Dopo la presentazione del piano inclinato, il rapporto FLC CGIL sulle università profit e telematiche e a pochi mesi dalla pubblicazione del nostro monografico sull’emergenza universitaria in Italia, crediamo sia il momento di fare un punto della situazione. Nelle scorse settimane la ministra Bernini ha finalmente presentato a CUN e CNSU lo schema di decreto che si impegna a colmare il divario tra le università tradizionali e quelle telematiche, introducendo standard di qualità che garantiscano una formazione equa per tutti gli studenti. Un decreto che arriva dopo più di vent’anni di navigazione in mare aperto per gli atenei telematici, una deriva che ha creato fratture e ha fortemente impattato sulla legalità e sulla qualità della formazione universitaria. In questa bozza di decreto si parla di regolamentazione delle lezioni online, di esami in presenza e di rapporto studenti-docenti. Molti parlano di un compromesso. Ma è davvero così? Non proprio. Ne parliamo con Luca Scacchi, Responsabile Forum Docenti FLC CGIL.
Al decreto presentato da Bernini è stato attribuito il nome di Bandecchi, direttore di Unicusano. Secondo te, perché?
Il decreto emanato proprio in questi giorni sulle università telematiche è stato espressamente voluto per bloccare gli effetti di un precedente atto della Ministra Messa. Nel 2021, dopo vent’anni di politiche specifiche e speciali per gli atenei telematici, il DM 1154/21 su accreditamento iniziale e periodico delle sedi e dei corsi di studio aveva finalmente previsto parametri nel numero di riferimento degli studenti e quindi nei requisiti di docenza uniformi per tutti i corsi di laurea. Il Ministero, con una precisazione successiva, aveva posto la verifica di quei parametri proprio al novembre 2024. L’entrata a regime di quelle disposizioni avrebbe comportato un cambio di scenario per le università telematiche, di fatto cancellando quei margini di redditività che gli hanno permesso di svilupparsi, sino a diventare oggetto di significativi investimenti internazionali (pensiamo all’acquisizione di Multiversity da parte del fondo CVC, che oggi controlla gli atenei Pegaso, Mercatorum e San Raffaele Roma, per oltre un miliardo e mezzo di euro). Le università telematiche in questi anni hanno raggiunto un rapporto tra studenti e docenti deforme, insostenibile da ogni punto di vista: l’ANVUR, nel suo rapporto 2023, aveva sottolineato come l’esplosione nel numero di iscritti, [abbia] determinato un rilevante aumento del rapporto studenti/docenti, passato da 152,2 del 2012 a 384,8 del 2022 (un indicatore di circa tredici volte superiore rispetto alle università tradizionali). Tredici volte!!! Il cosiddetto decreto Messa li avrebbe costretti ad assumere un numero spropositato di docenti. L’ANVUR lo ha calcolato: ne sarebbero stati necessari almeno 1.700 (oggi ne hanno 1.137 di ruolo, compresi Straordinari e RTD-a, cioè le figure a tempo determinato). Il semplice rispetto dei parametri degli altri atenei pubblici e privati renderebbe i loro conti insostenibili, portandoli a cambiare politiche e comportamenti. Per questo le università telematiche hanno fatto di tutto, in questi anni, per bloccare quel Decreto: sono ricorsi al TAR, al Consiglio di Stato, alla Presidenza della Repubblica! Il risultato, alla fine, lo hanno ottenuto per via politica: hanno trovato una ministra di Forza Italia (lo stesso partito che, nel 2003, esprimeva la Ministra che li ha istituiti, e non credo sia un caso) e la Bernini ha riattivato un gruppo di lavoro ed ha fortissimamente voluto questo decreto. Di fatto, nessuno ha più puntato a rispettare il DDL 1152 da quando è in carica. Non solo contro le denunce e le iniziative della CGIL, ma persino contro i pareri di larga parte dei Rettori. Bandecchi, allora, ha conquistato uno spazio oggettivo, nel gruppo di lavoro come nella dinamica politica: cioè, il patron di uno dei grandi atenei telematici, che è anche sindaco di Terni, proprio nelle settimane in cui si chiudeva il nuovo Decreto ha schierato con decisione la propria forza politica a sostegno della destra nelle recenti elezioni umbre. È il Decreto Bandecchi, allora, perché è un decreto politico e perché è un decreto che regala agli atenei profit e telematici lo spazio di una sopravvivenza e uno sviluppo. Al costo, però, di dequalificare strutturalmente una parte dell’università italiana.
Come hai sottolineato, il decreto Bernini prevede che il numero di studenti per corso online sia il doppio rispetto ai corsi in presenza e quindi il fabbisogno di docenti molto più basso rispetto a quello previsto per le altre università, pubbliche e private. Questo ha delle conseguenze sulla qualità dell'insegnamento e sulla relazione tra docenti e studenti? Cui prodest?
