Il vento gelido dell’antidemocrazia
Un vento malsano soffia nelle contrade del nostro vivere civile. È il vento gelido dell’antidemocrazia. Oggi spira in tutto il mondo conosciuto come Occidente e sembra aver conquistato il cuore della potenza egemone, sicché questo vento malsano spinge le persone a rinchiudersi nel proprio privato.
Il cittadino, l’individuo, il lavoratore, che la nostra Costituzione vuole libero e messo nelle condizioni di partecipare effettivamente all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese, lo si vuole ormai ridotto a strumento di un meccanismo impersonale che si chiama mercato/finanza/profitto.
È il vento gelido che annichilisce i valori dell’umano e lo considera un ingrediente del capitale, il capitale umano, appunto, come elemento della marcia trionfale della ragione economica.
È la ragione economica, dunque, diventata religione, la religione del binomio Denaro-Merce, a possedere le nostre vite.
La scuola è un bene comune, non va a mercato
Confessiamolo a noi stessi, la dimensione della razionalità economica è subdolamente penetrata in silenzio e rischia di dominare la vita anche della nostra scuola.
È lo stesso linguaggio che usiamo a rivelarci il grado di corrompimento che stiamo subendo. Perché il linguaggio non è altro che lo specchio dell’essere, è una struttura dei rapporti sociali.
Cosa altro è, se non cedimento a una ideologia economicistica, il fatto che il nostro piano di formazione in ogni singola scuola si chiami Piano dell’Offerta formativa? Dobbiamo avanzare un’offerta perché “l’utente” possa decidere quale sia la migliore.
Le stesse iscrizioni non sono finalizzate alla costruzione di una comunità su base territoriale di viciniorità e di bacino ma sono finalizzate alla concorrenza, alla competizione perché la finalità è la soddisfazione del cliente.
Ed è dal mercato che mutuiamo le carenze e i vantaggi che fanno segnare gli alunni nel loro percorso di studi talché essi diventano debiti da saldare e crediti da esigere.
Le stesse incombenze dei docenti ormai sono uno stanco repertorio di carte da redigere a protezione del percorso contro i possibili colpi giurisdizionali che molti praticano ormai ossessivamente.
Perché poi nulla sfugga alla valorizzazione del futuro datore di lavoro, di questo percorso fanno parte le torsioni del made in Italy come degli Accademy, come amiamo imbellettar d’inglese le brutture della nostra legislazione scolastica.
Con il corollario di una drastica riduzione da cinque a quattro anni del percorso di studi nel momento in cui le società dell’intelligenza artificiale semmai reclamano più studio, più applicazione, più intelligenza umana, più creatività, in una parola… più scuola. E poi vogliamo una scuola diretta da un management e da un middle management.
Inoltre non mancano le fondazioni specializzate nella stesura di graduatorie fra licei e fra istituti perché l’utente possa scegliere alla bancarella del Piano dell’Offerta formativa.
Ma la scuola, per noi, è un bene comune. La scuola, per noi, non va a mercato.
Organi collegiali e autonomia: un binomio inscindibile
Con queste premesse di valore veniamo ora più specificamente agli Organi Collegiali. E all’autonomia scolastica.
Noi abbiamo costruito questo convegno interpellando al nostro interno i colleghi che animano il dibattito sulla professionalità docente, nell’ambito del Forum statutariamente previsto dalla FLC CGIL. Abbiamo incontrato le associazioni, abbiamo ascoltato studenti e genitori.
Ebbene, è emerso con nettezza, che se vogliamo affrontare correttamente la questione degli Organi Collegiali, dobbiamo ritornare a parlare congiuntamente di autonomia scolastica. Organi Collegiali e autonomia sono un binomio inscindibile.
L’autonomia, una parola inscritta nella nostra Costituzione, ha potuto essere pensata solo perché nei tre decenni precedenti fino al 2001 vi era stato il retroterra degli Organi Collegiali che avevano preparato e predisposto alla gestione democratica l’ambiente scolastico che, in quanto scolastico, o è democratico o non lo è.
Ma l’autonomia è stata da subito ostacolata, vilipesa, distorta verso l’amministrativo e appunto verso la gestione dell’economico, nonostante la scuola non possa essere assimilata a una qualsiasi struttura amministrativa dello Stato, talché abbiamo sempre considerato il comma 2 dell’art. 1 del Dlgs. 165/01 che incorpora fra le amministrazioni dello Stato le scuole e tali le tratta un errore di cui paghiamo le conseguenze ancora oggi.
