Vogliamo offrire ai nostri lettori l’articolo pubblicato sull’ultimo numero del Pepeverde con l’intervista di Paola Parlato a Angelo Petrosino, autore per Edizioni Conoscenza di un nuovissimo libro per ragazzi, che verrà presentato a Torino il prossimo 5 novembre, alla presenza dell'autore e di Gianna Fracassi e don Luigi Ciotti.
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Con uno stile serio e brioso insieme, che solo i grandi scrittori conoscono, è appena uscito un nuovo libro di Angelo Petrosino, dal titolo Nonno cos’è il sindacato? Una storia di lotte e di conquiste (Edizioni Conoscenza, Roma, 2024, pp. 160 € 15,00). Destinato ai ragazzi e alle ragazze da 9 a 99 anni, si tratta di un libro inaspettato e sorprendente, uscito quasi magicamente dalla penna di Petrosino e dai suggestivi disegni di Alberto Ruggieri. Basta leggere le prime pagine e ci si trova immersi nelle vicende di un nonno ex sindacalista che risponde alle domande del nipotino e racconta cos’è un sindacato, quale importante funzione svolga, cos’è uno sciopero o una manifestazione sindacale, cosa vogliono le persone che protestano creando a volte disagio agli altri. E poi arriva tutto il resto, la conquista dei diritti, la dignità del lavoro, i valori previsti dalla Costituzione, le ingiustizie ancora tra noi, cos’è la vera libertà … Nonno Francesco, il coprotagonista del libro, narra del mondo e il senso del vivere insieme, con alla base il calore degli affetti e il rispetto per sé e per gli altri.
Incuriositi dall’iniziativa, cominciamo col chiedere a Petrosino come è nata l’idea di questo libro per alcuni versi molto diverso dalla sua vastissima produzione narrativa.
Siamo abituati alle storie dei piccoli protagonisti dei suoi romanzi, che abbiamo visto crescere e attraversare i turbamenti e i cambiamenti dell’età. In questo racconto invece protagonisti sono un nonno e un nipotino, la loro tenera relazione è la narrazione di una esperienza che travalica la soggettività...
«Nei miei libri – risponde Petrosino – ho sempre avuto un occhio di riguardo per la quotidianità dei personaggi delle mie storie. Di qui l’attenzione per la crescita, le relazioni tra coetanei, i rapporti familiari, quelli che si sviluppano a scuola, i mutamenti sociali che condizionano la vita delle persone. A un certo punto, tuttavia, ho pensato che fosse giunto il momento di affrontare più direttamente la situazione concreta con la quale le nuove generazioni fanno i conti nella loro esperienza di vita. Soprattutto i ragazzi li fanno in modo confuso, come è logico alla loro età, e non trovano quasi mai adulti che li accompagnino nel prendere coscienza del mondo reale nel quale si giocano il loro presente e il loro futuro. I genitori dialogano poco con i figli, gli insegnanti spesso si lasciano travolgere dagli impegni in cui li imbriglia la burocrazia e si limitano ad insegnare la loro materia, senza concedersi uno scambio attivo di esperienze con i loro studenti. Manca il tempo, ma anche una percezione precisa di come sta evolvendo la nostra società, per poterla chiarire ai ragazzi e renderli meno insicuri. Ecco perché ho scelto un anziano, un nonno, come interlocutore privilegiato del nipote. Un nonno che da sindacalista ha vissuto intensamente la sua vita a contatto con quelle degli altri e ne dà concreta testimonianza a chi sta per affrontare la sua».
Quanto è importante la memoria per le giovani generazioni? Quanto è importante per i più giovani la mediazione affettiva nell’apprendimento e nella comprensione delle vicende storiche, politiche e sociali del passato e del nostro tempo?
