Attualità

10 aprile 2022

PNRR: dal dire al fare. L'intervista a Gianna Fracassi, vicesegretaria generale della CGIL

Il quadro degli interventi previsti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza in applicazione del Regolamento (UE) 2021/241 si sta sempre più definendo rispetto alle scelte strategiche e all’allocazione delle risorse. Tra le sei missioni del Piano troviamo enunciate al quarto e al quinto posto l’istruzione e la ricerca e l’inclusione e la coesione, alle quali saranno destinati rispettivamente 33 e 27 miliardi circa di euro. Di questi due ambiti di intervento e di quanto sarebbe necessario e auspicabile realizzare con le risorse finanziarie previste ne parliamo con Gianna Fracassi, vicesegretaria generale della CGIL.

L’impianto ideologico alla base del PNRR è di carattere manifestamente neo-liberista. Ci troviamo, però, di fronte a un evento di portata epocale e a una cifra significativa. Sebbene, infatti, l’esigenza di investimenti pubblici sia tale da far apprezzare alcune misure utili evocate, è possibile rintracciare nel Pnrr un orientamento chiaro di trasformazione sociale, che coinvolga il mondo della formazione e della ricerca?

Prima di entrare nel merito delle missioni del PNRR e delle risorse allocate, penso sia utile comprenderne l’origine. Il Next Generation EU, il pacchetto di cui fa parte anche il dispositivo per la ripresa e la resilienza, è uno strumento largo in termini di risorse economiche, con alcuni elementi che vanno in controtendenza quantomeno con l’idea di austerity e di politiche non espansive. Lo dico in premessa perché l’approccio dell’Unione Europea è sicuramente di rottura rispetto al 2008 e al 2011 e alle politiche promosse dopo le crisi economiche e finanziarie di quegli anni in cui si è optato per la riduzione degli spazi di investimento e del perimetro pubblico. Ce lo ricordiamo molto bene perché la scuola, in particolare, ha subito il taglio pesante del 2008 e, in generale, tutti i settori della conoscenza sono stati investiti da politiche di riduzione. E questo è stato frutto di una decisione molto netta anche sul versante delle politiche europee, in cui all’epoca il nostro governo si è dimostrato più realista del re.

Oggi siamo in una fase diversa perché l’Europa decide di sostenere le politiche espansive dei governi nella fase pandemica e lo fa, prima di tutto, individuando alcuni settori di intervento - transizione verde, transizione digitale, inclusione e coesione sociale - e, poi, utilizzando uno strumento innovativo: per la prima volta, come la CGIL e gli altri sindacati chiedevano, si condivide una parte del debito. Le risorse finalizzate a questo, inoltre, sono parzialmente reperite attraverso l’emissione di Coronabond e attraverso imposizione propria. Solo in parte si intravede un progetto di trasformazione sociale, soprattutto nei settori della conoscenza. Per quanto concerne la scuola, non sarebbe potuto essere altrimenti in quanto ci sono delle regole ben precise per l’utilizzo del PNRR: malgrado sia necessario, non si possono finanziare le spese correnti.  Per quanto riguarda la ricerca, invece, l’orientamento degli interventi è molto sbilanciato sulla ricerca applicata piuttosto che sulla ricerca di base. Insomma, ci sono alcune cose sicuramente positive e altre che destano qualche perplessità. Se giudichiamo positivamente la volontà di investire sugli asili nido, di privilegiare questo versante o di fare un’operazione consistente sull’edilizia scolastica, non possiamo dire altrettanto rispetto ad altre scelte sul terreno delle risorse. È sempre utile tenere a mente che il Piano nazionale è costituito da investimenti e riforme ed è proprio su queste ultime che si aprono, a mio avviso, una serie di problematiche. Se lo guardo nel suo complesso, il Piano nazionale è molto frammentato, non ha un indirizzo chiaro su alcuni ambiti e, soprattutto, non sostiene adeguatamente le due transizioni sul versante dello sviluppo e delle politiche industriali.

Forse avremmo dovuto essere più selettivi nelle scelte e non frammentare, invece, in tanti progetti, avremmo dovuto accompagnare questa selezione con un forte investimento sulle filiere e sulla ricerca, perché è indubitabile che almeno due degli obiettivi del PNRR, transizione verde e transizione digitale, abbiano bisogno di un’alta densità di conoscenza. Questo, francamente, lo riscontro poco.