L’autonomia che doveva essere di organizzazione, di didattica, di ricerca e sperimentazione si è ridotta al solo ambito amministrativo, a pura amministrazione. L’autonomia oggi è eteronomia, dal momento che leggi, circolari, interventi burocratici sempre più invasivi hanno desertificato creatività e libertà.
L’autonomia doveva essere sostenuta dall’istituzione dei Centri di supporto amministrativo a livello provinciale, ma questi centri non sono stati istituiti. Doveva essere supportata dai CIS (Centri di Iniziativa scolastica a livello provinciale) ma questi centri non sono stati istituiti. L’autonomia doveva consentire soprattutto una declinazione delle sue tre dimensioni, di organizzazione, di didattica, di ricerca e sperimentazione. Tutte e tre queste dimensioni sono state interdette.
Sul piano organizzativo è ormai il Ministero a dire quali figure istituire e quali no.
Sul piano didattico il coacervo di progettistica imposta sui più diversi terreni dettati dalle emergenze sociali ha sfiancato e ridotto la didattica a una rincorsa al finanziamento.
Mentre, se c’è una dimensione che non è stata mai presa in seria considerazione, è proprio quella della ricerca e sperimentazione.
Una delle rivendicazioni che abbiamo discusso all’interno del nostro sindacato è proprio questa: finanziare, rendere possibile i gruppi di ricerca all’interno dei collegi, e ciò in connessione con i processi di formazione che devono essere in capo ai collegi e a nessun altro soggetto. Nulla di tutto ciò finora.
E, per finire su questo quadro di attese – ma soprattutto – di promesse mancate, ormai abbiamo scuole eccessivamente grandi, ingestibili.
Si pensi: al varo dell’autonomia il massimo degli alunni per una scuola normodotata, per dire così, era di 900. Ora siamo alle migliaia. Quale docenza può operare, quale dirigenza può dirigere in queste condizioni?
Se si vuole davvero bene alla scuola, se si vogliono davvero rivedere e rilanciare gli Organi Collegiali, è da qui che bisogna ripartire, dal rilancio dell’autonomia: organismi di supporto territoriale, amministrativo e didattico, deburocratizzazione, iscrizioni di territorio, organico funzionale, personale di ruolo e stabile, continuità didattica, libertà di insegnamento (che è tale solo se è soggetta a un solo condizionamento, quello dello sviluppo integrale dell’alunno), libertà di autorganizzazione (dove è il legame debole e non quello gerarchico a essere la dimensione portante), disboscamento delle educazioni e libera progettualità non imposta da finanziamenti a finalità coatta, creazione di un ambiente con finanziamenti specifici dove il docente pratica sperimentazione e ricerca come impresa collettiva e socializzata, ripristino di un numero congruo di Ispettori didattici. E insistiamo su questo aggettivo, didattici, e non amministrativi, come ormai sono, perché scelti dall’alto, senza concorso e senza provenienza – come invece deve essere – fondata sulla disciplina scuole con non più di novecento alunni. E infine generalizzazione degli asili nido, del tempo pieno alla scuola primaria, prolungato alla secondaria di primo grado, laboratori e tempo lungo alle superiori.
Accanto a questo tipo di autonomia può risorgere tutto il complesso degli Organi Collegiali riformati. Ma prima di passare a dire come noi vediamo, accanto al rilancio dell’autonomia, i nuovi Organi Collegiali che dovevano essere rinnovati 25 anni fa, in concomitanza, appunto, con il varo dell’autonomia, vogliamo con forza ribadire il seguente concetto: nessuno tocchi i poteri attuali degli Organi Collegiali con leggi e leggine. E nessuno pensi di considerarli come enti riformabili a cuor leggero, inserendo il tema fra mille altri che magari hanno la parvenza della semplificazione. Gli Organi Collegiali per loro natura non sopportano semplificazione. I protagonisti della loro trasformazione devono essere i docenti, gli ATA, gli studenti, i genitori, i Dirigenti, gli Ispettori didattici, le forze sociali, le forze politiche e ogni forza collettiva della società civile e della società politica, in un processo di ascolto di massa dalla lunga durata e da una plurale e articolata proposta. Noi ci candidiamo a essere soggetto fra gli altri con le proposte che ci sentiamo di avanzare forti della nostra discussione che mai è venuta meno al nostro interno in questi 25 anni in cui la necessità della riforma è rimasta sospesa e ha aleggiato come un fantasma sulle durezze imposte alla vita scolastica quotidiana.
