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SUI GENERIS - Questioni di parità

PERCHÉ CONTARE I FEMMINICIDI È UN ATTO POLITICO

Uno ogni tre giorni. È questa la frequenza con cui, in Italia, avviene un femminicidio. Ciononostante, c’è chi pensa che il femminicidio e la violenza di genere siano “una bufala” o un fenomeno sovrastimato e che le femministe non siano interlocutrici credibili. Una forma di negazionismo con cui facciamo i conti, nostro malgrado, a ridosso di ogni 25 novembre, Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, e che è difficile da scardinare. La violenza di genere, infatti, è uno dei fenomeni sociali meno denunciati e misurati e, in Italia (come in tanti altri Paesi), scontiamo l’assenza di una banca dati pubblica, accessibile e aggiornata di frequente sui femminicidi.

Lo ricostruisce Donata Columbro, giornalista specializzata nella divulgazione della cultura statistica e nel femminismo dei dati, con il suo saggio Perché contare i femminicidi è un atto politico (Feltrinelli, settembre 2025) che prende il via proprio dall’assenza di un registro ufficiale, si addentra in ciò che questo implica e ci mostra perché contare i femminicidi è una questione di potere e di resistenza.

Nel ringraziarti per aver accettato il nostro invito, ti confesso che mi ha colpito la scelta di intitolare il primo capitolo “Perché nominare e contare i femminicidi”. E partirei, come d’altronde hai fatto anche tu, proprio da qua: dal perché tutto inizia dalla definizione di femminicidio e dalla relazione che intercorre tra l’atto del nominare e l’atto del contare

Dare un nome a questo fenomeno significa renderlo reale e riconoscibile. Nominare è un atto di potere. Come dice Cristina Rivera Garza nel suo libro sulla sorella uccisa: «La mancanza di linguaggio ci lega, ci soffoca, ci strangola». Se non hai le parole per definire un fenomeno, quel fenomeno resta invisibile, viene percepito come una serie di casi isolati, sfortunati, privati. La parola "femminicidio" invece ci dice immediatamente che non stiamo parlando di un semplice omicidio, ma di un atto di violenza che ha una matrice di genere, che si inserisce in un sistema di oppressione patriarcale. È Diana Russell nel 1976 a usarla per la prima volta in senso politico, per dire: questi omicidi non sono "raptus", non sono "troppo amore", sono l'espressione estrema di una cultura che considera le donne inferiori, possedibili. E qui arriviamo al contare. Se nominare rende visibile, contare rende misurabile. E ciò che è misurabile può essere analizzato, compreso, contrastato. Quando raccogli sistematicamente i dati scopri i pattern: la maggior parte dei femminicidi avviene in casa, per mano di partner o ex partner, spesso dopo denunce rimaste inascoltate. Questi elementi comuni ci dicono che non sono casi isolati ma un fenomeno strutturale, su cui si può e si deve intervenire. Per questo nel libro sostengo che contare i femminicidi è un atto politico: perché decide cosa conta, letteralmente, nella società. E per molto tempo, le vite di queste donne non contavano abbastanza.

Come si sono evoluti nel tempo il dibattito pubblico e la consapevolezza sui femminicidi? Come si parla, oggi, di femminicidio sui media e nell’attivismo e come se ne parla nei tribunali?

È una domanda cruciale, perché ci mostra quanto il lavoro culturale e politico degli ultimi vent'anni abbia prodotto cambiamenti reali, ma anche quanto la strada sia ancora lunga. Sul fronte mediatico, c'è stato un progresso innegabile. Come conferma la ricerca di Marinella Belluati che cito nel libro, oggi i media usano correntemente il termine "femminicidio" e la visibilità dei casi è aumentata. Ci siamo lasciati alle spalle, almeno parzialmente, parole come "raptus" o "delitto passionale". Però restano problemi strutturali: la spettacolarizzazione dell'orrore, l'attenzione ai dettagli macabri, la tendenza a umanizzare l'omicida ("bravo ragazzo", "insospettabile") mentre si scrutina la vita della vittima ("cosa aveva fatto per provocarlo?"). E poi c'è una gerarchia implicita delle vittime degne di attenzione: se la donna uccisa è bianca, giovane, studentessa, il caso viene seguito per settimane. Se è una sex worker, una donna trans, una donna anziana o di origine straniera, spesso finisce in un trafiletto. Nell'attivismo la consapevolezza è molto più avanzata. I movimenti femministi, da Non una di meno alla Casa delle donne di Bologna, dalle reti latinoamericane a quelle europee, hanno una visione sistemica: il femminicidio è visto come la punta dell'iceberg di una cultura patriarcale che include violenza economica, psicologica, molestie, controllo.

