Quando abbiamo deciso di costruire il numero di novembre attorno alla ricorrenza della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, pur consapevoli che il numero limitato di contributi e articoli non ci avrebbe messo in condizioni di affrontare il tema della violenza di genere in tutte le sue molteplici espressioni, abbiamo voluto dare spazio alla riflessione sull’intreccio tra la dimensione del genere e quella della città. Si tratta, infatti, di un argomento sempre più presente nel dibattito pubblico e quotidiano e in quello dell’accademia, dell’attivismo transfemminista e queer e anche di alcuni enti o amministrazioni locali, e che muove dall’idea che lo spazio urbano eserciti una violenza di genere sistemica e strutturale. Per approfondire il legame tra il genere e la città, intervistiamo Federica Castelli, ricercatrice in Filosofia Politica presso l’Università Roma Tre e autrice del libro Bruci la città. Generi, transfemminismi e spazio urbano (Edifir Edizioni Firenze, 2023) insieme a Giada Bonu Rosenkranz e Serena Olcuire.
Nel primo capitolo del libro vi soffermate su come nel tempo il concetto di spazio pubblico sia stato contraddistinto da diverse sovradeterminazioni, a partire dall’idea di spazio pubblico come spazio fisico e reale e lo spazio pubblico inteso, invece, come metafora di una sfera politica separata e che prescinde da territori e contesti specifici. Cosa rende “pubblico” lo spazio pubblico nelle società neoliberali e che cosa è lo spazio pubblico transfemminista?
Abbiamo scelto di giocare con tale scivolamento, così come con quello tra sfera e spazio, per rivelarne gli impliciti effetti politici e per mostrare che lo spazio pubblico va analizzato esattamente a partire da questa sovrapposizione: spazio fisico e politico, urbano e simbolico, bucato e attraversato ma che al contempo si definisce nel pensiero occidentale secondo logiche neutralizzanti, omologanti, spesso identitarie. In quest’ottica diventa dirimente mostrare come lo spazio pubblico venga negato ad alcune soggettività “non previste”. Il Soggetto di questo spazio è lo stesso del pensiero occidentale e patriarcale: si pretende neutro e universale, ma di fatto è maschio, adulto, borghese, bianco, abile e ha precise connotazioni culturali e materiali. Uno spazio pubblico costruito su questa idea di soggetto sarà difficilmente accessibile per alcuni soggetti: alcuni ne saranno considerati gli ospiti (ad esempio le donne cis e etero), per altri sarà inaccessibile (per via del suo impianto implicitamente abilista) o addirittura negato (all’intreccio tra dinamiche di razzializzazione, vittimizzazione, invisibilizzazione, marginalizzazione). Ma lo spazio pubblico è anche il luogo in cui corpi si incontrano, le relazioni e le alleanze si creano; è luogo di invenzione, risignificazione, riappropriazione e protesta; di dislocazione e contestazione del già dato. Non è dunque solo luogo di potere, ma anche spazio di alleanze e creazione politica.
Lo spazio pubblico neoliberale è violento nelle sue espulsioni. È uno spazio privato di uso pubblico, a cui si accede tramite consumo o come utenti. È uno spazio in cui la dimensione collettiva viene a mancare, e trova surrogati individualizzanti. Per molti soggetti è lo spazio della paura: puoi attraversarlo velocemente, solo in alcuni orari, stando attenta a chi incontri. È uno spazio non vissuto, semmai usato. È lo spazio della iper-performatività, del piacere ridotto a consumo. Lo spazio pubblico transfemminsta è invece appassionato, poichè attraversato da molteplici passioni, desideri; da numerosi conflitti, visioni, tendenze. Non pretende di essere omogeneo, ma anzi si mostra smagliato. Non è uno spazio armonioso, né irenico, ma nemmeno uno spazio che procede per espulsioni. Non chiude, non si pensa nell’opposizione pubblico/privato, ma semmai tiene assieme il personale e il politico.
Se assumiamo che lo spazio non è neutro e che la città (e la sua progettazione) è luogo di patriarcato, quali conseguenze producono le città neoliberali in particolare sui soggetti femminili o femminilizzati?