Docenti, il loro Collegio, i loro organismi
Il Collegio dei Docenti è l’organismo centrale, l’anima della scuola. Esso deve essere salvaguardato integralmente nelle sue prerogative attuali. Esso è, e deve rimanere, sovrano in materia pedagogico-didattica, organizzativa e di sperimentazione.
Semmai, dobbiamo porci il problema della sua funzionalità.
In attesa che venga superato l’obbrobrio delle scuole alveari dalla gestione di per sé improbabile se non impossibile, pensiamo che il Collegio debba avere la prerogativa di rifiutare ogni atto che intacchi la sua autonomia. Al di fuori delle indicazioni nazionali, ogni nota e ogni circolare che non abbia implicazioni amministrativo-contabili, può essere rigettata, valendo essa solo come raccomandazione.
Il Collegio può anche prevedere una sua organizzazione di lavoro per grandi sessioni demandando ai gruppi, ai dipartimenti, alle dimensioni di indirizzo, di plesso, di grado scolastico la determinazione dei progetti e della loro pratica concreta.
Può organizzarsi come un organismo a funzione gestionale, costituito secondo criteri autodeterminati, come può essere, ma solo per fare un esempio, quello del Coordinamento di classe o di sezione. Ciò, in ogni caso, al fine di snellire il lavoro, di evitare riunioni infruttuose, a ordine del giorno infinito e a deliberazioni approvate il più delle volte per sfinimento e per una vera impraticabilità democratica.
Siamo oggi in una situazione in cui i componenti del Collegio non sono nelle condizioni di potere discutere serenamente e liberamente dei temi pedagogico-didattici: occorre costruire organismi nel cui ambito ci si prepara alla discussione con materiali precedentemente predisposti.
In questo deve soccorrere una diversa pratica e funzionalità degli organismi, ma anche l’acquisizione, da parte di ogni singolo docente, di ogni singolo ATA o educatore, di quali sono i poteri i doveri e i diritti del Collegio e degli altri Organi Collegiali: ciò deve far parte del bagaglio culturale del docente, ma, diremmo, del personale tutto, il quale deve sapere, all’atto di entrare nei ruoli e magari durante l’anno di prova, con una formazione dedicata quali sono i suoi poteri e quali sono le prerogative dell’organismo di cui è componente.
Anche il Contratto può fare la sua parte, appostando risorse e indicando obiettivi che possono senz’altro assistere, come già avvenuto nei contratti dei primi anni 2000, gli anni cioè del varo dell’autonomia, alla libera determinazione dei collegi.
Siamo ancora oggi orgogliosi di poter dire, come non ci stanchiamo mai di ricordare in ogni occasione, che i contratti sono stati gli unici strumenti che davvero hanno dato una mano all’autonomia dacché ogni promessa, di quelle che sopra abbiamo elencato, è stata disattesa.
Gli ATA, la loro partecipazione, il loro contributo alla collegialità
Parlando del personale ATA, ci piace qui ricordare che con il contratto siglato nel 2018 abbiamo fatto un leggero passo in avanti, forse passato sotto silenzio, perché non se ne è colto il valore, non solo simbolico, ma anche sostanziale.
Non solo l’inclusione di questo personale nella comunità educante ma anche l’incontro di inizio d’anno del solo personale ATA: questo, chiamato pudicamente incontro, altro non è che un organo collegiale dove finalmente gli ATA possono discutere del loro apporto in relazione al PTOF, che noi chiameremo d’ora in poi Piano Formativo.
Infatti il personale ATA non ha ricevuto giustizia al momento del varo degli Organi Collegiali, anche se, con uno o due componenti, fa parte del Consiglio di istituto, ma questo non è bastato e non basta.
Occorre dare veste istituzionale all’incontro di inizio anno chiamandolo per quello che è, un’assemblea che dovrebbe potersi riunire a discrezione e delle cui determinazioni si dovrebbe tener conto per l’assunzione delle decisioni generali.