Nel merito delle linee di intervento, quali sono le maggiori criticità che la CGIL ha riscontrato e come intende agire?

Oltre alla frammentarietà, il tema di fondo che noi abbiamo in questo momento è quello a cui ho accennato: definire delle politiche industriali di accompagnamento. Mi riferisco soprattutto alla transizione verde che sarà molto pervasiva e profonda. Pensiamo a cosa vuol dire sul versante energetico la nostra eccessiva dipendenza dalle fonti fossili e cosa sta determinando in questa fase di guerra. Se non si accompagnano le scelte che portano alla decarbonizzazione e al Green Deal europeo e tutto ciò che ha a che fare con la ridefinizione della specializzazione produttiva del paese con un sostegno alle filiere industriali, rischiamo di dipendere dall’estero.  Al contrario, avremmo bisogno, in particolar modo su alcuni settori, oltretutto i più impattati, di sviluppare un nostro modello industriale e quindi di allocare le risorse per accompagnarlo. Questo non è stato fatto non per casualità, ma scientemente e la CGIL ha ragione di crederlo perché, ancor prima del PNRR, sin dai primi momenti di confronto con il governo – che non sono stati moltissimi, a dire la verità - è stata una proposta che ha sempre avanzato. Un secondo tema per noi è l’occupazione giovanile e femminile e, più genericamente, la crescita dell’occupazione. L’obiettivo finale del Piano deve essere una forte leva occupazionale e, anche sotto questo punto di vista, qualche problema lo stiamo riscontrando con i primi atti disposti. Terzo tema: il Mezzogiorno. Pur se formalmente si attribuisce il 40% delle risorse allocate al sud, la percentuale rischia di non avere solidità sul versante delle politiche di sviluppo necessarie in questa porzione geografica del paese.

Infine, come quarto tema, la scelta dello strumento dei bandi. Ci si sta orientando verso una sorta di bandificio con il rischio di lasciare indietro, specialmente per tutti gli investimenti legati al territorio, le amministrazioni locali meno attrezzate. Manca un rafforzamento degli organici delle amministrazioni territoriali per consentire loro di sviluppare tutta la progettazione necessaria.

Le risorse stanziate aprono a prospettive interessanti ma sono sempre sufficienti o è necessario agire di concerto con investimenti nazionali?

Noi partiamo da un gap molto ampio di investimenti pubblici negli ultimi dieci anni. Il nostro paese ha investito meno degli altri e questo gap lo stiamo vedendo tutto in termini di competitività del paese e di politiche di sviluppo. Sono sufficienti questi 230 miliardi - ricordiamo che il PNRR va accompagnato a un fondo complementare? Sono importanti ma non sufficienti. Non possiamo pensare che basti il PNRR per colmare tutte le arretratezze dell’Italia. Dare una risposta oggi sul terreno del sociale e quindi delle grandi disuguaglianze che si sono create necessita sicuramente di investimenti straordinari dell’Unione europea ma anche della messa a sistema dei fondi strutturali e ordinari e, soprattutto, degli investimenti del bilancio ordinario.

Se io non ho investimenti sufficienti sul bilancio ordinario, rischio di agire solo parzialmente. Mi spiego meglio: se non ho a disposizione gli strumenti economici per consentire ai comuni di assumere le insegnanti, le educatrici negli asili nido, costruisco l’asilo nido ma poi mi mancano le risorse per farlo funzionare. Se costruisco delle scuole e, come è giusto fare, promuovo un grande piano di edilizia scolastica ma poi non risolvo il problema del precariato nella scuola, e quindi non faccio una considerevole operazione sul versante degli organici, rischio di dare solo una parte della risposta. E ancora, se io scelgo di mettere tante risorse sulla ricerca, ed è imprescindibile, ma poi non affronto i temi della stabilizzazione dei ricercatori precari, posso mai pensare di aver risolto del tutto il problema? E quindi il punto qual è? Non possiamo in questa fase non avere forti investimenti pubblici delle politiche di bilancio ordinarie e non sostenere il Pnrr anche con il bilancio statale. Per fare questo abbiamo, però, due ordini di complessità: da una parte, la governance europea e le scelte sulla revisione del patto di stabilità e crescita (con la vicenda ucraina si sta valutando di spostare al 2023 la sospensione del patto) che faranno la differenza per il nostro paese tra il poter o il non poter investire; dall’altra, il fatto che bisogna trovarle, le risorse. E per trovarle serve avere una politica fiscale equa e redistributiva. La legge delega che in questo momento è in discussione in parlamento potrebbe essere uno straordinario strumento per fare redistribuzione ed equità sul piano fiscale e per fare una seria lotta all’evasione, tenuto conto che l’Italia è sempre lo stesso paese che ogni anno lascia nelle tasche degli evasori 100 miliardi, la metà delle risorse del Piano nazionale di ripresa e resilienza.