«Da piccolo, come ho raccontato nel mio Bambini si diventa, ho avuto un rapporto molto forte con i miei nonni. Vivevo quasi a casa loro, perché la vera e propria spelonca dove abitavo trasudava umidità e rischiavo costantemente di ammalarmi. Perciò i rapporti con questi anziani erano quotidiani e intensi: dormivo da loro, mangiavo da loro, ero curato da loro con gli scarsi mezzi che la povertà del dopoguerra metteva a loro disposizione. Accompagnavo mio nonno all’alba, quando si recava a coltivare un campicello per conto d’altri, e passavo ore ad ascoltarlo. I suoi ricordi, le sue memorie, i disagi patiti, le discriminazioni politiche e sociali sofferte da lui e dai suoi cari si riversavano nella mia memoria, riempivano la mia infanzia, mi facevano sentire vincolato a una storia che mi riguardava e della quale dovevo fare tesoro per indirizzare nel verso giusto la mia vita. Avevo otto, nove anni, ma ascoltavo mio nonno come un adulto, orgoglioso di sentirmi responsabile già da piccolo. Mio nonno mi trasmetteva una storia che era esclusa dai banchi di scuola, e lo faceva non solo per rievocare nostalgicamente il suo passato, ma perché me ne servissi per le mie scelte a venire. Era una mediazione tranquilla, seria, lucida, affettuosa. Quell’uomo ci teneva davvero a passarmi un testimone che mi aiutasse a prendere decisioni meno avventate nel mio futuro. Quanti anziani della mia età oggi lo fanno con i loro nipoti? Spesso si limitano a prelevarli da scuola per conto dei genitori o si fanno insegnare dai piccoli l’uso più avvertito di un computer o di un cellulare. Il nonno protagonista del mio libro dice che possiamo e dobbiamo fare altro per chi vive i profondi cambiamenti del nostro tempo senza sentirsi legato ad alcuna radice».
Angelo è un bambino speciale, sensibile e pieno di curiosità, ma la sua ansia di ascoltare e di conoscere non è anche dovuta alla capacità del nonno di dargli attenzione e di trasmettergli la sua esperienza?
«Ho fatto l’insegnante per quasi quarant’anni per due ragioni. Volevo formare lettori felici e diventare un ascoltatore attento dei miei alunni per essere un adulto affidabile ai loro occhi, qualcuno al quale potevano rivolgersi fiduciosi quanto erano attanagliati dai dubbi, rosi da un cruccio, confusi e smarriti come si può essere a sette, otto, nove anni. Ai miei alunni ho raccontato spesso le mie esperienze di bambino negli anni ’50 del secolo scorso, cosa ha voluto dire per me lavorare già a sette-otto- anni, la mia avventura di piccolo emigrante (che ho riassunto nel mio libro in uscita Le vie del cuore. Storia di un piccolo emigrante italiano), la solidarietà familiare in tempi di penuria e di sacrifici. Così come i bambini si aprivano verso di me, io mi sono aperto nei loro confronti, per meglio intendere il senso di vivere in generale e nel nostro tempo. Questa capacità di ascolto verso i piccoli e i ragazzi oggi si sta smarrendo. Non è vero che ai bambini e ai ragazzi interessa solo il loro frastornante, fantasmagorico presente, pullulante di aggeggi elettronici che li stordiscono e li sfiancano mentalmente. Se incontrano adulti capaci di empatia e di interesse vero nei loro riguardi, ti ascoltano eccome. L’ho sperimentato a scuola, e lo riscontro quando vado ad incontrarli per rispondere alle domande suscitate in loro dalla lettura dei miei libri».
Nonno Francesco riesce a spiegare al nipotino cose difficili come le lotte sindacali, gli incidenti sul lavoro, il ruolo delle donne, le ingiustizie e le conquiste. Eppure la narrazione è piana, spesso avvincente come un racconto, capace di coinvolgere anche un bambino: qual è il segreto di questa intesa?
«I bambini e i ragazzi apprendono non con i sermoni, i moniti o i ricatti. Con loro funzionano soltanto gli esempi, le esperienze vere, gli squarci di vita reale, i confronti diretti con le loro esperienze. Ecco perché l’anziano Francesco è capace di coinvolgere il nipote senza annoiarlo, ma aprendogli visioni che lo intrigano e lo appassionano. Se parla di lotte sindacali, lo fa citando esempi di uomini e donne che si sono mobilitati e messi in gioco per difendere i diritti dei più deboli. Quando parla di incidenti sul lavoro, non si limita a fornire numeri e statistiche. Ma parla di nuclei familiari che si frantumano, di orizzonti di vita che si restringono o si chiudono, di figli che non vedono più rientrare l’uomo o la donna che a casa non portavano soltanto un salario, ma una sicurezza e una speranza. Quando parla di donne, non lo fa per omaggiarle astrattamente, ma per raccontarne la fatica, il coraggio, la disponibilità verso altre donne meno fortunate nei contesti più vari della nostra società. Le ingiustizie e le disuguaglianze non sono narrate citando numeri e date. Francesco le enumera rievocando la passione di chi ha contribuito a segnalarle, a combatterle e a superarle spendendo le sue migliori energie per conseguire conquiste utili per tutti. La forza del racconto deve sempre dispiegarsi attraverso un linguaggio piano, semplice e preciso. Soltanto così si può aspirare a coinvolgere mente e cuore di chi ci legge e a riuscire efficaci nel trasmettere memorie, proposte e verità».