Accanto a questo occorre riparare a un vuoto di rappresentanza facendo sì che il DSGA diventi membro di diritto del Consiglio di Istituto in aggiunta al personale che attualmente viene eletto. E occorre trovare il modo di far interloquire, in forma istituzionalizzata, il Collegio con gli ATA e l’Assemblea ATA con la docenza.
Gli educatori
In questo quadro riformatore rientrano a pieno diritto anche gli educatori dei Convitti e degli Educandati. Questo personale reclama a giusto titolo un riconoscimento del proprio valore nel processo decisionale degli Organi Collegiali. Ha bisogno anch’esso di luoghi istituzionali, non solo sindacali, dove possa esprimere la propria soggettività senza esclusioni che mal si conciliano con una comunità democratica.
E questo implica il superamento del sistema basato sul Consiglio di Amministrazione nominato dal Ministro dell’Istruzione, regolamentando l’interrelazione con i Collegi dei Docenti, i Consigli di classe delle istituzioni scolastiche di riferimento, nel rispetto dei ruoli e delle rispettive competenze professionali.
I Dirigenti
Il DDL 1192 del luglio 2024 che ha iniziato il suo iter al Senato recita di una semplificazione che dovrebbe risiedere in «una revisione degli Organi Collegiali ridefinendone il rapporto con il ruolo, le competenze, le responsabilità dei Dirigenti scolastici». Si tratta di una inquietante semplificazione.
Semplificare, ci sembra di capire, in questo caso altro non vuol dire che accentrare i poteri nella figura apicale della scuola, portando a termine un processo che magari finora ha avuto l’apparenza dello spontaneo – ma che spontaneo non è stato – e che ora si porta in esplicito e si rende normativo e normale.
Ma, come normale non è stato privare il Consiglio di istituto della sua prerogativa di dettare gli indirizzi, spostandola con la legge 107/15 sulla figura del DS, normale non è che un organo monocratico abbia prevalenza sugli Organi Collegiali; è contrario al principio costituzionale dell’autonomia che il plurale soccomba al singolare.
Noi abbiamo sempre voluto un Dirigente di scuola come dirigente di un team dove non si esercita gerarchia, se non per gli aspetti connessi ai doveri del lavoratore, perché la scuola, la didattica sono luoghi e attività libere dove o regna la libertà contro la necessità o nulla funzionerà. La relazione didattica non è coercibile e incanalabile, pena la fine della libertà e creatività dei soggetti che nell’educazione e nell’istruzione si scambiano saperi, ricerca, sentimento e conoscenza.
Siamo contrari alla figura di Dirigente che ritorna Preside e che dai tempi del fascismo fino all’autonomia era né più né meno che il terminale burocratico dell’amministrazione. Ma il DDL di cui parliamo va proprio verso questa direzione, quando esso si sposa con il recente varo della valutazione del Dirigente scolastico non più affidata, come prevedeva la legge istitutiva della medesima dirigenza, a un organo collegiale e terzo, ma (sulla base di una recente legge promossa del Ministro in carica), a un organo monocratico quale è il Direttore regionale.
Ma, tertium non datur: o il Dirigente è a capo di una comunità autonoma che è formazione sociale, costituzionale e come tale libera nelle sue determinazioni pedagogico-didattiche, rispondendo solo sul piano amministrativo circa il corretto impiego delle risorse pubbliche, oppure è un birillo di una filiera gerarchica, che dal Ministro si dipana ai Capi dipartimenti, ai Direttori generali regionali, ai Presidi. Una linea di comando che così configurata riteniamo incostituzionale.
Per finire sui dirigenti, diciamo chiaramente: il collegiale ha supremazia sul monocratico e i poteri del dirigente possono avere esclusività sull’amministrativo poiché su tutto il resto è la collegialità, di cui peraltro esso è parte integrante e decidente, ad esprimere sovranità e funzionalità.
Gli studenti
Anche la componente studentesca, a nostro parere, deve ritrovare il suo protagonismo negli Organi Collegiali, rivedendo il suo modo di partecipazione e di confronto.
