Attualità

23 giugno 2021

Le storie. Carmelita Lofaro, insegnante a Milano e Rsu della FLC CGIL

Si chiama Carmelita Lofaro e insegna ormai da anni nella scuola primaria dell’istituto comprensivo di Milano, il “Pertini-Pirelli”. La sua è una storia che molti tra colleghe e colleghi condividono, e che parla di passione per la scuola e per gli alunni, per l’impegno civile e sindacale per una scuola moderna e attenta ai bisogni sociali e cognitivi, per una didattica e una pedagogia non cristallizzate ma che di giorno in giorno si confrontano col duro lavoro di insegnante. Con Carmelita abbiamo anche parlato di quanto è accaduto durante la pandemia, con lo stop and go molto frequente di aperture e chiusure, delle reazioni dei bambini e delle famiglie, della inedita organizzazione del lavoro pedagogico.

Carmelita Lofaro, maestra elementare, la tua è una storia comune per chi arriva al Nord dal Mezzogiorno. E tu arrivi a Milano dalla Calabria, con tanti sogni ma con tanta rabbia e malinconia.

Sono partita da Reggio Calabria 20 anni fa. Dopo il diploma di maturità classica mi sono iscritta alla Facoltà di Scienze dell’educazione a Messina poiché volevo diventare un’esperta dei processi educativi e formativi. Col passare del tempo però ho capito che questa facoltà stava ristrutturandosi e non dava certezze sul piano delle possibilità occupazionali. Così ho preso la maturità magistrale e partecipai ai tre concorsi nella scuola dell’infanzia, della primaria e per il personale educativo. È così che sono poi finita nel ginepraio delle graduatorie di Reggio Calabria, dove davvero era molto complicato trovare una cattedra. Qualcuno mi consigliò di fare domande al Nord. E sono partita, con molta rabbia e tanta malinconia. Sono giunta prima a Brescia, dove ho dei parenti che mi hanno in qualche modo facilitato l’esistenza, per poi trasferirmi a Milano, dove ho fatto lunghe supplenze nella scuola primaria.

La prima fase a Milano sarà stata dura…

La condizione di precariato è durata ben otto anni. Posso dire di aver vissuto in una bolla temporale per molti di quegli anni, coltivando perfino il desidero di tornarmene nella mia terra, dove comunque avevo ed ho radici profondissime. Tuttavia, mi sono adattata a Milano, perché ne ho imparato i ritmi e le opportunità che mi offriva. Devo dirti che mi trovavo tra l’incudine e il martello: la Calabria è terra bellissima ma povera sul piano delle proposte culturali. E Milano è una città che non consente di vivere bene per chi ha stipendi bassi come il mio. Eppure ho tenacemente scelto di continuare a vivere a Milano, in questa città che mi ha dato la possibilità di crescere culturalmente. E da parecchi anni lavoro ormai sempre nella stessa scuola, dove ho trovato colleghi solidali, l’amicizia di tanti.

Sei stata favorita da un contesto sociale che almeno in quegli anni appariva favorevole. Com’è la situazione oggi?

Quando sono arrivata a Milano c’era un grande fermento nelle scuole primarie, col tempo pieno, la compresenza, i gruppi di lavoro. Il tempo pieno funzionava. Questo modello improvvisamente è stato smontato, dalle ministre Moratti e Gelmini, e solo per ragioni “amministrative”, per contenere la spesa, si diceva allora. Oggi esiste il tempo scuola ma non esiste più il tempo pieno come lo vivemmo in quella fase. Così, purtroppo, oggi la scuola fa fatica ad andare avanti. Non esiste più la compresenza, esperienza secondo me straordinaria, ma al suo posto sono stati introdotti i moduli. È venuta a mancare la professionalità nelle scuole. I governi di destra che si sono succeduti hanno pensato solo alla scuola come sistema amministrativo che andava ripulito e tagliato. Anche queste condizioni strutturali hanno poi influito sulla traiettoria che mi ha portato da Reggio Calabria a Milano. Ed è purtroppo amara questa consapevolezza di non poter lavorare dove ho le mie radici. Come in un romanzo di Verga, la gente è ripiegata su sé stessa e teme i cambiamenti.

Parliamo di esperienze educative, prima del covid e durante la tempesta pandemica. Quali differenze hai riscontrato?