Si, è ovvio e al contempo è importante esplicitarlo. L’alto rapporto tra studenti e docenti di questi atenei ha un effetto diretto e significativo sulla qualità della formazione e della stessa esperienza universitaria. Certo, la didattica online ha caratteristiche diverse rispetto alla presenza: cambia la struttura del corso, cambiano ritmo e scansione degli argomenti, cambia la possibilità da parte degli studenti di riascoltare le lezioni. Soprattutto, questa didattica deve esser integrata da spazi interattivi costanti durante gli insegnamenti (la normativa italiana lo impone, con un rapporto di 1 CFU ogni 6, prevedendo esercitazioni, prove di autovalutazione, discussioni di gruppo, ecc.), seguiti da tutor appositi. C’è chi sostiene che la maggior numerosità delle aule telematiche sarebbe giustificata proprio da queste diverse modalità didattiche e dalla presenza dei tutor. Per me, è proprio il contrario. La didattica online è limitata nell’esperienza sensoriale e negli apprendimenti (come abbiamo tutti sperimentato nel corso della pandemia) ed allora sarebbe necessario valorizzare tutti i momenti di scambio e relazione diretta: nelle lezioni in streaming (in cui il docente interagisce in diretta con gli studenti), negli esami (dando la possibilità di confronti e colloqui, ben oltre la standardizzazione delle risposte chiuse) e anche attraverso la realizzazione di relazioni o “tesine”. Un’università a distanza, cioè, dovrebbe ricalcare con maggior forza i modelli delle piccole aule (20/40 studenti), degli apprendimenti operativi, della scrittura di saggi e relazioni, che caratterizzano alcuni atenei (come in USA o nei Paesi Bassi). Invece, in aule che per i corsi umanistici possono arrivare anche a 500 partecipanti, la relazione semplicemente scompare (in aula e nell’esame). Lo stesso carico di decine e decine di tesi di laurea per ogni docente, anche nei corsi magistrali, rende questo momento del percorso universitario un passaggio superficiale e standardizzato. Cui prodest? Ovviamente, ai conti dell’università. Lo richiamavo prima, ma è importante sottolinearlo. In quest’ultimo decennio, proprio con le università telematiche, abbiamo assistito ad un passaggio epocale nel sistema universitario italiano: la nascita di atenei profit. La presenza di atenei privati è radicata nella stessa storia dell’università ed è sempre stata interna anche al moderno sistema universitario nazionale. Questi atenei, però, avevano e hanno mission culturali e professionali (pensiamo, per dire, alla Bocconi o alla Cattolica): pur con l’ovvia attenzione che ogni soggetto privato ha nel curare i suoi bilanci, la loro struttura e la loro organizzazione didattica non è fondata sull’obbiettivo di produrre utili (se non, probabilmente, per alcuni corsi specifici, a livello di master di secondo livello, in cui questa dimensione conquista uno spazio rilevante). Nel 2019, però, il Consiglio di Stato ha pubblicato un parere, richiesto da Multiversity, che consente alle università di trasformarsi in società di capitali. Alcuni lo hanno fatto. Altri, come E-Campus e Unicusano, rimangono Fondazioni, ma in qualche modo hanno assunto lo stesso modello di business. Se l’obbiettivo è fare utili, cambia la logica con cui si costruiscono e si organizzano i corsi: il problema diventa fare più iscritti e più entrate, sostenendo i minori costi possibili. Punto.
Il decreto interviene sui rapporti tra lezioni online e in presenza e sugli esami. In che modo?
Qui, in realtà io penso che ci sia il cuore di quel decreto. Perché qui vi è il cuore della strategia di business dei principali atenei telematici. Il punto non è la didattica online, il punto sono gli esami, l’accompagnamento agli esami che questi atenei propongono. In questi anni, il boom di iscritti si è costruito su un sistema di Learning Point e Centri di orientamento, diffusi nei territori (800 solo per Multiversity, ma altri atenei hanno seguito il modello) e in franchising (gestiti da scuole private, agenzie e società indipendenti). Questi centri raccolgono le iscrizioni e offrono supporto nello studio, ma organizzano anche esami di prossimità (negli ultimi anni continuando a fare esami online anche quando evidentemente vietati dalla normativa, senza che il Ministero o il CUN intervenissero, nonostante avessimo formalmente segnalato la cosa). Questi esami, violando espressamente la normativa, non sono solo costruiti su dispense, ma sono obbligatoriamente a scelta multipla, con un set di domande limitato (30/32 quesiti), sorteggiati ad ogni appello da un paniere di qualche centinaio di domande, consegnate dal docente all’Ateneo all’inizio dell’anno accademico. Però, nei Learning point, nei centri di Orientamento, nelle loro chat e community questi “panieri” di domande circolano. Gli esami universitari diventano così organizzati come quelli della Patente: in ogni social si trovano tutorial di studenti delle telematiche che spiegano l’inutilità di seguire realmente le lezioni o studiare “le dispense”, per passare gli esami basta studiare sui set di domande e risposte che circolano, appunto come si fa per l’esame della Patente. Questo è il cuore, oggi, delle università telematiche. Nei comunicati stampa del Ministero, come in diversi media, si trasmette l’idea che il nuovo Decreto porti finalmente ordine e norme in tutto questo. Teniamo presente che le norme sugli esami in presenza, sulla libertà di docenza e quindi sulle forme di esame c’erano già, molto chiare e nette (infatti, sono quelle seguite nelle università pubbliche e private). Questo decreto, invece, per la prima volta prevede eccezioni, che potranno esser allargate anche in base alle “tecnologie disponibili” (non solo in relazione a gravi malattie o casi eccezionali), e soprattutto costruisce un format di esame con valutazioni e prove intermedie (necessariamente online), che fa rientrare dalla finestra quello che apparentemente si caccia dalla porta.
