Riportiamo di seguito un intervento pubblicato sul sito di Proteo Fare Sapere Nazionale di Massimo Baldacci, presidente nazionale dell'Associazione sulle nuove Indicazioni nazionali.
Segnaliamo inoltre la recente pubblicazione di un monografico di Articolo 33 sul tema, disponibile gratutitamente per tutti i nostri lettori.
Le nuove Indicazioni curricolari nazionali sono uscite recentemente in forma revisionata, dopo che la prima versione era stata sommersa da un’ondata di critiche da parte di molte associazioni di insegnanti e di società scientifiche.
Nella nuova versione sono state operate varie rettifiche. La mia valutazione è che tali rettifiche non incidono però sulla sostanza del documento originario, che appare riaffermata.
Infatti, la cornice ermeneutica dell’intero documento è rappresentata dalla Premessa: è qui che troviamo le chiavi interpretative generali delle nuove Indicazioni. E a questo livello l’impostazione originaria non ha subito cambiamenti significativi. Si continua a ravvisare un’ispirazione culturale occidentocentrica e un’inclinazione pedagogica deterministica e antiegualitaria, come avevo rilevato nel mio precedente intervento su queste pagine.
Faccio un solo esempio, ma emblematico. Nel mio primo intervento sulle Indicazioni, avevo criticato il modo in cui erano stati usati concetti equivoci come quelli di “talento” e di “potenziale cognitivo”, che – in assenza di opportune precisazioni sulla loro natura – si prestavano ad essere intesi come qualcosa di innato. Per cui, si lasciava intendere che queste doti naturali predeterminano il grado di apprendimento e di sviluppo possibile per ogni alunno, legittimando così la diseguaglianza degli esiti scolastici (la cui origine è in realtà piuttosto sociale). Non so se questa critica sia in qualche modo arrivata alla commissione, fatto sta che questa ha cercato di correre ai ripari. Così, nel passaggio del paragrafo Scuola e nuovo umanesimo in cui si parla del talento “come l’espressione attiva e situata delle potenzialità del soggetto” è stato aggiunto un importante inciso: “non riducibile a una dote innata” (c.vo mio), precisando poi “ma strettamente connesso alla sua capacità di mettere in gioco risorse cognitive, affettive e creative in risposta alle opportunità offerte dall’ambiente”. Confesso che il senso di tutto il periodo non mi pare chiaro. Comunque, prendo atto dell’importante precisazione circa l’irriducibilità del talento dell’alunno a una dote innata. Molto bene. Tuttavia, resta imprecisata la natura delle potenzialità del soggetto, di cui il talento sarebbe l’espressione attiva. Se queste sono innate (come pare di capire, dato che la precisazione circa l’irriducibilità sembra riferita solo al talento), la questione cambia poco. Tali potenzialità predeterminano il livello del talento sviluppabile dall’alunno. Perciò, anche se il talento in sé non è strettamente innato, in quanto richiede l’espressione attiva (l’esercizio) di tali potenzialità per svilupparsi, appare predeterminata per nascita la soglia di talento raggiungibile dai diversi alunni (ossia, l’esercizio può solo realizzare le potenzialità innate). Si resta, cioè, nel quadro di un naturalismo deterministico. Mi viene poi da chiedere quale sia la natura di questa fantomatica “capacità di mettere in gioco risorse cognitive, affettive e creative” che si dice strettamente connessa al talento e appare così decisiva per il suo sviluppo. Quale è la natura di questa capacità? È innata, e in questo caso è uguale per tutti o è naturalmente diseguale? Oppure è appresa, e secondo quali modalità? Ripeto che il senso di tutto il periodo non è chiaro, e a mio parere non delucida in modo soddisfacente la questione del talento. Ma un chiarimento importante arriva subito dopo, dove si afferma che “il talento emerge quando l’alunno è inserito in un conteso capacitante” (c.vo mio). Circa il lemma “emergere”, il Dizionario De Mauro (sono tra coloro che continuano a considerare il suo autore un punto di riferimento culturale) attesta due accezioni: 1. salire alla superfice; 2. farsi progressivamente evidente (figurato). Quindi se il talento “emerge” vuol dire che prima era sommerso e poi sale alla superfice, rendendosi progressivamente evidente. Ma se era sommerso significa anche che c’era già, anche se non si era ancora reso evidente. Era già lì, evidentemente fin dalla nascita. Questa immagine è in patente contraddizione con quanto asserito nel periodo precedente circa l’irriducibilità del talento a una dote innata. Se si combina questa osservazione con quella sopra riportata sul carattere delle potenzialità degli alunni, pare che gli estensori delle nuove Indicazioni siano così ideologicamente impregnati dal naturalismo deterministico da tradire loro malgrado questa inclinazione. Forse qualcuno obbietterà che spacco il capello in quattro pur di trovare pretesti per criticare il nuovo testo.