Nel caso della scuola, riscontriamo l’intenzione di affrontare, seppur per una parte degli edifici, l’annoso problema della messa in sicurezza e della riqualificazione dell’edilizia scolastica. Si evoca la volontà di appianare i considerevoli divari territoriali esistenti e di abolire le classi pollaio, che si sono dimostrate del tutto inadeguate nel corso della pandemia. Quali sono gli obiettivi da perseguire nell’ottica di un rinnovamento strutturale del mondo della scuola?

Oltre alle cose materiali che si possono fare attraverso il Pnrr, credo che il punto cruciale sia esigere e fare in modo che la scuola diventi terreno centrale dell’agenda politica del paese. Oggi non è così. Se ne parla, molto, ma non diventa terreno centrale di investimento. Ed è proprio questo il problema. Quando dico che servono politiche anche nazionali alludo al fatto che oggi, se si intendono fare veramente le politiche per la next generation, cioè per la generazione del futuro, bisogna partire dai più giovani e dal sistema di istruzione, che si deve qualificare affrontando la questione del personale, da un lato, e promuovendo interventi di riforma, dall’altro. Noi abbiamo ancora un sistema orientato agli anni ‘60. Chiediamo da tempo come CGIL, per esempio, che si innalzi il livello di istruzione e che quindi si vada incontro a un obbligo scolastico fino ai diciotto anni, che si qualifichino i percorsi di istruzione affrontando tutto il terreno del rapporto con le prospettive di innovazione nel nostro paese. Serve un’operazione di qualificazione vera e complessiva. Non mi sembra che siamo in questa dimensione. Anzi, purtroppo, sempre più spesso notiamo che viene dato ampio spazio a coloro che negli anni hanno ridotto, tagliato il sistema di istruzione e che rimettono in campo idee vecchie e inefficaci che rischiano di nuovo di far perdere un’occasione preziosa alla scuola italiana e, in generale, secondo me, all’Italia perché intervenire sulla scuola significa dare una prospettiva al paese. 

La battaglia alla precarietà, fattore trasversale a tutti i settori della conoscenza, è stata un tema cardine dell’assemblea d’organizzazione della CGIL tenutasi dal 10 al 12 febbraio a Rimini. Quali sono le maggiori rivendicazioni del sindacato? In che modo, a partire dagli assunti del Pnrr, si può operare un intervento strutturale per scongiurare la creazione di nuove sacche di precarietà?