Nei tribunali, invece, il gap è enorme. La ricerca di Alessandra Dino sulle sentenze tra il 2010 e il 2016 mostra che i femminicidi con motivazioni sentimentali vengono puniti meno severamente di altri tipi di omicidio. L'ergastolo viene comminato molto meno frequentemente quando l'autore è un partner o ex partner. Come se uccidere la propria compagna fosse, in qualche modo, più "comprensibile" di altri omicidi. Raffaella Scarpa, linguista che ha studiato lo stile dell'abuso, ha analizzato come anche nei tribunali gli uomini si rappresentano come vittime: "È stata lei", "Ho avuto una vita difficile", "Soffro di stress". E spesso questa narrazione viene accolta. Quindi sì, abbiamo fatto passi avanti. Ma tra il modo in cui parliamo di femminicidio nel dibattito pubblico e quanto avviene nelle aule di giustizia c'è ancora un abisso. E questo ha conseguenze concrete: su come vengono valutati i rischi, su quali misure di protezione vengono attivate, su quanto vengono credute le donne quando denunciano.

Dicevamo che in Italia non esiste una banca dati pubblica, accessibile e aggiornata di frequente sui femminicidi. A supplire a questa grave mancanza, ci pensano da anni associazioni e movimenti femministi con il loro lavoro di cura e ricostruzione delle storie dal basso. Perché “contare i femminicidi non è solo statistica, ma un atto politico”? Quali sono i limiti della produzione istituzionale dei dati e quali, invece, le qualità della produzione femminista? 

Questa è davvero la domanda centrale del libro, quella che mi ha spinta a scriverlo. Partiamo dal fatto: in Italia esistono dati istituzionali sulla violenza di genere, ma sono frammentati, difficili da trovare, pubblicati con ritardi enormi e senza una reale volontà di renderli strumenti di decisione politica. Nel 2025, per esempio, la pagina del Ministero dell'Interno con i dati settimanali sugli omicidi volontari ha smesso di essere aggiornata per mesi. Ci è voluta una denuncia pubblica, con la mia newsletter, ripresa dai media, perché uscisse finalmente un report trimestrale. Come se monitorare le donne uccise fosse l'ultima delle priorità. Contare è un atto politico perché decidere "cosa conta", e quindi cosa misurare, come farlo e chi può accedere a queste informazioni, è una forma di potere. I dati non sono mai neutri. Sono il prodotto di scelte: quali categorie usiamo? Quali vite includiamo? Quali storie meritano di essere registrate?

Le associazioni e i movimenti femministi suppliscono alle mancanze istituzionali, con approccio che non è “meno rigoroso”, ma più completo, con uno sguardo intersezionale e che ha scopi diversi da quelli istituzionali: non riduce la violenza a una cifra, la ricolloca in una rete di cause e responsabilità. Contare, in questo senso, è un gesto di contropotere: serve a contrastare il negazionismo, a costringere le istituzioni a rispondere, e a trasformare il dolore in conoscenza pubblica.

           

Cos’è il femminismo dei dati e che difficoltà riscontri nel tuo lavoro di giornalista?

Il femminismo dei dati è un approccio teorico e pratico sviluppato da Catherine D'Ignazio e Lauren Klein nel loro libro Data Feminism (2020), che ho citato ampiamente nel mio lavoro. In sintesi, ci dice che la scienza dei dati e la statistica non sono pratiche neutrali: bisogna sempre chiedersi chi viene beneficiato dall'esistenza di un dataset e chi viene discriminato. Nel caso dei femminicidi, questo approccio è perfetto. Le attiviste che ho incontrato – dalla Casa delle donne di Bologna a Non una di meno, da María Salguero in Messico alle reti latinoamericane – incarnano già questi principi senza necessariamente conoscere il framework teorico. Producono controdati non per sostituirsi alle istituzioni, ma per offrire uno sguardo che le istituzioni non saprebbero dare.