Bene, supponiamo pure che l’analiticità del mio esame sia eccessiva (che diamine, non si tratta di un testo scientifico, sono solo indicazioni curricolari!). Proviamo allora a immaginare che la precisazione circa l’irriducibilità del talento a una dote innata sia dirimente a dispetto delle incoerenze sopra evidenziate. Ossia, chiudiamo la questione: il talento non è innato, si forma attraverso l’esperienza in contesti capacitanti. Ovviamente, sarei pienamente d’accordo. Tuttavia, sorgerebbe un altro problema, ancora più grave. Per spiegarlo occorre precisare che lo sviluppo dei talenti viene indicata nel documento come inerente alla finalità principale della scuola. In aggiunta a ciò, nell’ultimo paragrafo della premessa (Scuola che sa essere inclusiva) si indica che la strategia adeguata a sviluppare il talento di ogni scolare è rappresentata dalla personalizzazione. Quindi, la personalizzazione non appare soltanto come una misura per l’inclusione scolastica, ma come un principio generale della formazione scolastica. Aggiungo, che personalizzazione può essere considerata come una strategia che diversifica gli obiettivi formativi di ogni scolaro in funzione dei suoi talenti, così da permettere a ognuno di sviluppare pienamente i propri. Se si pensa che il talento sia innato, o sia comunque il frutto di potenzialità innate, l’indicazione della personalizzazione non fa una grinza. Nella prima versione delle Indicazioni la critica fondamentale era che si lasciasse intendere che il talento ha un carattere innato, mentre la scelta della personalizzazione era criticabile solo e proprio perché coerente con questa idea. Tuttavia, se si asserisce che il talento non è innato ma si forma, non vi è allora alcuna ragione per indicare la scelta della personalizzazione come strategica. Anzi, vi sono allora buoni motivi per ritenerla inadeguata. Ciò è facilmente comprensibile. Se i talenti non sono innati ma si formano, allora gli ambienti sociali di sviluppo hanno un ruolo fondamentale nella loro strutturazione. Quindi, le pretese inclinazioni che si osservano a scuola negli anni del primo ciclo sono in realtà il frutto dei condizionamenti dello sviluppo dei bambini da parte dei loro ambienti sociali. Pertanto, non vi è alcuna ragione per cui la scuola dovrebbe operare per rafforzare queste presunte inclinazioni personali. Ovviamente queste non debbono essere ostacolate. Ma il compito della scuola è quello di portare tutti i bambini a padroneggiare pienamente le conoscenze e le competenze fondamentali. Per fare un esempio, se Pierino del dottore manifesta talento linguistico e Gianni dell’operaio (confesso che non so se esistono ancora mugnai) talento pratico-motorio, la scuola non deve operare per rafforzare queste diverse inclinazioni, frutto delle diseguaglianze sociali. La scuola ha il compito di dare sia a Pierino che a Gianni una piena competenza linguistica (che i talenti abbiano tutti il medesimo valore non è vero sul piano sociale). Questo ci aspettiamo da una scuola coerente con la Costituzione. Concludendo, si danno due casi. O le Indicazioni continuano in realtà a sostenere la natura sostanzialmente innata dei talenti e/o delle potenzialità, e allora sono da respingere per il carattere indimostrato di questo assunto, e perché esso finisce per mascherare come naturali diseguaglianze che hanno un’origine sociale. Oppure le indicazioni hanno operato una scelta a favore di una concezione non innata (dunque essenzialmente sociale) del talento, ma allora sono da respingere per l’adozione strategica della personalizzazione, che appare immotivata e iniqua, in quanto rafforzerebbe consapevolmente diseguaglianze che hanno origini sociali. Lascio al lettore la conclusione.
Massimo Baldacci
Presidente nazionale di Proteo Fare Sapere