Le università telematiche hanno avuto nell'ultimo periodo un aumento di iscritti. Indubbiamente seguire corsi e lezioni online ha molti vantaggi e per quanto costi iscriversi a queste università, il risparmio dei trasporti e, per i fuori sede, dell'alloggio e del vitto non è banale. Perché le università statali non riescono a essere altrettanto attrattive con misure adeguate a favorire il diritto allo studio?
Le università telematiche dal 2016 ad oggi hanno conquistato oltre 180mila iscritti in più. In pratica hanno canalizzato quasi il 70% del recupero di immatricolazioni che il sistema universitario ha avuto dal 2015 ad oggi, dopo gli anni della grande contrazione (quando i tagli di Tremonti e Gelmini, dopo il 2010, fecero crollare gli studenti a 1,65 milioni, riducendo il personale docente e TAB di oltre il 20%). Il flusso è stato duplice. Il primo, maggiore, è quello di persone che già lavorano e che cercano di chiudere il proprio percorso di studi, o di aprirne un altro, per ottenere una riqualificazione o un avanzamento sul lavoro. Ad essere attrattiva per questo gruppo, certo, è la didattica a distanza, ma anche il modello di business e di esami che prima richiamavo. Una seconda componente è quella di giovani immatricolati, meno significativa ma presente: qui sì, sono giovani che trovano nell’università una barriera di classe e di costi. Abbiamo visto in questi anni, denunciato dalle associazioni studentesche, il peso degli affitti e dei costi di frequenza. L’università italiana è la più cara d’Europa, perché è quella con le tasse più alte per iscriversi e la minor copertura di servizi (posti letto, borse, mense, trasporti gratuiti). Non solo. La grande contrazione di Gelmini e Tremonti ha portato le università pubbliche addirittura a ridurre i servizi in questi ultimi quindici anni, come i corsi serali per i lavoratori e le lavoratrici. Il punto non è l’attrattività di questi atenei, il punto è che si sono create politiche di competizione e di quasi mercato che sono in realtà respingenti: le logiche di distribuzione delle risorse del Fondo di Finanziamento Ordinario del Dlgs 49/2012 (un decreto attuativo della Legge 240 del 2010, la cosiddetta Gelmini) ha per esempio stabilito che per ricevere fondi dal Ministero contano solo “gli studenti in regola”, mentre i fuoricorso rientrano tra i parametri penalizzanti. Questo ha innescato politiche attive per ridurre i fuoricorso (per esempio, l’innalzamento repentino delle tasse), e quindi ridurre l’offerta ai lavoratori e alle lavoratrici (notoriamente più lenti nei percorsi di studio). Il punto, allora, è ribaltare la logica con cui si è guidato il sistema nazionale in questi anni, non creare un circuito dequalificato per chi non si può permettere o non ha tempo di frequentare l’università. Anche perché, con il tempo, questo secondo livello porterà inevitabilmente a degradare l’insieme del sistema universitario italiano.
Le reazioni al decreto Bernini sono state molto negative nel mondo accademico. Eppure il CUN alla fine ha dato parere favorevole. Con qualche critica, quale? E perché, a tuo parere, hanno comunque dato un parere favorevole?