Nel mio lavoro la difficoltà più grande è proprio l’assenza di dati strutturati e interoperabili, non solo sulla violenza di genere, ma in moltissimi ambiti. E questa frammentarietà non è solo un limite tecnico: è una forma di potere. Quando i dati non sono pubblici, la violenza resta confinata nel linguaggio dell’emergenza, mai osservata come fenomeno strutturale.

È comune associare alla scienza dei dati e alla statistica un’idea di rigore e oggettività. Ma sono davvero pratiche neutrali? E, nel caso specifico del lavoro sui dati che hanno a che fare con i femminicidi, ha un ruolo l’emotività?

Questa domanda tocca uno dei nodi centrali del libro e del mio lavoro. No, la scienza dei dati e la statistica non sono pratiche neutrali. Questa è forse la consapevolezza più importante che dobbiamo acquisire. Come scrive Deborah Stone nel suo Counting, tendiamo a considerare i dati come qualcosa che "esiste in natura", già dato da qualcuno, calato dall'alto, che non può essere messo in discussione. Ma i dati sono costrutti sociali, prodotti dell'essere umano, situati in un contesto specifico, frutto di scelte. Nel lavoro sui femminicidi l’emotività è una parte necessaria. E va rivendicata, non nascosta. Il secondo principio del femminismo dei dati di D'Ignazio e Klein dice proprio questo: "Elevare l'emozione e l'incarnazione". I dati riguardano persone, non solo numeri. E fingere di essere distaccati, "oggettivi", è in realtà un modo per perpetuare l'oppressione.

Non per spettacolarizzare, ma per ricordare che dietro ogni riga di un foglio Excel c’è una persona. L’empatia è una forma di rigore: impedisce ai dati di diventare freddi o disumanizzanti.

Con il governo Meloni è stato introdotto nel codice penale il reato di femminicidio. Ho l’impressione che sia l’ennesimo provvedimento con cui si pensa di poter affrontare la violenza di genere inasprendo le pene e trasformando il femminicidio in un fenomeno privato. Sei d’accordo? Se sì, quali sono le occasioni mancate dalle forze politiche? Quanto si potrebbe fare in termini di prevenzione?

È una misura simbolica che non cambia la realtà. Aggiungere un reato non serve se non si investe nella prevenzione, nell’educazione, nei centri antiviolenza. Il rischio è spostare l’attenzione sulla punizione, trasformando questo tipo di violenza estrema in un fatto individuale e privato. Ma almeno porta la parola femminicidio nelle aule di tribunale.

Le vere occasioni mancate sono l’applicazione della legge 53/2022[1], la creazione di banche dati integrate e una politica stabile di sostegno all’autonomia economica delle donne.

Cosa ti piacerebbe che generasse la lettura del tuo libro?

Vorrei che generasse consapevolezza. Non solo sui numeri, quanti femminicidi ci sono, dove, come, ma su cosa significhi contare, misurare, dare un nome a un fenomeno. Vorrei che chi legge capisse che dietro ogni statistica c'è una scelta politica, e che l'assenza di dati è essa stessa una scelta politica.

Quando il Ministero dell'Interno smette di aggiornare i dati per mesi, quando la Commissione parlamentare produce un report straordinario nel 2021 e poi non lo ripete più, quando il reddito di libertà viene finanziato ma con criteri inefficaci – queste non sono sviste tecniche, sono scelte che rivelano le priorità di chi governa.

Mi piacerebbe che il libro aiutasse a superare l’idea che bastino nuove leggi o pene più severe. La violenza maschile contro le donne non si combatte solo punendo, ma studiando, osservando, costruendo conoscenza condivisa. E che incoraggiasse chi legge a usare i dati come strumenti di contropotere, per capire dove falliscono le politiche e dove lo Stato non arriva. Spero anche che aiuti a riconoscere la violenza anche quando non ha ancora un nome: nel linguaggio, nel lavoro, nella distribuzione del tempo e delle risorse.

E, infine, sarebbe bello che la lettura del libro potesse rappresentare una tappa in un percorso femminista, mostrando il valore del lavoro di cura e di contropotere esercitato dal basso, tramite lo strumento della raccolta dati.


[1] La legge, Disposizioni in materia di statistiche in tema di violenza di genere, è composta da un solo articolo: "La presente legge è volta a garantire un flusso informativo adeguato per cadenza e contenuti sulla violenza di genere contro le donne al fine di progettare adeguate politiche di prevenzione e contrasto e di assicurare un effettivo monitoraggio del fenomeno".

 

L'autore

Ilaria Iapadre

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