Il PNRR deve essere orientato a un’occupazione di qualità. Il dato che abbiamo di fronte è una crescita fino almeno al periodo antecedente allo scoppio del conflitto in Ucraina. Avevamo, da una parte, un dato di crescita molto alto, tecnicamente un rimbalzo, ma, dall’altra, un dato pesantissimo sul terreno della qualità dell’occupazione, che si declina nell’aumento della precarietà e dei contratti discontinui. Questo è secondo noi il grande tema che abbiamo nel paese: accompagnare il processo di sviluppo con tipologie di lavoro che siano stabili e diano prospettive. Noi non siamo in questa condizione perché nel corso degli anni proprio sul lavoro si è fatta svalutazione competitiva da due punti di vista: salariale, impoverendo le lavoratrici e i lavoratori, e nell’ambito dei diritti, fino ad approdare al cosiddetto Jobs Act. Quindi oggi ripensare il modello del mercato del lavoro significa rimettere al centro un accesso che sia caratterizzato da stabilità e soprattutto che abbia sul terreno della formazione degli elementi molto forti. Per questo noi diciamo che va cambiato l’inserimento al mondo del lavoro e va pensato un contratto di natura formativa a tempo indeterminato, che consenta oggi ai più giovani di accedere. Non gli stage, i tirocini, tutte le collaborazioni per le quali, in alcuni casi, non si tratta nemmeno di rapporti di lavoro - penso ai tirocini. Va disboscato il mercato del lavoro da tutta la congerie di modelli a cui ho accennato. Da questo punto di vista, il PNRR potrebbe condizionare gli investimenti. Ce ne sono moltissimi che riguardano le imprese private e il PNRR potrebbe finalizzarli, qualificarli. Tutto ciò può essere fatto, ma serve la volontà politica per farlo. Questo è il motivo per cui abbiamo lanciato nella conferenza d’organizzazione un messaggio netto: oggi rimettere al centro il lavoro vuol dire fare una grande operazione di contrasto alla precarietà, altrimenti sono chiacchiere.

Sempre a proposito di precarietà, ciclicamente, le istituzioni si interrogano rispetto al fenomeno dei NEET (dall’acronimo inglese Neither in Employment nor in Education or Training), ovvero le ragazze e i ragazzi che non sono inseriti né in percorsi formativi né lavorativi. Su questo fenomeno l’Italia vanta un preoccupante primato europeo. Le misure previste nel Pnrr riescono a fornire delle soluzioni credibili o sono ancora una volta insufficienti?

È vero: abbiamo questo record negativo di dispersione scolastica e di giovani che non studiano né lavorano. Io credo che o si delinea un quadro sistematico di interventi o non si può pensare che interventi spot possano risolvere la questione. Per quanto ci riguarda chiediamo che ci si avvalga di tutti gli strumenti necessari, anche di sostegno alla ripresa del percorso di istruzione per chi ne è uscito fuori. Sarebbe utile, come abbiamo ribadito di recente, guardare alle esperienze virtuose intorno a noi. Altri paesi promuovono politiche finalizzate alla ripresa del percorso di istruzione e formazione con risorse dedicate. Mi viene in mente la Danimarca e la sua ormai consolidata sperimentazione di un reddito di garanzia finalizzato alla formazione per le ragazze e i ragazzi fuoriusciti. Ci sono tanti strumenti che si possono mettere in campo però vanno accompagnati a due condizioni: la prima, che siano fortemente centrati sui percorsi di istruzione e formazione, la seconda, che non siano connotati dalla precarietà. Perché se l’unico strumento che trovo è lo stage o uno stage spesso finto, che nasconde in realtà un rapporto di lavoro subordinato, è evidente che perpetuo lo stesso sistema che mi espelle dal mercato del lavoro perché non mi dà la possibilità di accedere o di formarmi per rientrare. Aggiungo un elemento di riflessione: siamo in una fase di rapidissimo mutamento dei processi e dei modelli produttivi per effetto delle due transizioni che hanno la caratteristica, rispetto ai salti tecnologici del passato, di essere più rapide. Ne è la prova che da qui al 2030 l’Unione Europea stabilisce una serie di obiettivi sul Green Deal o sull’impatto impressionante che la digitalizzazione sta avendo nel mondo del lavoro. Questo è un passaggio che, per forza di cose, comporterà un grande processo di riqualificazione.

Non a caso l’Unione Europea parla di upskilling e reskilling (con upskilling si intendono i programmi che hanno l’obiettivo di far sviluppare al lavoratore dipendente nuove competenze nello stesso campo di lavoro, con reskilling lo sviluppo di abilità che possano permettere al dipendente di ricoprire un ruolo diverso - NdR). Noi abbiamo la necessità, a partire dai più giovani e da coloro che sono fuoriusciti dal percorso di istruzione e non sono ancora in un percorso lavorativo, di pensare politiche dedicate, formative, per garantire loro di reinserirsi o inserirsi in un mercato del lavoro che sta cambiando profondamente. Inoltre, abbiamo l’urgenza di fare una grande operazione di riqualificazione di chi già lavora. Questo tema non può essere un di cui delle politiche attive, delle politiche dell’istruzione. Necessita di una grande strutturalità: o è sistematico prevedere strumenti e soggetti che facciano formazione permanente per tutto l’arco della vita, affinché questa formazione sia esigibile e non casuale o eventuale, o noi pensiamo che questo sarà il grande terreno che avremo di fronte e che riguarderà sia chi lavora sia chi non lavora e quindi proviamo anche a fare sistema su un fronte profondamente frammentato, o noi rischiamo grosso per il paese. È evidente che questo comporta, per quanto concerne il mondo della formazione e la sua capacità di accogliere le ragazze e di ragazzi, un profondo intervento di riforma. Fare questo, tenendo conto che per quanto ci riguarda va innalzato l’obbligo scolastico, significa investire moltissimo sulla scuola. 