Accanto al racconto delle lotte, delle strutture e dei diritti conquistati, nei racconti di Francesco ci sono elementi sempre presenti: l’umanità, l’empatia, il rispetto dell’altro. Non è forse questo il messaggio più forte che il nonno vuole trasmettere al nipotino?
«È così. Conduciamo generalmente una vita che ci rende distratti nei confronti degli altri, sui cui bisogni facciamo fatica a soffermarci, perché pressati dai nostri che non sempre riusciamo a soddisfare. L’empatia, il rispetto, la consapevolezza di una comune umanità che ci lega gli uni agli altri richiedono uno sforzo di comprensione che ci costringe ad allargare il nostro sguardo oltre i nostri interessi. Questo atteggiamento va coltivato sin da piccoli, soprattutto nei luoghi dove i bambini imparano a incontrarsi, a confrontarsi, a rispecchiarsi gli uni negli altri. Quindi a scuola, uno spazio che non deve trasformarsi in una arena di competizioni fini a sé stesse. Al contrario, oggi deve diventare il luogo in cui bisogna smantellare fin dalla prima infanzia i pregiudizi instillati da adulti rancorosi e infelici, dove la solidarietà deve cominciare ad essere operosa, dove la diversità deve costituire una ricchezza da custodire e il rispetto deve accompagnare scelte e comportamenti. Quando emigrai in Francia a dieci anni e per la prima volta fui introdotto in una classe dove stavano fianco a fianco bambini francesi, algerini, vietnamiti, spagnoli, portoghesi e italiani, ai miei occhi si aprì un mondo impensabile e concepii una visione della vita che mi ha segnato per sempre. Al mio paese avevo lasciato dei compagni che mi somigliavano anche fisicamente: erano figli di braccianti, disoccupati, contadini, muratori e così via. Di colpo, fui catapultato in una società dove tanti arrivavano da lontano con le loro storie, le loro vite, le loro speranze. Imparai subito a capire gli altri e a chiedere agli altri di essere capito, giocando, mangiando, instaurando ora manifeste, ora segrete complicità. È tutto questo che Francesco insegna a suo nipote con le storie della sua vita».
Quanto pensi sia oggi necessario soffermarsi su questi valori? Ce n’è forse più bisogno di prima?
«Oggi alla felicità si dà spesso una connotazione soltanto individuale. Il mio benessere, la mia felicità vengono prima di tutto. Se gli altri sono un ostacolo al loro conseguimento, vanno messi da parte o ignorati. Questo avviene dappertutto: sui luoghi di lavoro, dove a volte regna la spietatezza di chi deve farsi strada sbaragliando i concorrenti; in famiglia, dove soprattutto gli anziani devono avanzare meno pretese quando non sono più indipendenti e devono adattarsi a trasferirsi altrove, per essere accuditi da chi non ha mai fatto parte della loro esistenza e della loro storia, e in tante altre occasioni. Rischiamo così sempre più di abituarci ad avere il cuore freddo, di vergognarci della nostra sensibilità, di disumanizzarci e, alla fine, di perdere noi stessi. Ecco perché dei valori in cui ha sempre creduto Francesco oggi c’è più che mai bisogno. La vita delle piccole comunità in cui sono cresciuto da bambino, dove in un certo senso ero figlio di tutti, attualmente è confinata in piccole realtà. Oggi la solitudine nella folla e lo smarrimento nei tentacoli delle città sono quasi la regola. Ma non bisogna rassegnarsi, perché sarebbe una prova di viltà. Perciò ho pensato che un libro come questo potesse essere anche uno strumento di resistenza e di formazione. Una sorta di testo di educazione civica militante per piccoli e grandi».