Noi sappiamo che gli studenti hanno ben chiaro che la loro partecipazione non vuole interferire con la professionalità del docente e che il loro protagonismo si vuole esprimere sul contesto ma non sul testo della programmazione e dei contenuti scientifici dell’istruzione. Ma proprio per questo occorre portare fino in fondo la separazione fra quelli che sono gli organi professionali (il collegio e le sue articolazioni) da quelli che sono gli organi di partecipazione, costruendo sedi dedicate allo studente a tutti i livelli (di classe, di sezione, di istituto, di plesso) con poteri di proposta obbligatoria e di interlocuzione dialogante nel corso dell’anno.
I genitori
Analogo discorso riguarda i genitori. Certo, dobbiamo prendere atto che una nuova genitorialità si è affermata rispetto a quella del tempo in cui si sono costituiti gli Organi Collegiali. La società è completamente cambiata, la famiglia non è quella di 50 anni fa, la prole oggi in larghissima misura si declina al singolare o al massimo a due figli, l’investimento affettivo è ben diverso, le fragilità e le resilienze psicologiche sono tutte da decifrare. Ma proprio per questo dovremmo auspicare una genitorialità proiettata verso la cura del contesto, delle occasioni di crescita, della qualità dell’istruzione che solo la scuola può assicurare perché solo la scuola trasmette ed elabora un sapere non locale ma universale. Noi auspicheremmo una genitorialità che, fuori anch’essa dagli organi professionali, abbia un suo spazio dedicato e sia nelle condizioni di discutere al proprio interno, in connessione con i docenti, del bene collettivo della comunità scolastica e non del singolo figlio per il quale debbono essere sufficienti i colloqui individuali.
E, a questo proposito, a quando un ripensamento sul registro elettronico? Uno strumento che nelle fasce di età più alte degli studenti viene vissuto come controllo e come ostacolo alla costruzione del sé, come impedimento verso il cammino per la conquista dell’autonomia. E presso la docenza viene vissuto come adempimento burocratico, come uno iato nella relazione didattico-educativa. Discutiamone perché molte sono le criticità ad esso connesse.
Il Consiglio di Istituto e il rapporto con il territorio
Se sono fondate le proposte che abbiamo avanzato facendo centro sui protagonisti degli Organi Collegiali, pensiamo che il Consiglio di Istituto più che di revisione della sua composizione abbia bisogno di una potenziata facoltà di rapporto con il territorio scegliendo liberamente chi chiamare, di anno in anno e temporaneamente, fra gli interlocutori istituzionali o sociali a far parte dell’organismo, in relazione a ciò che costituisce l’aspetto caratterizzante la scuola e di cui è sostanziato il piano di formazione. In altri termini escludiamo che per legge vengano imposti elementi esterni – anche se istituzionali – e che non vengano scelti autonomamente e liberamente dalle scuole medesime. È il solo modo sano che si possa immaginare per rafforzare il rapporto con il territorio.
Gli organi territoriali dell’istruzione
Dobbiamo sollevare anche un altro capitale problema. La scuola è l’unica istituzione dello Stato a non avere una sua specifica autonoma rappresentanza territoriale. Il Dlgs. 233 del 1999 prevedeva l’istituzione di un organo collegiale centrale chiamato CSPI, di un organo di livello regionale chiamato Consiglio regionale dell’istruzione, di un organo locale chiamato Consiglio scolastico locale in sostituzione dei distretti e dei Consigli provinciali.
Di questi organi territoriali solo uno è stato istituito, come si sa, dopo le elezioni del 2015[1], il CSPI, e solo grazie a una battaglia legale intrapresa solitariamente dalla FLC CGIL, durata due anni, e alfine vinta. Perché il suo omologo chiamato CNPI era stato soppresso con un tratto di penna e mai più sostituito dal previsto CSPI.
E sul CSPI, alla luce dell’esperienza, si possono e si debbono fare molte osservazioni e proposte. Ma su questo lasciamo volentieri la parola a chi dopo di noi interverrà proprio come testimone dei lavori di questo organismo.
Gli altri due organismi, il regionale e il locale, si sarebbero dovuti eleggere, il regionale con elezione di secondo livello dai consigli locali e i consigli locali composti dai rappresentanti eletti dal personale delle scuole statali.
Naturalmente a livello sia locale che regionale si prevedeva la rappresentanza di tutte le componenti e delle forze sociali territoriali come anche delle forze istituzionali, cioè degli Enti locali. E, in questo quadro, a livello regionale, il Consiglio avrebbe potuto esprimere, citiamo, dal Dlgs. 299 «all’organo competente, parere obbligatorio sui provvedimenti relativi al personale docente per i quali la disciplina sullo stato giuridico preveda il parere di un organo collegiale a tutela della libertà di insegnamento».