Nel Piano viene riservato ampio spazio alla ricerca, che beneficerà di investimenti significativi per un settore da tempo sottodimensionato e in deficit di risorse. Come giudichi la missione relativa alla ricerca? In un periodo storico in cui abbiamo fatto i conti con l’evidenza del valore della ricerca scientifica non siamo forse chiamati a immaginare una continuità di interventi a sostegno di questa anche oltre il PNRR?

Ci sono tante risorse sulla ricerca ma la critica che noi abbiamo avanzato è che queste risorse sono un po’ troppo piegate sul terreno della ricerca applicata nel rapporto con le imprese. D’altronde la missione si chiama “Dalla ricerca all’impresa”, dimenticando completamente una delle lezioni apprese durante la pandemia e, cioè, che oggi si combatte anche con eventi assolutamente inimmaginabili come una pandemia attraverso un forte investimento sulla ricerca di base. Io penso che avremmo potuto fare di più da questo punto di vista e che dobbiamo fare di più in generale perché, al netto del Pnrr, siamo sempre il paese che investe di meno in ricerca e si vede.

Allora, se di fronte a noi stiamo sperimentando eventi imprevedibili come la pandemia ma anche un processo di grande trasformazione che avrà bisogno necessariamente di un forte investimento nella ricerca e nella conoscenza, dobbiamo prendere atto sia che abbiamo sbagliato tutte le politiche degli ultimi vent’anni con la conseguente riduzione drammatica degli investimenti nella ricerca sia che dobbiamo rincorrere rapidamente un obiettivo. Va fatta una grande operazione attraverso i fondi di bilancio ordinario sul terreno della ricerca pubblica. È cruciale per garantire anche quella struttura di base necessaria a sviluppare tutta la partita della ricerca applicata, che è innegabilmente importante in questa fase ma è importante soprattutto per sostenere il processo di sviluppo del paese. Comprendere questo significa fare un salto di qualità. Esempio ne sono tutti gli interventi che si debbono e possono fare per trovare risposte per quanto riguarda le nuove risorse energetiche rinnovabili. Come CGIL abbiamo fatto lo scorso 24 febbraio una bella iniziativa a cui era presente il premio Nobel Giorgio Parisi che diceva esattamente questo: una grande carta a disposizione dell’umanità per affrontare per la prima volta nella sua storia un’irreversibilità sul terreno ambientale e una finitezza delle risorse è provare, con l’intelligenza e con la scienza, a trovare delle soluzioni. E questo lo si può fare solo ed esclusivamente se si investe su chi intelligenza e scienza ne ha, quindi accademie e ricerca pubblica.

Tutti gli interventi devono essere realizzati entro il 2026. Regioni, comuni ed enti territoriali ricoprono un ruolo cruciale nell’attuazione delle sei missioni, pur avendo subito negli ultimi dodici anni di politiche scellerate una perdita di personale di oltre 130 mila unità. A questo dato allarmante si accompagna il tema della ripartizione delle risorse tra le diverse aree del Paese. Insomma, il percorso di attuazione del Pnrr appare più arduo del previsto. Come ovviare a questi problemi e di quali strategie bisogna dotarsi?