Il CUN sulle telematiche ha fatto un errore. Grave, forse esiziale. Se si legge il loro parere, tutti i punti problematici e di fragilità sono individuati e, in qualche modo, criticati (il format di riferimento per le valutazioni intermedie, la possibilità di ulteriori eccezioni sulla base delle tecnologie disponibili, ecc.). Ad esclusione, direi, di quello relativo al raddoppio dei parametri, che viene semplicemente accettato (non è un punto secondario). In ogni caso, le argomentazioni avrebbero potuto comunque giustificare un parere complessivamente negativo. Il CUN ha invece politicamente scelto di dare un parere positivo, nonostante il resto della comunità accademica abbia continuato (e continui) ad avversare quel provvedimento (basta leggere le dichiarazioni di diversi Rettori al riguardo). Una scelta grave, ripeto, perché rompe una resistenza che si era sviluppata in questi mesi, arrivando a determinare un sostanziale isolamento del Ministero che avrebbe potuto portare ad un esito storicamente diverso. Le interpretazioni sulle ragioni di questa scelta, ovviamente, possono essere diverse. La mia impressione è che il CUN, di fronte ad una norma che lo congela sino alla prossima estate e ne annuncia la revisione, di fronte a nuove sostanziali revisioni della normativa (abilitazioni nazionali e concorsi, distribuzione delle risorse e governance degli atenei), abbia voluto mostrarsi compiacente, abbia cioè voluto non esser contrastivo rispetto al Ministero su una questione che dal suo punto di vista riteneva meno importante (o, forse, senza speranza). Da un punto di vista diverso, è lo stesso comportamento della CRUI (la Conferenza dei Rettori), che di fronte al contrasto con il Ministero sulle risorse e sulle telematiche, ha deciso di accompagnare la politica di precarizzazione del pre-ruolo proposta dalla Ministra (addirittura radicalizzandola nella sua audizione al Parlamento). Sono entrambe posizioni gravi, perché spezzano la comunità universitaria svendendone alcuni settori (l’uniformità di sistema gli uni, i giovani ricercatori e ricercatrici gli altri), sperando di ottenere un risultato su questioni di loro maggior interesse. Questa politica di CUN e CRUI rischia di accompagnare il tramonto del sistema universitario italiano. In questi mesi, però, abbiamo visto nascere proprio nelle comunità universitarie delle risposte diverse e alternative: la lettera di 122 presidenti di società scientifiche, le assemblee e le iniziative del precariato, gli scioperi del personale tecnico amministrativo, le dichiarazioni sulle università telematiche, i documenti e le mozioni di Dipartimenti e Senati accademici che si stanno moltiplicando in queste settimane. Forse, a fine mese riusciremo ad avere in campo non solo gli Stati generali della CRUI (un appuntamento di Palazzo, in cui Rettori, Ministri e presidenti di varie istituzioni parlano di università senza mai citare i tagli, la precarizzazione e le telematiche), ma anche un appuntamento nazionale di convergenza, in cui queste altre e diverse voci potranno esprimersi e, speriamo, iniziare a muovere i primi passi di un nuovo movimento di trasformazione delle università.
Nella prossima legge di bilancio si prefigurano tagli al sistema universitario pubblico per circa 500 milioni. Questo, in combinato disposto con i carichi impropri sul FFO, con la cosiddetta riforma del preruolo e con la fine dei "benefici" del PNRR, renderà le università statali, a parte qualche eccezione, impossibilitate a migliorare la qualità dell'offerta formativa e della ricerca. La competizione tra pubblico e privato è quindi truccata?
Sì, è esattamente così. Lo sviluppo delle università telematiche costruisce per la prima volta un vero e proprio circuito di università profit, che vanno oltre i modelli neoliberisti di simulazione delle condizioni di mercato nella distribuzione delle risorse (il modello Moratti e Gelmini, che si costruisce sull’autonomia universitaria strutturata nel decennio precedente). Qui si creano proprio circuiti paralleli e si trucca la corsa, dando ai privati non solo parametri diversi, ma anche la garanzia di un sistema di controllo e sorveglianza inefficace. Lo abbiamo visto in questi anni: ogni università interpreta a suo modo norme e indicazioni, il Ministero quando si fa sentire (ed è raro), nella migliore delle ipotesi balbetta indicazioni scollegate dalla realtà. Questa logica non rimarrà isolata alle telematiche. Nella proprietà e nei comportamenti, è già stata fatta propria dall’Università degli studi Link (già Link University), un ateneo in presenza che adotta la didattica streaming e gli esami di prossimità (come si legge sul suo sito: «Tutti gli insegnamenti sono erogati sia in presenza, nel pieno rispetto delle normative vigenti, sia nella propria città di residenza, in modo facile e accessibile mediante le nostre nuove infrastrutture tecnologiche e telematiche»). Con questo decreto, con un nuovo inverno di tagli e politiche competitive (annunciate dal FFO 2024, ma confermati e rilanciati dalla Legge di bilancio 2025), queste dinamiche non potranno che aggravarsi e diffondersi. Per questo, come FLC CGIL, dall’ottobre 2023, sosteniamo che siamo nel pieno di Una nuova emergenza universitaria, in cui c’è la necessità di una nuova stagione di riattivazione e mobilitazione dell’intera comunità universitaria. Per difendere il sistema universitario nazionale e il suo profilo pubblico.