Una città costruita dallo sguardo patriarcale non prevede altro che un soggetto neutro (ossia maschile), abile e consumatore ed è uno spazio di attraversamenti e poche soste. È uno spazio in cui la monumentalità racconta di guerre, conquiste, personaggi di potere, rimuovendo gli “altri”: chi il potere non ce l’ha, chi la guerra l’ha persa, chi è stato colonizzato, chi è fuori dallo spazio pubblico. È uno spazio organizzato per tempi ed esigenze che non prevedono altro che lavoro produttivo e il consumo e il solo lavoro riproduttivo è cancellato nel privato; è una città dove non c’è posto per la cura (come pratica ma anche come presa in carico di una serie di impegni e obblighi che ci costringono a spostarci continuamente nello spazio della città) né per lo stare insieme collettivamente, per desiderio o per gioco. È una città che confonde il divertimento con le vetrine e la socialità con lo street food. È lo spazio iper-efficiente che cancella le differenze, i bisogni, espelle i soggetti non desiderabili. È spazio turistificato, gentrificato, in cui la stratificazione di un territorio si appiattisce in un oggi sempre uguale. È lo spazio che chiude: privatizza, innalza muri-cancelli-steccati, crea nuove enclosures e nuovi scarti. È uno spazio pubblico di comunità segregate e segreganti. Di povertà espulsa, perché indecorosa, così come il lavoro sessuale e i corpi non conformi alle regole di genere. È lo spazio sconnesso, scomodo, dove andare a piedi corrisponde a un gesto ozioso, di privilegio. Ma è anche spazio di sussunzione, green-pink-rainbow washing, in cui le identità e le istanze fanno consumo più che alleanze. In uno spazio così si è donne in un solo modo: adattandosi a una visione monolitica che guarda ai soggetti femminili come alle uniche assegnate al carico di cura, al privato, e ci destina alla paura e al pericolo come uniche emozioni urbane. Nella città siamo oggetti del discorso, in quanto madri o potenziali vittime di violenza. Siamo abituate a muoverci tra i marciapiedi senza rampe, i muri che separano e che nascondo allo sguardo, i sanpietrini che ci fanno muovere con disagio; allo stesso modo da bambine ci era concesso esplorare lo spazio pubblico a patto di non rovinare i vestiti, farci male, metterci in pericolo. Le donne cis e etero introiettano una recinzione che fa dello spazio pubblico uno spazio di disagio, scomodità. Siamo ospiti. Non abbiamo intimità con la nostra città. Apprendiamo che il privato è spazio sicuro (nonostante i dati dei femminicidi degli ultimi 10 anni) mentre la strada è pericolosa; ci insegnano che lo spazio pubblico è alla nostra portata solo a determinate condizioni (e in alcuni orari). Se fuoriusciamo da questi limiti siamo in pericolo, siamo indecorose, ce la siamo cercata. Contemporaneamente gli spazi autogestiti ci vengono sottratti, le proteste punite, i cortei delimitati. Le donne trans vengono emarginate, malmenate, uccise. Le soggettività disabili sono invisibili, non contemplate. I consultori autogestiti chiusi o resi precari. L’espulsione si fa doppia: stai in casa o al margine. Il centro è dell’individuo proprietario: se hai una casa, ed è tua puoi scegliere se rimanere o metterla a profitto con gli affitti brevi di airbnb. Il margine si popola di quello che resta, che non è previsto, che è indecoroso, che fa degrado.
Ci fai alcuni esempi di evidenze di una progettazione urbana che discrimina e marginalizza donne e soggetti femminilizzati? Qual è il potere trasformativo dell’urbanistica femminista e quali gli eventuali limiti?
Aldilà di quanto già anticipato su un piano generale, probabilmente la risposta più efficace a questa domanda la darebbe proprio Serena Olcuire che anche nel testo si è concentrata sull’urbanistica neoliberale e le urbanistiche femministe con un paragrafo specifico. Serena elenca alcuni fattori che nell’urbanistica contemporanea contribuiscono a marginalizzare e rendere difficoltosa l’esperienza dello spazio urbano per le donne e i soggetti imprevisti dall’eterocispatriarcato: questi vanno dalla carenza di aree pedonali, di marciapiedi e pavimentazioni a prova di carrozzine, alla scarsità di un arredo urbano non orientato a un uso produttivo o di consumo; la cementificazione, il consumo di suolo, la quasi assenza di vegetazione urbana, il sistema della mobilità urbana che rende difficoltosa la vita quotidiana senza un mezzo proprio. Come esempi di urbanistica femminista, Serena racconta del caso di Vienna, spesso citato, e le superillas di Barcellona. Quello che dobbiamo considerare però è che ovviamente, come sottolinea Serena, questo approccio non è liberatorio di per sé, ma anzi rischia di produrre effetti contraddittori, essenzializzanti, perpetuando stereotipi e aspettative di genere o rendere la questione strumentale all’allontanamento dei soggetti considerati indesiderabili.
