: Laterza.

Bruner J. (1997). La cultura dell’educazione. Nuovi orizzonti per la scuola [1996]. Milano: Feltrinelli.

Chertkovskaya E., Paulsson A. (2016). The Growthocene: Thinking through What Degrowth is Criticising. Entitlecollective.

https://entitleblogdotorg3.wordpress.com/2016/02/19/the-growthocene-thinking-through-what-degrowth-is-criticising/  

Colicchi E. (2001). I problemi della pedagogia: oggetti, percorsi teorici e categorie interpretative. In F. Cambi, E. Colicchi, M. Muzi, G. Spadafora, Pedagogia generale (pp. 95‐140), Firenze: La Nuova Italia.

Crutzen P. (2005) Benvenuti nell’Antropocene. L’uomo ha cambiato il clima, la Terra entra in una nuova era. Milano: Mondadori.

Fisher M. (2009). Capitalist Realism: Is There No Alternative? Zero Books.

IPCC, 2023: Climate Change 2023: Synthesis Report. Contribution of Working Groups I, II and III to the Sixth Assessment Report of the Intergovernmental Panel on Climate Change [Core Writing Team, H. Lee and J. Romero (eds.)]. IPCC, Geneva, Switzerland, 184 pp., doi: 10.59327/IPCC/AR6-9789291691647.

Klein N. (2023, giugno 9-15). Le allucinazioni del capitalismo. Internazionale, 30(1515), 46–53.

Malm A. (2022). Come far saltare un oleodotto. Imparare a combattere in un mondo che brucia [2021]. Milano: Ponte alle Grazie.

Moore J.W. (2016). The Rise of Cheap Nature. Sociology Faculty Scholarship. 2.

Moore J.W. (2017) Antropocene o Capitalocene? Scenari di ecologia-mondo nell’era della crisi planetaria. Verona: Ombre Corte.

Mortari L. (2018). Pedagogia ecologica, educazione al vivere sostenibile. Pedagogia Oggi, XVI, 1.

Shiva V. (2006). Il bene comune della terra. Milano: Feltrinelli.

Soriano C. (2023). Anthropocene, Capitalocene, and Other “-Cenes”. The Jus Semper Global Alliance.

https://jussemper.org/Resources/Economic%20Data/Resources/CSoriano-AnthropoceneCapitaloceneOtherCenes.pdf

L'autore

Michele Cagol

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Monica Parricchi