I miei studi universitari mi hanno dato la possibilità di incrociare diversi modelli educativi. Do molta importanza agli atteggiamenti espressivi e considero sempre gli interessi degli alunni, elevando sempre i loro talenti, generando nuove idee, sottraendoli alla routine. Mi piace costruire con loro dei viaggi intellettivi, perché la cultura è libertà, la conoscenza è libertà. In quinta elementare facevamo sempre la rassegna stampa, leggevamo le prime pagine su internet per conoscere ciò che accade intorno a noi. Abbiamo appreso le diversità interpretative tra i giornali. Ad esempio, sulla questione palestinese: i bambini di quinta hanno cominciato a fare domande e siamo andati a vedere sul piano storico cosa fosse successo in Palestina, con incursioni anche sul piano politico e sociale. E loro hanno capito che c’erano di mezzo gli inglesi e gli occidentali che avevano dimenticato i palestinesi al loro destino. Pian piano hanno cominciato a fare le loro riflessioni.  So che non era quella la sede per sciogliere i dubbi. Insomma, lo sviluppo del pensiero critico è molto molto importante. Io insegno italiano, le poesie, gli stili poetici, e so che la bellezza di un testo poetico li aiuta molto a sviluppare la fantasia, lo spirito critico ma anche il senso della bellezza, e il desiderio di proteggere e custodire. Prima del covid abbiamo sviluppato un progetto con delle installazioni basate sul concetto di bellezza, ma anche di natura, e dei beni comuni. Ed anche della cura del territorio e della propria scuola. E poi ho cercato un modo perché sentissero di stupirsi sempre.

Insomma, hai attraversato il confine del Thaumazein, la meraviglia di cui parlarono Platone e Aristotele e che conduce al pensiero filosofico.

Non v’è dubbio. Mi piacerebbe portare la filosofia nella scuola primaria. Ma penso anche al progetto sul Giorno della memoria, con una mostra dedicata a Liliana Segre, che è venuta nella nostra scuola. I bambini si sono appassionati all’idea di libertà, perduta e riconquistata. Abbiamo sviluppato questi progetti grazie ad un nonno che lavorava all’Accademia delle Belle Arti. Abbiamo raccontato una storia con questo progetto, abbiamo raccontato tutto l’orrore della Shoah con gli occhi dei nostri bambini.  Cosa ci dice questo episodio? Che a scuola è possibile inventare, elaborare, programmare, progettare collettivamente, pensare liberamente, con insegnanti e alunni. Da quando ho iniziato a far parte del sindacato, inoltre, come Rsu della Flc Cgil, sono venuta a contatto con i mille problemi che la scuola attraversa oggi. Mi sono resa conto che la scuola è oggi in declino, un luogo non più riconosciuto come centro di fermento culturale ma, ed è brutto dirlo, un parcheggio dove lasciare i figli, e dove devono essere fatte certe cose e non altre, altrimenti vieni giudicata come chi non sa fare il proprio lavoro. Tutto ciò sta emergendo con molta forza. Importante è il territorio, costruire una rete di conoscenze, perché sono svaniti i luoghi dove si parla insieme. E il sindacato su questo, sulla partecipazione sta investendo davvero molto, nonostante le difficoltà.

Poi è arrivato il covid che ha stravolto la vita di tutti…

Come l’abbiamo affrontato. A Milano abbiamo aperto subito la piattaforma e siamo partiti con la Dad, la didattica a distanza, che all’inizio ha creato molti problemi. Gli alunni avevano lasciato a scuola libri e quaderni, che non potevano essere prelevati. Poi non tutti gli alunni riuscivano a collegarsi, per tutte le ragioni che ci sono ampiamente note. Col passare dei giorni ci siamo adattati alla dad, alla ricerca di libri digitali, alla scoperta dei quaderni digitali. E abbiamo scoperto famiglie straordinarie sul piano della collaborazione con la scuola. È stato possibile partecipare a una iniziativa per la scrittura di un diario relativo alla loro esperienza della pandemia. Una memoria storica collettiva di quella generazione che poi è divenuta testimonianza collettiva. A settembre però abbiamo trovato in presenza una scuola diversa. Lezione frontale, la mascherina, la comunicazione solo con gli occhi. Ci siamo inventati il linguaggio del covid. Ho cercato di costruire laboratori virtuali, trattando temi come la fame e il cibo; abbiamo invitato scrittori ed esperti sulle piattaforme; abbiamo partecipato a tante piccole iniziative per cercare di prendere quello che si poteva. Ma la socializzazione è davvero mancata tanto. E quando a marzo per due settimane siamo stati costretti a una nuova chiusura della scuola, siamo riusciti comunque a mantenere gli standard che faticosamente avevamo ricostruito in presenza. Si è sviluppata, questa volta, una sorta di serenità negli alunni, “distanti ma a scuola”. Tempi duri, che abbiamo cercato di rendere belli. Ora, speriamo tutti che il prossimo anno, fin da settembre, sarà possibile ricominciare davvero.

L'autore

Pino Salerno