Ad ogni modo, uno dei motivi che ci ha spinte a scrivere questo libro è stato il desiderio di non limitarci alle sole esperienze esistenti ma piuttosto rendere complessa la questione, rendendo stratificata la stessa idea di urbanistica femminista, allargandola alla questione abitativa, del patrimonio pubblico, agli spazi femministi autogestiti, ai beni comuni transfemministi, etc. Il nostro desiderio era quello di non limitarci al resoconto delle esperienze esistenti ma creare il terreno per “moltiplicare le scintille” e aprire il campo a nuove pratiche e invenzioni.
Abbiamo parlato di esclusione e marginalizzazione, ma anche il margine può essere risignificato. Citando bell hooks, parlate di un margine che da destino diviene luogo strategico di resistenza e lotta condivisa. Una fucina di immaginazione e creazione di una città altra, di una città del desiderio. Quali sono le pratiche urbane e femministe dai margini?
Le pratiche femministe dal margine sono quelle che agiscono una schivata nei confronti del piano del potere: uno schivare che è però al tempo stesso sottrazione e bracconaggio. A partire dalle periferie, dal margine, è possibile agire uno sguardo che riarticola le gerarchie dello spazio pubblico, le sovverte nelle pratiche ripartendo da quotidianità, vissuti, relazioni, contingenza, non individuando il piano dell’istituzione come sola interlocuzione. Pratiche di cura dal basso, orientate all’autodeterminazione delle singole soggettività più che al potere, alla creazione di altri modi di vivere. Relazioni, pratiche ma anche creazione di veri e propri spazi di alleanza transfemminista: librerie, biblioteche, luoghi di elaborazione politica, archivi. Spazi pubblici appassionati, risignificati dai movimenti e dalle alleanze, contro-istituzioni che sedimentano altri modi di stare al mondo, lontani dalla postura patriarcale, capitalista, estrattivista.
Se le pratiche dal margine portano con sé una tensione verso un’idea di politica altra rispetto al potere, come è possibile farsi istituzione fuori dalle linee della sovranità tradizionale?
Le pratiche dal margine di cui raccontiamo nel testo non aggirano ma piuttosto scombinano la pretesa di assolutezza e la cristallizzazione insita in ogni gesto istituente. Ogni gesto radicale deve fare infatti i conti con la pretesa totalizzante che ha sull’esistente, e che gli permette di durare nel tempo ed essere considerato “efficace”. Questa pretesa però agisce violentemente sul reale. Ma se sganciamo la pratica istituente da questa istanza di sovranità, ad esempio a partire dall’ottica femminista, transfemminista e queer sulle istituzioni del comune, e cerchiamo di muoverci su un piano decentrato rispetto al potere e alla presa del potere, tenendoci piuttosto legate alla materialità (dei contesti, dei vissuti, delle relazioni in un territorio), possiamo immaginare delle istituzioni sempre in divenire, che aprono spazi di desiderio e relazione. Possiamo ripensare il momento istituente come sempre processuale, come una pratica continua e contingente permette di stare fuori dalla contraddizione della fondazione. Si tratta di esperienze che trovano la propria misura all’interno, nella partecipazione e nella relazione tra abitudini, soggetti, territori: non una pretesa di assolutezza ma precipitati di pratiche; non potere ma politica, a partire dalle sue radici corporee, spaziali, desideranti, materiali, immanenti, quotidiane, vissute.
Infine, contravvenendo all’ordine che si è soliti seguire, perché avete scelto come titolo del libro “Bruci la città”? A quale fuoco alludete?
Abbiamo scelto questo titolo perché porta in scena il fuoco dello stare in relazione, tra noi, tra attivist3, rispetto alla città. Lungi dall’evocare il fuoco della distruzione, che fa macerie, questo è il fuoco di un desiderio che ci infiamma, ci appassiona, nelle pratiche politiche e nelle nostre utopie quotidiane. È un fuoco che fa spazio, preparando il terreno, rendendolo fertile all’altrimenti. È il fuoco che nasce dalle scintille che ogni giorno accadono nei nostri spazi e nei nostri vissuti e che si propaga con la forza e l’intensità delle pratiche, delle relazioni, delle emozioni e passioni collettive.