Dunque, noi chiediamo che vengano istituti questi organismi. Per due ragioni.
La prima attiene alla tutela dell’istituzione scuola. Non è possibile che tutte le decisioni che si prendono sulla scuola a tutti i livelli non passino al vaglio, sia pur per un parere obbligatorio e non vincolante, dei diretti interessati, cioè dei docenti, dei dirigenti, dei genitori, degli studenti, delle forze sociali e degli enti locali.
La scuola non ha difese, la scuola è sola: è un vaso di coccio soggetto allo scontro con i vasi di ferro che la disarticolano e la riducono a frammento senza che essa possa dire la sua con i soggetti che la compongono.
La seconda ragione attiene alla tutela del personale.
Ci siamo chiesti come mai può avvenire in questo nostro paese che una professoressa di Palermo che fa una ricerca sui migranti venga punita con la sospensione dal servizio per 15 giorni poi revocata, ma con la sospensione dello stipendio, mai revocata. Analogamente. Ci siamo chiesti come mai un docente di scuola secondaria è stato sospeso per tre mesi dall’insegnamento e senza stipendio perché, da competitore in una lizza politico-parlamentare di livello europeo, ha espresso da politico, in un comizio pubblico, parole sarcastiche nei confronti di un altro politico, per caso ricoprente il ruolo di Ministro?
La risposta è semplice. Perché non vi è stata l’attivazione dell’organo collegiale che prima esisteva, e oggi non più, che vagliasse se quelle sanzioni ledessero la libertà di insegnamento. E palesemente quelle sanzioni hanno leso la libertà di insegnamento.
E allora, in questi tempi calamitosi, in cui in tutti i campi del vivere associato si restringono gli spazi della protesta, della contestazione, dell’espressione del libero pensiero, e in cui anche la libertà di insegnamento è sotto attacco, questa della istituzione dell’organo collegiale di tutela nell’ambito degli organi collegiali regionali va combattuta fino in fondo. Come battaglia di libertà.
E sappiano tutti, che finché questo passo non sarà fatto, mai la FLC CGIL aderirà a una revisione delle sanzioni disciplinari a carico dei docenti che debbono essere, per fortuna, riviste per contratto.
La partecipazione dei subalterni è la speranza
Quelle che abbiamo sopra delineato sono le proposte che noi offriamo alla discussione per affrontare con metodo democratico, con confronto di lunga lena, nel paese, nelle istituzioni e soprattutto nelle scuole, in tempi distesi, che per noi devono essere di un anno o due, la riforma degli Organi Collegiali scolastici.
Ogni percorso legislativo che pensi di strozzare i tempi e di procedere per delega troverà la nostra ferma opposizione in tutte le sedi e in tutte le forme.
Gli Organi Collegiali sono un ganglio del nostro stato democratico, che opera su un terreno delicato, di rango costituzionale, quale è quello della scuola.
È solo la scuola che fornisce i saperi generali, universali, che fanno di ciascuno di noi, cultori dei principi della nostra Costituzione, indipendentemente da dove siamo nati e dal colore della pelle e di condizione sociale, un cittadino italiano. È cittadino italiano – ci ha detto di recente il presidente Mattarella – chi vive secondo i principi della Costituzione italiana. Ed è la scuola innanzitutto – aggiungiamo noi – a costruire la cittadinanza.
Noi pensiamo con un grande pensatore italiano, Antonio Gramsci, e con un grande combattente per la scuola, Lorenzo Milani, che la scuola ci restituisce alla libertà.
Solo la scuola, lo dicevano con accenti diversi questi grandissimi intellettuali, dà la possibilità ai subalterni di diventare dirigenti o di controllare i dirigenti.
Questa è la posta in gioco, non inferiore per valore ad altre battaglie che pure si devono combattere, dal contrasto all’autonomia differenziata alla riforma cosiddetta del premieriato alla riforma della separazione delle carriere nella giurisdizione.
Con questa medesima consapevolezza dobbiamo affrontare il tema degli Organi Collegiali.
E noi dobbiamo fare, e faremo, la nostra parte.