Come ho accennato, bisogna anzitutto rafforzare la capacità amministrativa che vuol dire fare un grande piano di investimento e occupazione pubblica. Credo che lo si possa fare anche rapidamente. Anzi, lo si sarebbe già dovuto fare, perché oggi garantire l’attuazione e la progettazione in un arco così limitato di tempo significa avere le persone che lo possano fare e oggi in tanti contesti le persone non ci sono. Anche questo non avviene per caso, ma perché si è interrotto il turnover e nel corso degli anni non sono state fatte le assunzioni necessarie. Non è stata rafforzata una rete strategica come quella della pubblica amministrazione. Anzi, con la retorica dei fannulloni si è pensato che tutti i problemi fossero lì. Ci siamo dati, direi, la zappa sui piedi.

Seconda questione: bisogna orientare di più le scelte. Il sistema dei bandi rischia di non tenere adeguatamente conto delle necessità del paese. Questo è il punto. La scelta non governata delle politiche di investimento, come nel caso del Pnrr, è una scelta sbagliata. Allora serve maggior condivisione, maggior partecipazione, anche nella definizione delle strategie, ma soprattutto serve maggior orientamento. Faccio l’esempio ricorrente degli asili nido: il sud ha mediamente un livello di presenza degli asili nido molto basso rispetto al centro e al nord. Se io devo fare un’operazione che non è soltanto fare la "media del pollo" nel 2026 ma pensare che do una risposta a quei territori, scelgo di investire prioritariamente lì. È una scelta che va governata, non la posso fare attraverso i bandi. Non mi interessa neanche il 40% perché noi, per esempio, in Sicilia o in Calabria abbiamo bisogno altro che del 40%! Questa sarebbe una leva straordinaria anche dal punto di vista dell’occupazione soprattutto femminile.

Dopodiché, una cosa deve essere chiara: non possiamo pensare al 2026 come a una deadline degli investimenti. Per quanto ci riguarda, il Next Generation EU deve accompagnare i processi di trasformazione e quindi arrivare almeno al 2030. Dobbiamo entrare nell’ottica che le risorse che verranno comunque a mancare a un certo punto le sostituiamo con risorse nazionali, perché è impensabile interrompere il processo, rischieremmo improvvisamente di trovarci in una condizione di arretramento. 

Lo scorso 23 dicembre è stato siglato il Protocollo per la partecipazione delle organizzazioni sociali alla gestione del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Un risultato importante ottenuto dopo mesi di pressione da parte delle organizzazioni sociali più rappresentative, tra cui la CGIL, affinché il confronto sul PNRR non fosse episodico o eventuale. Qual è la portata del Protocollo e che ruolo avrà il sindacato?

Il Protocollo è straordinariamente importante perché è frutto, prima di tutto, di un intervento del parlamento sulla base di un emendamento presentato da CGIL, CISL e UIL. Non era previsto nel decreto governance del PNRR. Stabilisce che preventivamente le scelte di investimento e di riforma debbano essere discusse con le organizzazioni sindacali e di rappresentanza sociale. È importante a tutti i livelli. A livello nazionale perché apre la strada per alcuni confronti mirati - dall’automotive all’energia e quant'altro -, ma soprattutto perché garantisce la possibilità, sul terreno degli investimenti ma anche delle riforme, di confrontarsi preventivamente su tutte le scelte che hanno ricadute dirette o indirette sul lavoro. È uno strumento di partecipazione reale. A livello territoriale, è ancora più significativo perché purtroppo sappiamo che in tanti casi le scelte che si stanno facendo o che sono state fatte sono avvenute senza nessun confronto con le organizzazioni sindacali. E oggi confrontarsi e definire dove faccio l’asilo nido, dove colloco la casa della salute, quali interventi sul versante energetico decido di promuovere fa la differenza tra garantire o determinare nuova occupazione. Si stanno firmando alcuni Protocolli. Già alcune regioni lo hanno fatto, penso alla Puglia e al Lazio, altri territori lo stanno facendo. Credo sia uno strumento anche innovativo sul versante delle relazioni industriali e sindacali perché introduce un’idea di negoziazione per lo sviluppo che è il terreno importante sul quale il sindacato a tutti i livelli si deve cimentare. Non è la contrattazione classica, è qualcosa di diverso che prova a costruire le condizioni, attraverso il confronto preventivo, per determinare nuova occupazione e per evitare che alcuni processi siano devastanti sul versante del lavoro.    

 Questa intervista è stata pubblicata sul numero 1 di gennaio/marzo 2022 di Articolo33. 

L'autore

Ilaria Iapadre